- ANTEPRIMA -
FINAL FANTASY VII
REBIRTH
Io non so che persona sia nella vita Yoshinori Kitase, ma tutte le volte che l’ho incontrato nelle fiere e negli eventi stampa mi è sempre sembrato un patatone. Forse è il suo volto che sembra sereno con quel mezzo sorriso sopra, forse sono gli occhi spesso ridotti a una fessura, forse un’aura invisibile di calma che lo circonda, ma mi ha sempre dato l’idea di uno che quando ci parli, anche se dici fesserie, annuisce con cortesia.
Di sicuro è un tipo paziente.
Ma di quella pazienza ultraterrena che lo pone su un piano diverso rispetto agli esseri umani. Se hai infatti lavorato a Final Fantasy XIII e non contento hai deciso di fare il remake di Final Fantasy VII deve per forza esserci una componente divina nel modo in cui interagisci con il genere umano. Perché la community di Final Fantasy è sì amorevole e dedicata, ma pure intransigente e reazionaria come poche altre.
E quindi grazie Yoshinori-San per non aver perso la fiducia in noi ed esserti caricato sulle spalle quell’accollo infinito che è il quarantenne con il ditino alzato che ti dice che Final Fantasy VII non lo devi modificare, che “let’s mosey” ormai è canone, che la materia Kujata sta nel terzo cespuglio a sinistra e non nel quarto a destra. Grazie per per aver ascoltato con aria serafica tutti questi precisi quanto inutili appunti, per aver sorriso con aria sorniona e aver deciso di fare come volevi tu, come un genitore deciso che sa che è il momento per sua figlia o suo figlio di cambiare giocattolo.
Final Fantasy VII Rebirth è il secondo capitolo della trilogia che non solo ricostruisce, ma re-immagina uno dei giochi più importanti degli ultimi trent’anni. Remake, la prima parte di questa enorme operazione, ha stabilito alcune regole di base che Rebirth dovrà ampliare, primo fra tutti il fatto che non è affatto detto che le cose andranno, in termini di sviluppo narrativo, come nel 1997. Al netto di una messa in scena a tratti goffa e ad alcune scelte che con il senno di poi non si sono rivelate così azzeccate, Final Fantasy VII Remake ha tenuto per il mano il giocatore per tutta la parte iniziale del gioco originale, partendo come una riproposizione fedele, quasi shot by shot, per poi mano a mano divergere e seguire una strada tutta sua. Per rendere questo passaggio ancora più manifesto ha introdotto una figura, quella del Numen, che è una sorta di guardiano del destino: ogni volta che il Remake si prendeva qualche libertà narrativa questi apparivano proprio per accarezzare il giocatore e dirgli “hai visto? non è successo di niente di male anche se qua abbiamo fatto diversamente”. Remake ha avviato un dialogo con il giocatore, magari non esprimendosi a volte nel miglior modo possibile, ma i cui presupposti sono chiarissimi e per me pure sacrosanti: noi rifacciamo Final Fantasy VII come ci avete sempre chiesto, con un impianto moderno e una scala spropositata, ma lo rifacciamo a modo nostro.
E indovinate? Va bene così.
Rebirth deve quindi costruire su questa fondamenta solide ma talvolta contestate, perché alcuni giocatori tendono ad avere con i propri giochi del cuore una relazione talvolte abusiva, un rapporto di possesso nel quale è inaccettabile che le cose a cui sono affezionati vengano contestate, modificate o evolute. Insomma, che possano crescere.
E da quello che ho potuto vedere in un evento organizzato a Londra da Square Enix, l’editore del gioco, direi che Kitase e Hamaguchi hanno certamente costruito molto su quelle fondamenta. Forse non tutto in maniera solidissima, ma certamente con estrema passione, rispetto per il gioco originale e parecchia ambizione. La demo comprendeva i primi due capitoli del gioco: il primo inizia dove finiva il precedente capitolo, con il gruppetto dei protagonisti arrivati a Kalm Town dopo essere fuggiti da Midgard e intenti a ricordare cosa successe a Nibelheim diversi anni prima. Il secondo è invece l’arrivo nelle Grasslands, dove il mondo di gioco e le ambizioni di cui sopra vengono palesate con una certa consistenza.
Partiamo da qua.
Final Fantasy VII Rebirth appare sin da subito un gioco molto più grande, vario e ricco di Remake. Il primo episodio della nuova trilogia era una serie di corridoi e cunicoli in quel di Midgard mentre il secondo presenta una mappa aperta di grandi dimensioni, con attività secondarie, quest opzionali e punti di interesse che si scoprono solo andandoci vicino. Il cambio di passo è evidente e quasi spiazzante perché lascia immaginare che in Rebirth ci saranno almeno due o tre di queste grandi mappe esplorabili (molto più di quelle di Final Fantasy XVI, per fare esempi di giochi più recenti). L’impostazione arriva ad essere quasi quella degli open world, con alcune torri (sia in senso concettuale che letterale) che una volta attivate riempiono la mappa di attività secondarie. Per quello che ho potuto vedere (sono le primissime attività nella primissima mappa aperta) queste sono certamente più interessanti di quelle di Final Fantasy XVI, e almeno provano ad essere una variazione di gameplay e di narrativa rispetto alla storia principale.
Ci sono alcune aree da liberare, mostri da uccidere o luoghi in cui investigare: un campionario non particolarmente originale ma quantomeno più interessante rispetto all’ultimo capitolo della serie principale.Un elemento su cui poi il team di sviluppo si è particolarmente concentrato è quello legato alla presenza dei minigiochi. Giù nell’originale questi erano tanti e distintivi (gli squat di Cloud, Fort Condor, le corse dei Chocobo), ma in Rebirth tutto sembra portato a un nuovo livello: ogni volta che ne hanno avuto l’occasione, gli sviluppatori hanno inserito un minigioco. Nulla di rivoluzionario, sia chiaro, ma certamente apprezzabile. Il punto più alto di questo sforzo produttivo è certamente rappresentato da Queen’s Blood, un gioco di carte che va in sostanza a ricoprire il suolo di Triple Triad di Final Fantasy VIII o del Tetra Master del nono capitolo. Si possono sfidare NPC sparsi in giro per il mondo, vincerne le carte e migliorare il proprio mazzo. Il gioco è gradevole (si usano le carte e le loro abilità per conquistare una delle tre corsie in cui è diviso il campo da gioco) e testimonia ancora una volte l’impegno di Square Enix di fare di Rebirth un gioco ricco di contenuti, di quelli che ti impegnano per ore se li vuoi ultimare tutti e in generale una specie di parco a tema che racchiuda in sé tutto quello che la collection di Final Fantasy VII ha prodotto negli ultimi 25 e più anni.
Rebirth è anche però un gioco in cui si combatte, e si combatte bene. Ancora una volta Kitase, Nomura e Hamaguchi hanno costruito su un sistema di combattimento solido ma soprattutto capace di racchiudere in sé sia l’anima dell’originale che qualcosa di moderno e dinamico. Potete usare sempre un personaggio per volta ma scegliere liberamente dai tre che compongono la vostra squadra in quel momento chi deve fare cosa, gestendo così il combattimento con grande polso. Avendo già da subito più personaggi tra cui scegliere sarà necessario (magari necessario no ma utile sì) iniziare a farsi un’idea più chiara su quale possa essere il proprio stile di combattimento e la squadra preferita. Questo permetterà non solo di affinare il proprio stile ma anche sfruttare al massimo gli attacchi e i potenziamenti sinergici, che sono colpi e upgrade che si attivano solo quando ci sono personaggi specifici in squadra. Final Fantasy VII Rebirth è un capitolo di mezzo che vuole però sin da subito partire con una sua forte connotazione (si parte tra l’altro tutti dallo stesso punto non essendoci la possibilità di importare i salvataggi precedenti), aprendo sin da subito i suoi orizzonti e offrendo, almeno da quello che si può intuire fino ad ora, un’offerta contenutistica enorme. Da quello che si è potuto vedere e dall’intelligenza di alcune scelte non fatico a credere che possa diventare a conti fatti uno dei migliori Final Fantasy per ambizione dell’operazione, numero di contenuti e qualità generale della produzione.
Se però Rebirth vuole davvero essere qualcosa di più che un semplice remake deve avere il coraggio di osare. E tanto.
Final Fantasy VII diventò un’esperienza memorabile perché ebbe un coraggio enorme. Pur di raccontare quello che voleva raccontare, uccise un personaggio fino a quel momento fondamentale. Pur di dare una rotondità ancora maggiore al suo protagonista ne modificò totalmente i ricordi, consegnando alla storia un personaggio fragile, che vive (come tutti), un percorso di rinascita. Non bisogna però pensare che basti cambiare la storia e le meccaniche di gioco per far diventare la trilogia remake un classico anche di questa generazione: serve lasciarsi alle spalle scelte di design e di caratterizzazione dei personaggi ormai appartenenti a un’altra epoca. Serve capire che riempire di quick time event una scena non vuol dire renderla interattiva, serve cambiare il ritmo del racconto per essere più contemporanei, così come più contemporanea deve essere la regia. Serve infine scrivere dei personaggi che siano credibili, moderni e veri, che le donne siano indipendenti e non solo funzionali agli uomini del gruppo. Serve lasciarsi alle spalle un po’ di fan service e magari rendersi conto che se già nel 1997 vestire Tifa da cowgirl non era esattamente una grande idea, rifarlo nel 2024 è decisamente peggio.
Non so ancora cosa succederà alla Capitale Dimenticata, il posto dove Final Fantasy VII Rebirth si chiuderà, ma mi sembra abbastanza placido che qualcosa di importante della storia del gioco originale verrà cambiata, così da entrare, per davvero, in un meraviglioso territorio inesplorato. Farlo sarebbe il più grande segno di rispetto per un gioco seminale, che in quella stessa posizione, oltre 25 anni fa, non ebbe paura di osare.
Pubblicato il: 05/02/2024
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