PERSONA
Tra maschere, identità e accettazione di sé stessi
Come Atlus ha sbirciato nel cuore del mondo
MEGAMI IBUNROKU PERSONA - Le Origini
È notte e dei ragazzi sono chiusi in una scuola e stanno giocando al gioco dei Persona. Il gioco dei Persona, che nella pratica è molto simile al ripetere tre volte Bloody Mary di fronte ad uno specchio a mezzanotte, li mette in contatto con i veri sé stessi, quindi con i loro Persona. Mentre i ragazzi scoprono di poter evocare quelli che sono praticamente l’equivalente degli stand de Le Bizzarre Avventure di Jojo che rappresentano la loro personalità celata, però, la loro città viene invasa dai demoni. È l’incipit di Megami Ibunroku Persona o, come verrà localizzato una volta esportato negli Stati Uniti, Revelations: Persona, ed è l’inizio di una serie che nel tempo diventerà importantissima per l’evoluzione dei JRPG. Persona mette in chiaro da subito quali siano le sue intenzioni: è un videogioco che parla tra le altre cose delle difficoltà dell’adolescenza e della crescita, metaforizzate per l’appunto dai Persona, che altro non sono se non tratti della personalità in eterno mutamento dei protagonisti.
La prima epoca della serie è legata a doppio filo a tre figure fondamentali per Atlus per i MegaTen in generale. Il primo è il director Kouji Okada, che diresse Shin Megami Tensei II, If…, e Devil Summoner, creando quindi alcuni degli spin-off più importanti di tutta la serie; il secondo è lo scrittore Tadashi Satomi, che iniziò la sua collaborazione con l’azienda proprio con Persona e che avrebbe poi scritto lo scenario della duologia di Digital Devil Saga; il terzo è sua maestà Kazuma Kaneko, vulcanico illustratore che si occupò di creare l’identità del franchise disegnando demoni, personaggi, mascotte e campagne pubblicitarie e che ancora oggi è una delle persone più importanti per Atlus. I tre, ispirati per loro stessa ammissione dalla popolarità di certi videogiochi più casual pubblicati su PlayStation, guidarono il team verso la creazione di un titolo che possedesse chiaramente il DNA di un Megami Tensei ma che fosse più semplice da approcciare e che parlasse ad un pubblico leggermente più ampio. La presenza di Okada fece sì che Persona fosse il giusto punto d’incontro tra l’esplorazione tipica dei MegaTen e le intuizioni corrette del gameplay di If e del suo Guardian System, rimaneggiato per l’occasione in modo da essere più intuitivo e, soprattutto, che rappresentasse il fulcro della narrativa del gioco.
A guardarlo oggi, Persona è evidentemente lontanissimo da ciò che la serie è diventata nelle sue ultime incarnazioni. L’esplorazione è mutuata dal dungeon crawling in prima persona di Shin Megami Tensei, lo spawn dei nemici da combattere è casuale e le battaglie si svolgono a turni su una piccola griglia in cui il posizionamento dei vari membri del party è fondamentale nell’organizzazione “tattica” dello scontro. La formula è ancora acerba, ma funziona, soprattutto perché è messa al servizio di un videogioco che ancora oggi non ha perso un grammo del suo fascino e che, di per sé, rappresenta una piccola e riuscita rivoluzione all’interno di quello che è uno dei franchise più longevi della storia del medium. Venne mantenuta la possibilità di parlare coi demoni incontrati in battaglia per negoziare con loro e ottenere oggetti o carte contenenti l’essenza dei demoni stessi da poter evocare durante l’avventura. Allo stesso tempo, come dichiarato da Okada e Kaneko, la loro passione per il cinema di David Lynch li spinse ad introdurre all’interno del gioco la Velvet Room - esplicitamente ispirata alla Loggia Nera di Twin Peaks - e il suo custode Igor, capace di fondere tra loro le carte dei demoni per crearne di più potenti e permettere così di rinnovare costantemente il party.
"We’ve heard that a lot, yeah 'this isn’t Megami Tensei!' followed quickly by 'But it’s really fun!'"
- Kouji Okada (Shmuplations.com)
Intendiamoci: parliamo di un videogioco palesemente figlio della sua epoca, spesso poco chiaro e controintuitivo e penalizzato da dei problemi che oggi sono più evidenti che mai. La negoziazione coi demoni è tediosa e frustrante, certe scelte di game design vanno ad innalzare artificialmente la difficoltà di alcune sezioni del gioco e ci sono parecchi contenuti inottenibli se non seguendo una guida che spieghi esattamente in che sequenza compiere certe azioni o scelte. Nonostante questo, però, Persona ha un’atmosfera davvero unica nel suo genere e dei momenti riuscitissimi. È chiaramente invecchiato e personalmente lo consiglierei solamente a chi come me non può fare a meno di approfondire ogni capitolo delle serie che ama, ma la sua rilevanza anche solo storica è innegabile.
Come già detto, una volta arrivato in America, Megami Ibunroku Persona cambiò nome in Revelations: Persona, ma quello fu forse il cambiamento meno problematico di tutti. La versione occidentale di Persona, infatti, venne letteralmente martoriata da una delle localizzazioni più aggressive e insensate della storia del medium. Preoccupato che il pubblico americano non potesse capire neanche lontanamente un videogioco “così giapponese”, il team che si occupò della localizzazione ne stravolse profondamente i riferimenti culturali, ne occidentalizzò i nomi e cambiò del tutto l’etnia di Masao, che in America divenne afroamericano. Questo tra l’altro ha portato a delle situazioni paradossali, perché in originale i personaggli danno spesso della “scimmia” (una presa in giro piuttosto comune in Giappone) a Masao, ma queste frasi di scherno non vennero alterate nella versione tradotta trasformandosi quindi in epiteti involontariamente razzisti. Tra le varie mutilazioni inflitte al materiale originale peraltro c’è anche la completa rimozione della Snow Queen Route, una storyline secondaria e “segreta” che è quasi un gioco a sé con tanto di finali multipli e unici dedicati. Atlus tentò di rimediare tanti anni dopo quando pubblicò il remake su PSP (stavolta intitolandolo Shin Megami Tensei: Persona, perché orientarsi tra i MegaTen non è mai abbastanza complesso), rimuovendo tutte le modifiche apportate dai localizzatori della versione PlayStation e includendo finalmente anche la Snow Queen Route, ma decise anche di rimaneggiare la colonna sonora originale di Shoji Meguro arrivando quasi a dimezzarne le tracce e a cambiare anche drasticamente il mood del gioco. Esiste una patch amatoriale che va a reinserire la OST originale, ma è ovviamente relegata al solo mondo dell’emulazione.
PERSONA 2 - Il potere dei Rumor
Pubblicato nel 1999, Persona 2: Innocent Sin è il primo capitolo della duologia che va a chiudere il primo dei due periodi della serie. Tornano Okada e Kaneko. Torna pure Tadashi Satomi, che con Innocent Sin ottiene molta più libertà di spaziare con la sua scrittura. Proprio il lavoro di Satomi, o meglio il timore che il suo lavoro non venisse compreso in occidente, impedì a Persona 2: Innocent Sin di venire pubblicato al di fuori del Giappone (almeno fino al remake per PSP del 2011), rendendo così l’occidente orfano di un JRPG semplicemente incredibile. Innocent Sin si allontana leggermente dalle sue origini, abbandonando l’esplorazione in prima persona, semplificando nettamente la negoziazione coi demoni e modificando leggermente la gestione del combat system. Vennero peraltro applicati dei miglioramenti notevili in termini di quality of life, per esempio riducendo i tempi di caricamento rispetto al primo capitolo e offrendo molti più punti di salvataggio che in passato.
Inutile girarci intorno: Innocent Sin è un videogioco completamente fuori di testa, in senso buono però. La sua narrativa si basa sul gossip, le voci di corridoio e sulla convinzione giapponese che le parole abbiano il potere di influenzare sia il piano fisico dell’esistenza che quello spirituale. Nello specifico questo significa che i protagonisti, che sono ancora una volta studenti delle scuole superiori, sono chiamati a fronteggiare un’entità che ha sconvolto la città diffondendo strane voci sulla comparsa di demoni assetati di sangue. Il concetto su cui si basa Innocent Sin è che ogni bugia, se ripetuta ossessivamente, può diventare realtà, materializzando così mostruosità di ogni tipo nelle strade e nelle scuole. All’interno di queste monografie non voglio fare spoiler quando non ce n’è bisogno, ma sappiate ad un certo punto il rumor che comincia a circolare è che Adolf Hitler è risorto e sta invadendo il Giappone con un’armata di tecno-soldati armati fino ai denti. Io ve l’ho detto che Persona 2 è un gioco fuori di testa.
Quello dei pettegolezzi è un sistema che ho sempre trovato semplicemente geniale. Folle nella sua applicazione, ma perfettamente contestualizzato in un’opera che di fatto parla di un gruppo di adolescenti costretti in un ambiente come quello scolastico in cui un pettegolezzo può arrivare a distruggere la vita di una persona, soprattutto in un paese in cui il bullismo sembra una piaga inestirpabile come il Giappone.
"My definition of “rumor” is when a person makes a judgment based on their own preconceptions and prejudices, and then recklessly disseminates that to the wider world. When that stuff circulates and circulates, you know… it could eventually become a sin."
- Kazuma Kaneko (Shmuplations.com)
Il twist estremamente azzeccato di Persona 2 è che per mandare avanti la narrativa c’è bisogno che il rumor si diffonda tra le persone in maniera tale da permettere che diventi effettivamente realtà, quindi spesso è il giocatore stesso a dover spargere una bufala tra più NPC possibili per poter progredire. Il combat system, per il resto, rimane molto simile a quello del primo capitolo, se non che le battaglie di Innocent Sin abbandonano il sistema a griglia per semplificare lievemente la propria struttura.
Siccome l’obiettivo principale di Atlus sembra essere quello di complicare terribilmente la vita di chiunque tenti di avvicinarsi alle sue serie di punta, è bene tenere a mente che Persona 2: Innocent Sin è l’unico capitolo della serie ad avere un sequel diretto. Nel 2000, infatti, vede la luce Persona 2: Eternal Punishment, questo peraltro localizzato in inglese e pubblicato negli Stati Uniti su PlayStation. Inspiegabilmente, quando Atlus pubblicò il remake di Eternal Punishment su PSP non lo localizzò in inglese e non lo distribuì mai al di fuori del Giappone. Questo signfica che se voleste recuperare questa duologia (che va intesa in realtà come un unico grande titolo diviso in due parti un po’ come successe con Golden Sun e Golden Sun: L’Era Perduta) in Inglese dovreste giocare prima il remake per PSP di Innocent Sin e poi la versione originale di Eternal Punishment su PlayStation. Una follia senza senso.
Del gioco non c’è molto da dire, dal momento che pregi e difetti di Innocent Sin vengono ereditati con qualche piccola miglioria da Eternal Punishment, che per la prima e unica volta nella storia della serie vede come protagonista un’adulta e non una liceale. Non vi parlerò della trama, dal momento che vorrebbe dire spoilerare per intero tutto Innocent Sin, ma vi basti sapere che, anche se Satomi ha adottato un approccio meno estremo rispetto ad Innocent Sin e ai suoi tecno-nazisti impazziti, parliamo ancora una volta di un videogioco per molti aspetti incredibile per l’epoca.
PERSONA 3 - Un nuovo inizio
Eternal Punishment chiude il cerchio iniziato pochi anni prima e, nonostante il successo tutto sommato notevole ottenuto anche in occidente, lasciò spazio ad un lungo silenzio durato ben sei anni. I primi tre capitoli della serie ne avevano stabilito le fondamenta e avevano cementato l’importanza dei suoi creatori all’interno di un genere che ad inizio millennio stava cominciando a perdere terreno all’interno del mercato. Tra il 2000 e il 2006 Atlus si concentra su Shin Megami Tensei III: Nocturne, ancora oggi considerato uno dei videogiochi più importanti della sua epoca, e su Digital Devil Saga 1 e 2. Di Persona non c’è traccia. Kaneko, Okada e Satomi, evidentemente, non hanno più nulla da dire. Alla serie serve una rinfrescata, ed è proprio per questo che il timone passa nelle mani di Katsura Hashino che decide di stravolgerla. Persino Kaneko fa un passo indietro per la prima volta, lasciando che a disegnare personaggi, scenari e personae sia un giovanissimo e talentuoso Shigenori Soejima.
Quando nel 2006 i fan si scontrano con Persona 3 quello che si ritrovano per le mani è un videogioco diversissimo rispetto ai suoi predecessori, rinnovato nell’idea, nell’estetica e nella forma. Tanto divisivo quanto fondamentale. Lo stile di Soejima è cool, è fresco ed è giovane; la direzione di Hashino cambia le carte in tavola e ribalta il concept del gioco staccandolo ancora di più dalle radici di Shin Megami Tensei. L’idea di Hashino, va detto, è vincente: Persona 3 smette di essere “solo” un JRPG e si trasforma in uno strano ibrido tra gioco di ruolo e visual novel scolastica caratterizzata da uno stile modernissimo e squisitamente urbano. I design di Soejima sono diversissimi da quelli di Kaneko: sono molto più complessi e pieni di dettagli, e strizzano molto di più l’occhio ad un’estetica dichiaratamente più anime del passato. Shoji Meguro, che torna a firmare la OST, si adatta al cambio di stile stravolgendo l’approccio alla colonna sonora, che in Persona 3 è piena zeppa di influenze hip-hop mai sentite prima in un JRPG (al punto che certe tracce potrebbero tranquillamente essere state prese di peso dalla soundtrack di Jet Set Radio).
Persona 3 introduce quella che, a conti fatti, è diventata nel tempo la meccanica più iconica di questo secondo periodo della serie. Parlo ovviamente dei social link, che trasformano il rapporto d’amicizia tra il protagonista e alcuni NPC in una statistica numerica da far crescere in maniera tale da aumentare il potere degli arcani a loro associati e, di conseguenza, dei personae legati agli arcani.
Sulla carta può sembrare complesso, ma si tratta in realtà di un processo più semplice del previsto. Ad ogni personaggio è infatti associato un arcano maggiore dei tarocchi, quindi passandoci del tempo assieme e approfondendo il rapporto con esso si aumenta l’affinità del protagonista con il suddetto arcano, che influenza direttamente il potere dei personae associati alla stessa carta. In pratica, questa introduzione fa sì che la componente “slice of life” di Persona 3 si intersechi a quella da JRPG puro, e obbliga il giocatore a pianificare con cura il proprio tempo. Ogni giorno del calendario è possibile compiere solo un numero ridotto di azioni, quindi bisogna scegliere con cura con chi passare il proprio tempo dopo la scuola, chi frequentare nel tempo libero e quanto tempo impiegare invece per l’esplorazione del Tartarus, il dungeon principale del gioco, e il potenziamento delle proprie abilità di combattimento.
"There are a lot of RPGs out there where you can control every aspect of your party members, including what kind of underwear they are wearing… but because we wanted the player to relate to the Hero more than any other character in 'Persona 3', we wanted the other characters to feel like 'other people'"
- Katsura Hashino (Persona 3 Official Design Works, via Megatengaku.com)
Questo elemento di design è quello che ha spaccato in due il fandom della serie, ed è spesso criticato per aver introdotto la cosiddetta “ansia da calendario” all’interno della serie e per aver allungato di molto i tempi di gioco a causa dell’enorme mole di testo da leggere per progredire nell’avventura. In realtà quella dei social link è una trovata che, per quanto in Persona 3 sia ancora estremamente acerba, a mio avviso aggiunge una tematizzazione efficace e per certi versi geniale alla narrativa dei Persona. Aumentare i social link è letteralmente una forma di grinding dell’amicizia e va a mimare perfettamente le dinamiche interpersonali di certi rapporti, che vanno coltivati nel tempo affinché fioriscano. Se si pensa che Persona è un videogioco d’ambientazione principalmente scolastica e che vuole raccontare le difficoltà della crescita ha ancora più senso che esista un sistema di questo genere, che va a sottolineare come nella vita nessuno si salva da solo e che ogni sfida affrontata assieme ad altre persone sia più semplice più è profondo il rapporto che si ha con esse. A tutto questo si aggiunge, peraltro, la possibilità di incrinare o recidere per sempre il rapporto con gli altri personaggi se durante i dialoghi con loro si andranno a scegliere le interazioni sbagliate per più volte. Insomma, Persona 3 tratta l’amicizia (troppo spesso stereotipata all’inverosimile nei giochi di ruolo giapponesi) con grande serietà, e questo non può che essere un bene.
Anche parlando del resto del gameplay ci sono tanti elementi che spesso sono stati discussi e criticati aspramente. È un fatto: Persona 3 incorpora al proprio interno delle scelte davvero strane e all’apparenza sbagliate che rischiano troppo spesso di rendere il gioco parecchio frustrante. Una su tutte è quella di aver tolto al giocatore la possibilità di controllare il party in battaglia, affidando i comandi dei nostri compagni all’IA. Questo è un problema non da poco, soprattutto se si tiene in considerazione che nel caso in cui il protagonista dovesse andare KO in battaglia si andrebbe incontro alla schermata di Game Over anche se tutti gli altri membri del party dovessero avere la barra degli HP piena. Non avere il pieno controllo sui membri della squadra impedisce così di curarsi al momento giusto, rischiando quindi di compromettere una battaglia già vinta nel giro di un solo turno. In moltissime interviste, Hashino ha difeso questa scelta perché secondo lui permette alla personalità dei comprimari di emergere anche in battaglia senza che questa venga in qualche modo “riscritta” dal giocatore. Junpei, per fare un esempio, utilizza un pool molto ridotto di sole mosse d’attacco perché questo riflette il suo essere uno scalmanato. All’atto pratico l’ho sempre trovata una scelta fastidiosa, ma non sono mai riuscito a disprezzarla fino in fondo. Di fatto capisco quali fossero le intenzioni di Hashino e non posso non apprezzarle almeno un po’, perlomeno sulla carta.
Il grandissimo pregio di Persona 3 è invece il suo coraggio nell’andare ad affrontare certe tematiche “scomode” con una maturità rara non solo per il genere ma per tutto il medium. Persona 3 si apre infatti con la rivelazione che alla fine di ogni giornata chiunque sia dotato di un Persona può accedere alla Dark Hour, una venticinquesima ora “segreta” situata in una sorta di dimensione alternativa popolata dalle ombre e in cui tutti gli abitanti di Tatsumi Port Island appaiono sotto forma di bare. Il caveat è che ciò che succede all’interno della Dark Hour va ad influenzare il subconscio collettivo della città e la sua realtà. Il protagonista (il cui nome va impostato all’inizio della partita) torna a Tatsumi Port Island dopo un’assenza di dieci anni, periodo nel quale è diventato orfano di entrambi i genitori. Qui, in circostanze all’apparenza fortuite, entra in contatto con l’organizzazione SEES, composta esclusivamente da Persona-user che stanno investigando sulla Dark Hour e sui movimenti delle ombre che la abitano. Da qualche tempo, infatti, in tutto il Giappone si è diffusa una vera e propria epidemia di depressione che sta portando sempre più persone a togliersi la vita o a trasformarsi in zombie che si limitano ad esistere fissando il vuoto.
Persona 3 parla quindi di depressione, autolesionismo, suicidio e di un’umanità lanciata a tutta velocità verso l’autodistruzione, ma lo fa con tatto e onestà, concentrandosi sul percorso che i suoi protagonisti devono affrontare per sconfiggere il grande male facendo affidamento l’uno sull’altro. Al di là delle accuse di essere troppo “edgy”, Persona 3 non si tira mai indietro quando racconta le difficoltà psicologiche dei suoi personaggi e fa in modo che sia sempre chiaro a tutti quanto serie siano le sue intenzioni. Non è infatti un caso che il colore dominante delle grafiche, dei menù e anche di molti personaggi sia il blu, né che ognuno di essi, per evocare il proprio Persona, debba puntarsi una pistola alla tempia e premere il grilletto.
Si potrebbe parlare per ore ed ore di Persona 3, della sua “svolta weeb”, dell’ansia da calendario o anche delle grandi dissonanze che intercorrono tra come vengono presentati e raccontati i suoi personaggi femminili e come vengano poi oggettificati in momenti di fanservice non necessario. Quello che non si può negare è che Persona 3 sia stato un grandissimo successo per Atlus, ed è stato la base per l’evoluzione e la rinascita della serie, culminata con Persona 5 e il riconoscimento stellare ottenuto da critica e pubblico. Fu peraltro il primo capitolo ad approdare anche in Europa, e le vendite furono così positive da spingere Atlus a pubblicare poco tempo dopo una versione leggermente migliorata ed espansa del titolo, Persona 3 FES, che aggiunge qualche piccola miglioria e un intero capitolo extra all’esperienza originale.
Nel 2009 Atlus pubblicò Shin Megami Tensei: Persona 3 Portable per PSP, un remake del gioco che da un lato introduce finalmente la possibiltà di controllare l’intero party in battaglia e la possibilità di selezionare una protagonista femminile (con tanto di route e social link dedicati), ma dall’altro rimuove interamente le cutscene animate e le sezioni esplorative dell’overworld, qui ridotte ad una navigazione tramite cursore di alcune schermate fisse per risparmiare abbastanza spazio per far sì che il gioco potesse entrare all’interno di un singolo UMD.
PERSONA 4 - Il grande spartiacque
Persona 3, l’abbiamo appena visto, fece storcere il naso a molti fan del passato. Le accuse erano quelle di essersi “venduto” ad un pubblico troppo ampio nel momento in cui Atlus decise di incorporare alle meccaniche tipiche dei JRPG quelle delle visual novel scolastiche, imbastardendo la serie e rendendola all’apparenza “troppo anime”. Che queste fossero in qualche modo le intenzioni di Atlus e in particolare di Hashino e Soejima non ci sono grandi dubbi in realtà, è sempre stato esplicitato in maniera piuttosto onesta. Persona 3 era però un videogioco maturo, serio e profondo il cui boss finale era pur sempre il concetto stesso di depressione, quindi nonostante la presentazione weeb e l’impianto da anime shonen era pur sempre un titolo che non parlava propriamente a tutto il pubblico. Persona 4, pubblicato nel 2008, trasformò in spaccature quelle crepe che si erano create nel fandom esasperando il distacco dai primi tre capitoli della saga e, soprattutto, dalle nobili origini dei MegaTen.
Persona 4, meccanicamente, è una revisione quasi completa del sistema ideato dal terzo capitolo. Il combattimento è più efficace, è finalmente possibile controllare l’intero party in battaglia, l’ottenimento e il livellamento dei vari Persona è più agile e veloce e l’esplorazione degli spazi più approfondita e soddisfacente. Insomma, in Atlus non si sono certo girati i pollici adagiandosi sugli allori del successo di Persona 3, ma il team (che di lì a poco verrà ufficialmente riorganizzato e rinominato P Studio) ha ragionato su pregi e difetti del gioco per creare un sequel che gli fosse superiore in tutti gli aspetti. Il risultato finale dà, almeno da certi punti di vista, ragione al team, dal momento che Persona 4 è effettivamente un videogioco decisamente più riuscito e facile da approcciare rispetto al suo predecessore. I miglioramenti tecnici e di gameplay sono sotto gli occhi di tutti: Persona 4 è un videogioco che ancora oggi resiste al passare del tempo, e pensare che sia un titolo pubblicato su PlayStation 2 fa una certa impressione.
Ciò che ha segnato la più grande spaccatura nel fandom sono i temi e la narrativa di Persona 4. Se il capitolo precedente veniva accusato di essersi piegato a certi cliché narrativi tipici dell’animazione giapponese, Persona 4 non fa nulla per nascondere questa sua nuova tendenza ma anzi la esalta. Si tratta di un videogioco decisamente più leggero, caratterizzato da un mood esplicitamente più allegro e che trasforma la lotta contro la depressione e il suicidio di P3 in una trama da murder-mystery per teenager. Oggi lo definiremmo young adult, per intenderci.
Persona 4 non abbandona l’ambientazione liceale dei capitoli precedenti, ma si allontana dal cuore delle grandi metropoli giapponesi per spostarsi in un paesino rurale più piccolo e semplice. Ho sempre apprezzato moltissimo la decisione di ambientarlo ad Inaba. Nello specifico trovo che l’idea di muoversi all’interno di uno spazio più circoscritto e in cui il senso di comunità è molto più forte rispetto a quello che si può incontrare in città sia stata vincente nel fornire la giusta atmosfera alla storia che il gioco si prefigge di raccontare. Poco dopo il trasferimento del protagonista ad Inaba, infatti, la città viene sconvolta da una serie di strani omicidi. Nel frattempo in paese comincia a circolare la voce secondo cui i televisori, di notte, trasmettano un canale fantasma, detto Midnight Channel, che mostra agli spettatori i loro doppleganger. Il protagonista e i suoi amici decidono di formare una squadra investigativa per smascherare l’autore degli omicidi e per indagare sulla natura del Midnight Channel.
"I like classic mystery novelists — Sir Arthur Conan Doyle, Agatha Christie, Seishi Yokomizo — and was greatly inspired by them. Here’s a prime example: It’s common for classic Japanese mystery novels to start with the discovery of a bizarre corpse in the countryside, and from there, a story that reflects Japanese mythology unfolds."
- Katsura Hashino (Intervista per 1UP, via Megatengaku.com)
Bazzicando le community dei MegaTen in rete vi capiterà sicuramente di imbattervi in una definizone molto precisa di Persona 4 con cui personalmente concordo pienamente (pur non ritrovandomi nell’accezione negativa che si tende a dargli): è quello che succederebbe se si mischiassero assieme Scooby Doo e gli stand di Jojo. A dir poco calzante.
Personalmente non ho alcun problema con l’idea di un capitolo più allegro, anzi trovo che il mood di Persona 4 sia una piacevole ventata d’aria fresca per una serie che si è sempre presa estremamente sul serio e si è occupata di temi profondi e pesanti. È per questo che apprezzo Inaba e la storia che Atlus ci ha ambientato all'interno, perché tutto viene inquadrato da un punto di vista differente rispetto al solito e con uno sguardo diverso sul mondo. Certo, questo significa ovviamente che Persona 4 è a tutti gli effetti un videogioco chiaramente indirizzato ad un pubblico molto più ampio che in passato e che certi passaggi del suo intreccio tradiscono una certa ingenuità di fondo (a mio avviso del tutto volontaria) della narrazione di Hashino e dei suoi collaboratori.
Persona 4 è, almeno per me, il grande spartiacque della serie perché nonostante abbia migliorato tanti aspetti traballanti di Persona 3 ne ha anche enfatizzato alcuni lati negativi che hanno rischiato di crollargli sotto i piedi. Il fatto che si svolga in un arco di tempo molto più ristretto rispetto a quello di Persona 3, per esempio, ha fatto esplodere definitivamente la già discussa ansia da calendario, rischiando di allontanare tanto pubblico suscettibile al problema. Massimizzare tutti i social link in un’unica run è molto più complicato perché necessita di una pianificazione certosina e ultra-stressante di ogni singola giornata. Pur apprezzando molto l’ambientazione e la sua sinergia con la narrativa, però, credo che Persona 4 sia effettivamente troppo spensierato e che si prenda troppo poco sul serio. Vanno benissimo le influenze da anime shonen, ma passare da un capitolo in cui ogni personaggio doveva evocare il proprio Persona sparandosi in testa a uno in cui per l’evocazione basta sistemarsi un paio d’occhiali da vista sul naso è stato un cambiamento forse troppo drastico.
A livello di scrittura, però, c’è un altro grande problema. Fin qui se ne è parlato in maniera del tutto tangenziale, ma in questo suo nuovo corso la serie ha sempre evidenziato delle problematiche circa il suo modo di raccontare l’omosessualità, la transessualità e il ruolo dei personaggi femminili. Non viene mai esplicitato direttamente, ma in Persona 4 Kanji ha degli interessi decisamente in controtendenza con la sua facciata da macho delinquente. Ama il cucito, l’uncinetto e tutto ciò che ha a che fare con la creatività, ma cela questi suoi interessi per paura di venire tormentato dalle prese in giro. L’immagine del suo “true self” trasmessa sul Midnight Channel, peraltro, ammicca abbastanza chiaramente verso una sua celata omosessualità e chiede a gran voce di essere accettata per quello che è davvero. Fin qui tutto bene, non fosse che nel party è stato inserito Yosuke, che per tutta la durata del gioco non fa altro che insultare Kanji e prenderlo in giro proprio sulla sua sospetta omosessualità. Kanji è la frattura narrativa del gioco che spesso sembra invalidare proprio quei momenti di unità del party di fronte all’accettazione di sé stessi e di Kanji su tutti. Il peggio è che non si tratta di un caso isolato: spesso l’impressione è che Yosuke sia stato scritto con il chiaro intento di andare in direzione contraria rispetto alle tematiche di crescita e accettazione proposte dal gioco. Si tratta di problemi presenti già in Persona 3 e che emergeranno nuovamente in Persona 5 e quindi non frutto di una svista quanto più, nella migliore delle ipotesi, di una totale incapacità di trattare certi argomenti nella maniera quantomeno corretta.
Si tratta di un problema che impatta con forza sull'esperienza perché non è circoscritto solamente a Kanji, ma si riverbera su gran parte dei personaggi. A stridere è proprio la forte dissonanza che si crea tra il messaggio che il gioco vuole mandare e quello che finisce per veicolare quasi involontariamente. Non solo l'omosessualità di Kanji (che peraltro è raccontata in maniera delicatissima in certi passaggi), ma anche il cross-dressing di Naoto finisce per essere inquadrato come se fosse una sorta di deviazione da guarire attraverso l'accettazione altrui. Il che, diciamocelo, è abbastanza un controsenso.
PERSONA 5 - E adesso datemi il mondo
Persona 4 ricevette una nuova edizione ampliata e corretta su Playstation Vita, ma da lì in poi la serie si inabissò per un lungo periodo durato un’intera generazione. I lavori su Persona 5, in realtà, iniziarono presto, ma il team non riuscì a trovare una quadra al progetto per molto tempo. Uno dei primi prototipi del gioco si trasformò in Catherine, un puzzle game tanto geniale e divertente quanto sottovalutato. In seguito P Studio tornò sull’idea del viaggio, nello specifico quella di un party di liceali in viaggio in giro per il mondo alla ricerca di sé stessi, ma il terremoto di Fukushima del 2011 e la conseguente risposta del popolo giapponese che si unì per far fronte al disastro fecero cambiare idea ad Hashino e al team. Lo scheletro di Persona 5 si andò formando nel tempo, e quello che il pubblico trovò sugli scaffali verso la fine del 2015 è il risultato di infinite rielaborazioni e ripensamenti di un team il cui obiettivo principale era quello di far compiere alla serie un vero e proprio salto nel futuro.
A posteriori è facile dirlo, ma Persona 5 il suo obiettivo l’ha centrato perfettamente, rivelandosi nel tempo il più grande successo di sempre a marchio Atlus, uno dei JRPG più importanti della storia e uno tra i videogiochi più influenti dell’epoca moderna. L’approccio con Persona 5 è folgorante: si viene accolti dalle armonie jazz della Wake up, get up, get out there composta da uno Shoji Meguro in stato di grazia e impreziosita dalla voce soul di Lyn Inaizumi. A corredo c’è una vera e propria masterclass di Shigenori Soejima (che probabilmente non ha mai disegnato così bene in tutta la sua carriera) incastonata all’interno di una delle UI più stilose che si siano mai viste all’interno di un videogioco.
Ci si può tranquillamente far intimidire dalle oltre cento ore di gioco richieste per portarlo a termine, ma Persona 5 è la perfetta quadratura del cerchio per una formula che non aveva ancora avuto modo di esprimersi così bene prima d’ora e scorre liscio come l’olio dall’inizio alla fine. L’anima JRPG esplode nel suo combat system, rifinito di fino per essere velocissimo, divertente ed estremamente profondo con le sue continue staffette tra personaggi e la fluidità generale del One More System. Il suo lato da Life Sim adolescenziale è stato rivisto e approfondito per fare in modo che si integrasse meglio con la narrativa, e ha raggiunto così una stratificazione impensabile per i capitoli precedenti. La negoziazione coi demoni è stata velocizzata per avvicinarla a quella dei classici MegaTen, il grinding non eliminato ma nascosto elegantemente nella progressione obbligata del gioco, la progressione stesssa è stata diluita in termini di durata ma perfezionata sia a livello ludico che a livello narrativo. Insomma, Persona 5 rappresenta un vero balzo in avanti per la serie, e il suo successo in tutto il mondo ha cambiato drasticamente gli equilibri di forza sia di Atlus che di Sega stessa.
Persona 5 mantiene l’approccio da anime giovanile dei suoi predecessori diretti da Hashino ma si pone in maniera differente. Il nemico da combattere non sono più la depressione o un misterioso serial killer ma l’intera società giapponese con le sue vomitevoli dinamiche di potere, le sue ingiustizie e le sue incongruenze schiaccianti. La storia dei Phantom Thieves e della loro missione di rubare il cuore alle persone più corrotte del paese è una storia di ribellione moderna, quasi come fosse il grido disperato di un’intera generazione impossibilitata da quelle precedenti a rendere il mondo un posto migliore. Persona 5, in questo, rappresenta forse il giusto punto d’equilibrio tra l’atmosfera dark di Persona 3 e quella troppo spensiereta del 4, nonché il meritato successo di una formula che sembra aver raggiunto finalmente la piena maturazione, destinata a rappresentare un punto di riferimento nel panorama futuro dei JRPG.
"At the end of high school life, there's always graduation and a farewell to everyone as you part and continue with your lives. When you're an adult, those kinds of chance meetings and farewells won't happen that frequently any more. Your circumstances are going to remain the same for a long time. That's why we wanted to focus on high school students, to get that precious feel."
- Katsura Hashino (intervista per Vice)
La chiave dietro al suo successo è stata sicuramente la cura dietro le interazioni sociali che sorreggono la narrativa. I Phantom Thieves sono un gruppo eterogeneo e unito con cui è facilissimo empatizzare nonostante una visione spiccatamente idealista e adolescenziale dei problemi che hanno giurato di risolvere dall’interno della società giapponese. Se si pensa alla storia dei JRPG non è certo una novità il fatto che l’amicizia venga considerata una vera e propria forza inarrestabile in grado di cambiare il mondo, ma una volta inserita all’interno di un contesto storico e culturale moderno diventa meno difficile rapportarcisi, e la forza dietro al successo narrativo di P5 sta proprio lì. Tokyo è protagonista del gioco tanto quanto i ladri fantasma, mentre le diversità e l’unità di questi ultimi sono lo strumento più efficace per attraversare gli spazi della metropoli e rendere straordinari dettagli che straordinari non sono, almeno non sempre e non nella vita reale. Persona 5 schematizza la quotidianità, la traduce in numeri e statistiche ma la carica di significato nel momento in cui la integra al gameplay e alla narrativa di un genere che spesso si esprime attravero a vuoti cliché, e il risultato finale è un videogioco corale, caldo e molto più sincero di quanto non si possa pensare ad un primo sguardo superficiale.
Il vero grande problema di Persona 5 è che è stato il capitolo che ha fatto conoscere la saga al grande pubblico (e no, non troverete considerazioni da gatekeeper da parte mia in questo senso) ma lo ha anche abituato troppo bene, rendendo di fatto il recupero del resto della serie, quando possibile, molto complicato. È anche per questo che P5 è, per Sega e Atlus, un ground zero su cui costruire il futuro della serie per chi già c’era e, soprattutto, per i nuovi arrivati. La rivolta sociale dei Phantom Thieves è stata contagiosa, al punto da portare in fretta alla pubblicazione di una versione riveduta, ampliata e corretta di Persona 5 per la prima volta tradotta in italiano (sorvolo sul fatto che a me personalmente non sia piaciuta la direzione della traduzione, mi basta che abbia reso il titolo accessibile a più persone possibili).
Persona 5 Royal vede la luce nel 2019 in concomitanza con il primo lancio in contemporanea globale della storia della serie, ed è un successo commerciale senza precedenti per Atlus (3.3 milioni di copie in tre anni, che sommate alle copie vendute dalla versione vanilla raggiungono l’incredibile cifra di più di 8 milioni di copie vendute per una serie che in vent’anni di copie ne ha vendute 15 milioni in totale). Questo ha messo Atlus in una posizione un po’ scomoda perché obbligata ad alzare ancora una volta l’asticella per soddisfare un pubblico mai così ampio che da anni è in religiosa attesa di un nuovo capitolo principale.
Quale sarà il futuro di ATLUS?
Persona, l’abbiamo già rimarcato più volte, è circa lo spin-off di uno spin-off di Shin Megami Tensei. Questo non ha impedito alla serie di generare a cascata una quantità infinita di ulteriori spin-off aggiuntivi. Persona 4 ricevette non uno ma ben due seguiti ibridi - Persona 4 Arena e Persona 4 Arena Ultimax - che mescolano narrativa da visual novel a gameplay da picchiaduro 2D (sono sviluppati da Arc System Works e sono clamorosamente belli, va detto); Persona Q è una miniserie in due capitoli uscita su Nintendo 3DS che fonde Persona alle caratteristiche da dungeon crawler in prima persona tipiche degli Etrian Odyssey; Persona Dancing è una serie che di tre rythm game basati sulle colonne sonore originali o riarrangiate di Persona 3, 4 e 5 e che vede protagonista delle performance il cast di tutti e tre i capitoli; Persona 5 Strikers, invece, è una sorta di sequel apocrifo e non canonico di Persona 5 (ma non di Royal) in salsa action che ricorda tanto certi musou meno hardcore. La lista è lunga e lascia trasparire quello che ad oggi è in assoluto il più grande problema di Atlus, ovvero la sua politica economica predatoria nei confronti degli appassionati.
La quantità di DLC estetici o legati alle colonne sonore prodotta da Atlus negli ultimi anni è gigantesca, e a preoccuparmi è sempre stato il loro costo. Sono contenuti opzionali direte giustamente voi, ma la realtà dei fatti è un’altra: sia Shin Megami Tensei V che Soul Hackers 2 presentavano già dal day one elementi di gameplay e trama bloccati dietro paywall, senza contare che da Persona 3 in poi è diventata abitudine per l’azienda mettere in commercio delle edizioni migliorate dei titoli nella forma di videogiochi da ricomprare pagandoli per intero. Persona 3 FES, Persona 4 Golden e Persona 5 Royal sono migliori delle rispettive versioni base, ma sarebbe il caso di abbandonare questa pratica di pubblicare un titolo e di ripubblicarlo appena raccolti i feedback dei fan e/o ultimata la stesura della trama di un capitolo aggiuntivo. Almeno non a così pochi anni di distanza dalla pubblicazione originale. È una forma di sfruttamento degli appassionati che andrebbe abbandonata proprio in virtù del grande successo raggiunto dalla serie con Persona 5, che purtroppo viene ancora sfruttato all’infinito per continue collaborazioni con gacha game online o per la produzione di merchandise a tema la cui vendita ha monopolizzato le celebrazioni per il venticinquennale della serie. Celebrazioni che, va segnalato, hanno dimostrato un notevole disinteresse per Persona 1 e la duologia di Persona 2 da parte dell'azienda stessa.
Persona 6, che vedremo probabilmente tra qualche anno, sarà un capitolo cruciale per verificare la tenuta del franchise. Non invidio chi sarà chiamato a sviluppare un sequel di Persona 5 che sappia mantenerne l’appetibilità pur cambiandone degli aspetti fondamentali. È un compito ingrato che espone ad una quantità di pressione gigantesca. Il vero test sarà però quello che dovrà sostenere Atlus, che dovrebbe dimostrare di essere diventata finalmente un’azienda moderna e internazionale abbandonando certe pratiche predatorie e antiquate. È chiaro che per gli autori coinvolti nello sviluppo delle singole opere ci siano amore e rispetto, ma la sensazione è che “ai piani alti” Persona venga percepito esclusivamente come un prodotto e che per questo possa prestarsi a tutte le strategie mangiasoldi possibili. Ironico come, di fatto, la gestione della serie e nello specifico quella di Persona 5 sia in totale controtendenza con gli ideali espressi proprio dallo stesso capitolo campione d'incassi.
Pubblicato il: 03/03/2023
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