DEFINIRE L'ESPERIENZA SANDBOX

Giardini, recinzioni, gioia e libertà

«Victor grabbed the minidisc. “Adamina. Know it?” “Only that it had a small cult following.” She pulled out her small pocket remote, pushed a button, and typed onto the screen that popped up. “A low-budget, independent sandbox game modeled after the world. The entire world”» (de Fonseca 2013, posizione 191).

La citazione proviene dal romanzo The Cheat Code for God Mode, scritto da Andy de Fonseca, una autrice che fa parte della corrente bizarro fiction. La sua opera è un esempio di letteratura videoludica, in cui i videogiochi vengono presi come spunto per la costruzione di una storia. In questo caso, il pretesto narrativo è legato a un videogioco sandbox chiamato Adamina. Un videogioco indipendente, senza budget e con una grafica terrificante. Un videogioco in cui non sembrerebbe esserci nessun obiettivo («“Oh, fuck me,” Margy twitched. “This is terrible. Give me a plot point!” “What if it’s straight sandbox?”» de Fonseca 2013, posizione 256), ma che pare riprodurre il mondo intero. E non solo, ma il successivo sviluppo della storia non ci interessa, in questa sede. L’interesse è nell’osservazione dell’oggetto-sandbox. Come molti altri termini di uso comune in ambito videoludico, la parola “sandbox” attiva una serie di aspettative e immagini mentali in chi la legge o ascolta. Probabilmente, leggendo quanto detto poco fa su The Cheat Code for God Mode, avrete sviluppato un’immagine mentale di Adamina, magari concependolo come una versione visivamente imbruttita di qualche sandbox che vi è ben noto.

Riuscire a definire con esattezza cosa sia un sandbox, però, è un discorso differente, quando si tenta di compiere un passo ulteriore. In un caso del genere iniziano allora a emergere distinguo, pareri discordanti e si fatica a trovare un accordo definitorio.

La questione è intrecciata a diversi altri ambiti. Diverse definizioni che circolano nell’ambito dei game studies e nella game design theory, per esempio, faticano tutt’ora a descrivere efficacemente alcune tipologie videoludiche, tra cui i sandbox (Freyermuth 2015, p. 37).Tra le questioni sul tavolo, c’è anche il fatto che non sono solo i (video)giochi a essere etichettabili come sandbox. Partendo da una delle tante definizioni possibili, vediamone una che proviene da una raccolta di saggi su Minecraft: «Sandbox games are characterized by open-ended, non-linear designs that allow players to generate unique play styles, objectives, and narratives» (Bull 2014, posizione 1880).Si sta parlando di giochi sandbox. Come sottolineato in un altro contributo presente nello stesso libro (Brand et al. 2014, posizione 1082), anche gli ambienti virtuali multiuser come Active Worlds (1995) e Second Life (2003) siano considerabili dei sandbox pur non essendo dei videogiochi. Su questo punto, gli autori del contributo segnalano che non lo sono “per definizione”. C’è probabilmente chi non si troverebbe d’accordo (Second Life è spesso indicato come “game”), ma si può comunque riconoscere che esistono forme ulteriori rispetto alla definizione d’uso comune del sandbox videoludico.

VIDEOGIOCHI, GIARDINI, META-SPAZI E METAFORE

Come segnalato da Steve Breslin (2009) già diversi anni fa, la metafora dietro ai videogiochi sandbox è perlomeno ambigua. Da un lato evoca certamente un’idea di libertà operativa e di scelta, ma richiama anche una attività che, in fondo, è piuttosto diversa da quanto appare in questi videogiochi. Il bambino che gioca con la sabbia ha a che fare con una materia grezza, che assume una forma e – soprattutto – un significato attraverso il suo agire. In molti videogiochi sandbox, invece, sono già presenti oggetti strutturati, avanzati, su cui non è possibile operare con altrettanta libertà riorganizzativa.

La differenza più importante è probabilmente anche la più sottile, e non riguarda l’aspetto combinatorio. Senza nemmeno andare su esempi così particolari, in Minecraft la componente trasformativa è molto avanzata ed è possibile realizzare un immenso numero di oggetti partendo da elementi molto semplici. La differenza, pertanto, non sta qui, perché così come il bambino plasma la sabbia con un po’ d’acqua e un secchiello, allo stesso modo l’utente di Minecraft trasforma le componenti materiche, ricombinandole e posizionandole in un determinato modo. La differenza sta nel significato che si attribuisce a quegli oggetti. Un significato che ha a che fare con l’attività ludica stessa in alcune delle sue forme più basilari. Il bambino è un creatore di microcosmi, che genera fornendo nuovi e temporanei significati agli oggetti che lo circondano.

Gli ambienti ristretti, delimitati, funzionano particolarmente bene, perché aiutano a separare il confine tra lo spazio di gioco e il suo esterno. Possono essere la cassetta con la sabbia, un tappeto, un angolo del giardino, la superficie del tavolo o altro ancora. Gli elementi lì collocati divengono temporaneamente altro. L’erbaccia può diventare una foresta, un cuscino funge da montagna, il tappeto diventa una zattera lambita dalle onde dell’oceano. Per quanto sia possibile trovare qualcosa di simile anche nei videogiochi (ne parlerò nel prossimo paragrafo), è difficile poter “progettare” un simile approccio.

Detto ciò, si può anche aggiungere che pure molte di queste attività fanciullesche, in apparenza totalmente libere, sono in realtà comunque determinate dalle regole, magari implicite. Egenfeldt-Nielsen, Smith e Tosca (2015, p. 38) ne fanno un esempio, parlando proprio dei bambini che giocano con la sabbia, dove spesso devono seguire regole e obiettivi assegnati dai genitori, per fare una costruzione particolarmente grande o complessa con la sabbia. Per cui anche da questo punto di vista potrebbero esserci maggiori punti di contatto.

Al tempo stesso, il rapporto con uno spazio chiuso su cui operare in vario modo non è specifico del sandbox: numerosi mondi videoludici possono essere letti in modo analogo, in questo loro “gioco” (è il caso di dirlo) tra regola e libertà in uno spazio delimitato. Essi sono meta-spazi: luoghi metaforici, ideali, dove si opera in uno spazio controllato e delimitato per sfuggire all'ansia del caos. Proprio come sono meta-spazi i giardini secondo Enzo Cocco (2003), per ragioni analoghe. Il termine “giardino” stesso nasce partendo da un'idea di isolamento, di spazio delimitato, di segretezza, dalla parola gard, che significa “spazio chiuso” (Cardini e Miglio 2002, p. VI).

Tra le riflessioni su fini e confini dei videogiochi (su cui si rimanda al testo di Fassone 2017 in particolare), le somiglianze tra spazi videoludici e giardini sono state sottolineate in varie occasioni (tra cui Gindold 2003, Kampis 2016, Toniolo 2021), così come sono emerse osservazioni sui giardini presenti all’interno dei videogiochi (si veda per esempio Schöberlein 2018).Il ricordo a questa metafora era già stato problematizzato da Michael Nitsche un po’ di anni fa (2008, p. 171), quando sottolineava la varietà dei giardini e dei significati che questi spazi hanno, difficilmente riconducibili a un parallelismo esclusivo con i videogiochi. Nonostante ciò, segnalava comunque l’importanza di questo legame nell’aver aperto la strada a varie riflessioni sugli spazi videoludici.

Effettivamente, la metafora del mondo videoludico come giardino può presentarsi in diverse forme differenti, alcune delle quali molto vicine al sandbox, all’idea dello spazio ristretto in cui un bambino opera giocando e immaginando, ma altre declinazioni del concetto conducono in direzioni differenti. E se i “giardini” videoludici si differenziano in questo modo, anche coloro che ci giocano presentano una rosa di approcci diversi, nella loro attività di cura di questi spazi virtuali. Nella conclusione di un mio contributo accademico (Toniolo 2021) ne avevo fornito una tassonomia sintetica, che riassumo qui di seguito. È importante perché introduce alcuni punti che verranno trattati nei paragrafi successivi.

  • 1) Garden protection (Keeper): il giocatore deve proteggere il mondo-giardino in cui si trova da una minaccia esterna. Questa è la trama di base di molti videogiochi open world (e vari altri GDR e adventure). In molti casi, essere un Keeper significa riunire i popoli liberi del mondo e guidarli contro il nemico comune. Radunare i popoli liberi separa implicitamente anche la “città” (gli alleati) dalla wilderness (i mostri, i briganti, i nemici in genere). Tuttavia, ci possono essere contatti tra questi due mondi, così come un giardino unisce natura e cultura. Del rapporto città-wilderness nei videogiochi ho parlato dettagliatamente in Toniolo (2020).
  • 2) Selection and reproduction (Horticulturist): la selezione riguarda le materie prime necessarie alla sopravvivenza, che devono essere ottimizzate il più possibile. In certi casi queste materie sono un bene finito, in altre possono essere riprodotte e moltiplicate attraverso vari processi. Estendendo il concetto, in ottica di “risorsa” anche la selezione dei propri alleati in videogiochi come Dragon Age: Origins o Mass Effect rientra in questo punto (e si collega all’attività precedente).
  • 3) Creation and combination (Grafter): nei survival games si lega molto spesso al secondo punto. Solitamente, dopo aver selezionato – e moltiplicato, ove possibile – le materie prime, queste vengono poi combinate per creare nuovi oggetti e nuove risorse. Questo approccio è uno di quelli centrali nelle esperienze sandbox.
  • 4) Contemplation of the garden (Botanical philosopher): il giocatore cammina e osserva la natura con uno sguardo contemplativo, meditando su ciò che scopre. Il paesaggio stesso del videogioco diventa oggetto della sua attenzione, lontano dall’incombenza delle quest (primarie e secondarie). È un momento di godimento riflessivo simile a una passeggiata in un giardino e facilita la scoperta di quegli aspetti di un videogioco che spesso vengono trascurati nella fretta. È molto vicino alla flânerie digitale (Atkinson e Willis 2007), ma con un focus sul paesaggio naturale più che su quello urbano. Su YouTube è possibile trovare alcune passeggiate esplorative che seguono questo approccio.
  • 5) Garden awareness (Environmentalist): i differenti approcci antispecisti, vegani e dintorni ai videogiochi, come coloro che portano a termine una “vegan run” a The Legend of Zelda: Breath of the Wild.

Questa suddivisione, una delle tante possibili in merito alla varietà di approccio a diverse esperienze videoludiche, apre la strada a un’altra questione che tocca da vicino i sandbox: quella della libertà.

LA LIBERTÀ

La libertà è un concetto fondamentale, in un sandbox, ma è bene precisare che cosa si intende esattamente con “libertà”. C’è, in primo luogo, una “libertà di approccio”, che generalmente è la dimensione più evidente quando si pensa a videogiochi di questo genere: sono possibili più opzioni differenti per approcciare un obiettivo. Al secondo livello c’è quella che può essere definita una “libertà generativa”, in cui si mettono da parte gli obiettivi proposti dall’esperienza, per darsene di nuovi. Ci si può anche muovere nella direzione di una pura sperimentazione, in cui si portano avanti costruzioni e combinazioni per il puro piacere di farlo.

Un ultimo livello, infine, riguarda la “libertà interpretativa”. Quella che è stata presentata più sopra, parlando del senso che si può attribuire agli oggetti, come può fare un bambino quando gioca “facendo finta di”.

Il primo punto, estendendolo, definisce quello che è il videogioco nel suo insieme. È la ragione per cui alcuni non considerano Dragon’s Lair o Guitar Hero degli effettivi videogiochi, visto che al loro interno non si possono compiere delle effettive scelte: ci si limita a dover premere il pulsante giusto al momento giusto per poter proseguire. Già un videogioco come Space Invaders presenta differenti tattiche adottabili, legate all’ordine con cui si cerca di eliminare gli alieni, all’uso che viene fatto delle difese, ecc. Salendo ancora di complessità, un videogioco come Super Mario Bros comincia già a rivelare un numero inaspettatamente elevato di decisioni possibili, tra power up, percorsi alternativi e molto altro. In un videogioco come Dark Souls sono possibili moltissime build differenti, ci si può muovere tra le aree di gioco con un ordine relativamente libero, c’è una grande varietà di approccio con alcune quest degli NPC, ecc. Difficilmente, però, qualcuno definirebbe Dark Souls un sandbox. E tantomeno userebbe questa etichetta per Super Mario Bros o per Space Invaders.

Questo primo livello di libertà, allora, può costituire una differenziazione che è al più di carattere quantitativo, ma non risulta qualitativamente definitoria. Andare, cioè, a indicare un certo grado di libertà di approccio oltre il quale si può parlare di sandbox. Il problema è la discrezionalità di questo gradiente, per cui persone differenti valuterebbero in maniera diversa questa scala, collocando in punti differenti l’inizio della categoria sandbox.

La “libertà generativa” porta invece a ragionare in un altro modo, in cui ci si sofferma su determinate pratiche che sembrano decisamente più vicine all’idea comunemente condivisa di sandbox, che invece si fatica a trovare in altri videogiochi. Riprendendo i tre esempi di poco fa, in Space Invaders non è possibile mettersi a fare qualcosa di ulteriore rispetto all’obiettivo del gioco. Ci si può approcciare a esso in vario modo, con tattiche differenti, ma rimane tale. Super Mario Bros offre qualche piccola opportunità in più, ma in fin dei conti si resta comunque nell’ottica di completare l’obiettivo del gioco dandosi delle sfide ulteriori (per esempio raccogliendo tutte le monete possibili).

Dark Souls fa anche qui un passo in più: inizia per esempio a diventare rilevante il role-playing, da intendersi come approccio all’interpretazione di un ruolo e alla performatività (il “come si comporterebbe, in questo mondo, un personaggio che ha certe caratteristiche, una certa origine, certi valori…?”). Tutto ciò consente di allargare l’orizzonte e l’ampiezza dei propri obiettivi ma, anche in questo caso, sono sporadici gli effettivi allontanamenti dai traguardi che il videogioco propone, e si torna nella maggior parte dei casi a un nuovo modo di procedere. Il sandbox invece propone, con differente ampiezza a seconda del caso, la possibilità di generare nuovi obiettivi, nuovi traguardi e nuove forme di sperimentazione.

Questo può passare attraverso un sistema combinatorio avanzato o attraverso direzioni differenti, ma rimane come una delle esperienze più caratteristiche dei titoli riuniti sotto questa etichetta.La “libertà interpretativa”, infine, è la più soggettiva. Potrebbe essere favorita dall’ampiezza sperimentativa offerta da un sandbox, ma è possibile un simile atto interpretativo anche in esperienze differenti. È quanto di più vicino all’attività del bambino che gioca “facendo finta che”, attribuendo nuove funzioni e nuovi significati agli oggetti. Il ciottolo dalla forma strana che diventa una sedia per i pupazzi, il ramoscello che diventa una spada o uno scettro. Il fatto che molti oggetti videoludici non possano vedere modificata la loro funzione interna al gioco va effettivamente a limitare questo approccio, ma esso rimane comunque possibile in un certo grado. E forse, se vi sforzate per far riemergere il ricordo delle vostre primissime esperienze videoludiche, potreste scoprire qualcosa di analogo che avete messo in campo anche voi.

QUESTIONI DEFINITORIE ALLE ORIGINI DEL SANDBOX

Sempre ragionando sulle definizioni, vale la pena aggiungere due parole anche su alcuni termini che si trovano spesso al fianco del “sandbox”. Uno di questi è l’etichetta “open world”.

Riporto quanto indicato in una nota a piè di pagina da un articolo di Victoria Dos Santos sulle pratiche religiose negli spazi digitali: «Open-world games – also known as sandbox game – refers to “a video game with a gameplay element that gives the player a great degree of creativity to complete tasks towards a goal within the game, if such a goal exists” (cited from Wikipedia)» (2019, p. 170). Per curiosità, sono andato a controllare se Wikipedia segnalasse questa stessa sovrapposizione, ma il concetto espresso da quell’«also known as sandbox game» non è lì presente. Viene segnalata la frequente sovrapposizione tra questi due ambiti, sottolineando però che fanno riferimento a concetti differenti.

Si potrebbe rubricare questa citazione come una semplificazione eccessiva (e, lo anticipo subito, in seguito segnalo perché sono da mantenere correttamente separati), ma altri testi hanno portato alla luce ulteriori estensioni del termine. Per cui può valere la pena compiere una riflessione ulteriore, utile a ritrovare alcune tracce storiche di quello che si è poi strutturato come concetto di sandbox.

Un altro breve accorpamento che suscita perlomeno curiosità è il seguente: «This single-player game makes use of a non-linear gameplay system, also known as a sandbox game» (Nijtmans 2022, p. 119). Il videogioco di cui sta parlando è The Elder Scrolls V: Skyrim e, poco dopo, aggiunge a sua volta una citazione da un’altra fonte: «In a sandbox game “[p]layers are offered big, open, full of life worlds where they have a high degree of freedom to choose what they want to do to progress through the game”» (Ocio Barriales e Brugos 2009, p. 70).

Se si getta uno sguardo indietro nel tempo a quello che è spesso considerato il primo videogioco sandbox della storia, si può vedere in che modo esso si interfaccia con simili definizioni. Il titolo in questione è Elite, del 1984, ricordato anche da Steve Breslin come un effettivo apripista, nel suo articolo (2009) sulla storia dei sandbox (sebbene, nell’articolo, Elite viene retrodatato al 1983).

In Elite si ha la possibilità di esplorare un vasto universo con la propria astronave, alla ricerca di opportunità commerciali. Ci si può muovere liberamente tra centinaia di pianeti, scegliendo altrettanto liberamente il proprio approccio all’azione, tra forme più tradizionali di commercio, pirateria, contrabbando e molto altro. Probabilmente in molti si troverebbero d’accordo nel definire Elite un open world, così come non sarebbe un problema riconoscere al suo interno un «non-linear gameplay system» in un videogioco single player. Per cui, in quello che è generalmente considerato il "padre” dei sandbox, simili caratteristiche sono effettivamente intrecciate l’una con l’altra.

Occorre anche ricordare che, come accade in moltissime occasioni, le definizioni vengono date a posteriori. Per cui, nel 1984, non ci si poneva il problema definitorio sui videogiochi open world e sui sandbox. Oggi invece, guardando indietro nel tempo e ripercorrendo la storia videoludica, si possono attribuire diverse etichette. La storia videoludica, peraltro, non è teleologica, non prosegue finalisticamente verso un fine. Per cui non è possibile tracciare una linea retta di progressivo sviluppo che parte da Elite e arriva a The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom. Ci sono intuizioni che si perdono e riemergono in seguito, molteplici apporti e ripensamenti di cosa possa essere un sandbox.

Per fare un esempio concreto, può probabilmente stupire leggere, nel libro di Gundolf Freyermuth (2015, p. 75) sul game design e i game studies, che viene indicato Myst come un predecessore dei sandbox contemporanei. Myst, pubblicato nel 1993 (quasi dieci anni dopo Elite) per tanti aspetti sembra concettualmente molto più lontano da ciò che comunemente viene definito un sandbox. Viene generalmente indicato come una avventura grafica, una tipologia di videogiochi assai distante da un Minecraft qualsiasi. Eppure anche Myst e altri videogiochi di quegli anni hanno apportato – spesso indirettamente – nuova linfa ad alcuni dei futuri sandbox, essendo coloro che hanno cominciato a integrare complesse strutture narrative all’interno dell’interazione videoludica stessa, con quello che Freyermuth definisce l’hyperepic. Per cui, almeno per quanto riguarda videogiochi sandbox con una narrazione più o meno strutturata, ha certamente senso indicare anche questo elemento di passaggio.

Diverse fonti, tra cui il già citato articolo di Breslin (2009), tendono poi a fissare un po’ più avanti l’effettivo inizio del sandbox. Elite è il precursore, l’antenato. Myst e altri videogiochi sono anticipatori di alcune componenti specifiche. L’effettiva partenza sarebbe invece con The Sims da un lato e Grand Theft Auto dall’altro.

Anch’essi, peraltro, hanno i loro specifici “antenati”, come Little Computer People del 1985 per The Sims.La serie The Sims mostra bene come sia possibile un sandbox anche separato dalla componente open world. Il binomio tra le due parti è risultato spesso molto felice, e probabilmente quando pensate a dei sandbox vi verranno in mente tantissimi videogiochi che sono anche open world, ma non è possibile una sovrapposizione perfetta di questi due insiemi. Non possono essere considerati sinonimi come nella citazione riportata all’inizio di questo paragrafo, essendoci anche open world senza sandbox e viceversa.

GIOIA E NOIA

«To be frank: the great risk of the sandbox is that it can be boring» (Breslin 2009). Questa è una delle considerazioni finali dell’articolo di Steve Breslin. Vale la pena riflettere su quanto scrive, perché è utile per leggere anche molte situazioni attuali, tra cui i numerosi parallelismi e distinguo tra The Legend of Zelda: Breath of the Wild e The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom.

In Breath of the Wild la componente sandbox è largamente facoltativa, per quanto dotata di grande fascinazione. Ha permesso esiti di enorme creatività, ma nella maggior parte dei casi ha a che fare con quella libertà generativa di cui si è detto sopra. Il focus primario del videogioco è qui sull’esplorazione del mondo, ovvero su quei punti in cui i concetti di sandbox e di open world si sovrappongono maggiormente.

L’approccio da Grafter (per riprendere la suddivisione indicata in precedenza) rimane in secondo piano rispetto a loro.Tears of the Kingdom ridistribuisce il “peso” di queste componenti, dando molto più spazio ad aspetti tipicamente sandbox. Rimane comunque l’idea di open world, con una largamente accentuata dimensione verticale, ma ora tutto ciò che riguarda combinazioni di oggetti e approcci creativi viene spinto con prepotenza. Almeno per molti sacrari è anche obbligatorio per poter proseguire nell’esplorazione. A parità di altri fattori, non esiste una soluzione che sia migliore in senso assoluto, ma hanno entrambe un differente rapporto con gioia e noia.

Uno dei casi in cui si smette di giocare a un sandbox, dice Breslin (2009), è quando esso si rivela troppo difficile da padroneggiare. Smette di diventare la “cassetta della sabbia” in cui svagarsi senza pensieri e diviene una sorta di secondo lavoro, per il quale occorre studiare a fondo e applicarsi con grande dedizione. Anche Ahmad Saad (2009), quando parla di come scrivere per i videogiochi sandbox, segnala un punto analogo, quando dice di fare attenzione all’inserimento di troppe conseguenze differenti per le proprie azioni, perché il giocatore rischia di sentirsi soverchiato e non sa come procedere.

Questo, però, non è il caso di Breath of the Wild o di Tears of the Kingdom. Nessuno di loro due è così complesso, da questo punto di vista. Possono esserci singole operazioni molto difficili da mettere in pratica, ma i principi di base sono semplici. Un videogioco recente dove può invece emergere per alcuni questo problema è Elden Ring: tenere traccia di tutte le quest legate ai vari NPC, sapendo che non è possibile tornare sui propri passi in caso di errori, può effettivamente portare a un senso di sconforto, di fronte alla mole di informazioni che devono essere processate per fare tutto al meglio. E forse non è un caso che FromSoftware abbia dato almeno una piccola concessione, in una delle patch, aggiungendo sulla mappa la posizione attuale degli NPC.

Va anche detto che, almeno seguendo l’accezione comune del termine, non definirei Elden Ring un sandbox, sebbene può tranquillamente rientrarci se si osservano alcune definizioni “accademiche”.In Breath of the Wild e Tears of the Kingdom, invece, tutto dipende da quanto ogni singolo giocatore è interessato a determinati aspetti. Riprendo, avendola introdotta in precedenza, la classificazione delle attività nell’ottica del videogioco-giardino.

Questi due videogiochi hanno la grande fortuna di contenere almeno una parte di tutti quei cinque approcci. Ciò che bisogna fare è far emergere il proprio “bilanciamento” ottimale tra le attività per sfuggire alla noia.In Breath of the Wild è possibile fare molto come Grafter, sebbene l’attenzione non sia primariamente rivolta su questo aspetto. Viceversa, in Tears of the Kingdom l’approccio da Grafter è messo in primo piano ma, fortunatamente, se un giocatore non è interessato a esso può comunque lasciarlo perdere (almeno al di fuori dei sacrari) per concentrarsi su altro. Per esempio l’esplorazione del paesaggio, la storia (principale, ma anche le sue diramazioni secondarie) e altro ancora.

A seconda di dove si colloca il proprio sguardo, su quali attività si vanno a privilegiare, emergeranno però narrazioni e pareri differenti su cosa “sia” o cosa “voglia dire” Breath of the Wild e forse ancor più Tears of the Kingdom. E forse è questo il motivo per cui sembra a volte di leggere esperienze così differenti, tra coloro che parlano del loro approccio a Tears of the Kingdom.

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Pubblicato il: 23/05/2023

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5 commenti

Recuperato l'articolo solo ora e... Toniolo è una certezza! Incredibile approfondimento che mi ha fatto voglia di approfondire ancora di più la questione!

Una monografia davvero dettagliata e interessante, offre tanti spunti teorici per quanto riguarda il mondo sandbox (e non solo). Mi ha aiutato nella riflessione di alcuni punti a cui io non avevo dato importanza, consigliata la lettura completa.

Ecco questo è il classico articolo che spero di vedere trasportato cartaceo nel primo numero di final round con illustrazioni originali curate dal team smile™️. Complimenti Francesco

Gran Articolo, complimenti! Mentre leggevo mi è venuto in mente un altro genere di difficile definizione, il Life Sim, che peraltro può essere associato ad un paio di titoli citati nel testo come Grand Theft Auto e The Sims. Immagino che la diffico …Altro... Gran Articolo, complimenti! Mentre leggevo mi è venuto in mente un altro genere di difficile definizione, il Life Sim, che peraltro può essere associato ad un paio di titoli citati nel testo come Grand Theft Auto e The Sims. Immagino che la difficoltà nel categorizzare i prodotti videoludici sia sintomo di una certa maturità raggiunta dal medium. Tempo fa ebbi un'accesa discussione con un amico il quale affermava che il film As Good as it Gets con Jack Nicholson fosse una commedia romantica. La cosa mi portò a fare ricerche sulle varie definizioni di genere cinematografico e (come accade appunto trasversalmente tra medium), bisogna riconoscere che alcuni prodotti possiedono singoli aspetti di generi e risulta quindi ostico incasellarli.

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