TALE OF TALES
L'arte nei videogiochi per non giocatori
Immaginate una sorta di circolo virtuoso creativo. Degli sviluppatori indipendenti analizzano il mondo mainstream e ragionano sugli elementi ricorrenti presenti al loro interno. Questi elementi possono essere un po’ di tutto: la rappresentazione dei personaggi, la velocità di movimento del proprio avatar, la libertà di esplorazione, la necessità di seguire le indicazioni del gioco e molto altro ancora.Questi sviluppatori indipendenti isolano alcuni di questi elementi, staccandoli da tutto il resto. Li osservano da vicino, ci ragionano sopra, li modificano e li inseriscono in un contesto differente. Poi pubblicano a loro volta un videogioco che presenta queste nuove caratteristiche. Il pubblico non sempre capisce. Qualcuno urla “genio!” come fa René Ferretti della serie Boris. Qualcun altro dice che è tutta una truffa per fregare i gonzi che vogliono credersi degli intellettuali giocando a qualcosa di oscuro ed esoterico. Gli altri sviluppatori guardano, prendono appunti e recuperano a loro volta quelle idee. Le rimettono nel mercato mainstream, le ripropongono al grande pubblico, anche i videogiochi “tripla A”. Questo è quel che è successo con diversi videogiochi dei Tale of Tales. Anche altri sviluppatori indipendenti hanno vissuto un processo analogo, ma il loro caso è forse uno dei più rappresentativi. Nel loro discostarsi dalle logiche del settore, sono spesso riusciti a guardarlo con un occhio differente, distaccato, che è stato molto utile anche per grandi team impegnati in costose produzioni. Qualche volta i Tale of Tales hanno centrato appieno il bersaglio, qualche volta il meccanismo si è inceppato, ma la loro storia merita di essere conosciuta.
PRIMA DEI TALE OF TALES
Per comprendere la cosiddetta “scena indie” videoludica è utile guardare al suo passato, oltre che al suo presente. Quel che emerge, con questo sguardo indietro nel tempo, è una storia – anzi, una serie di storie intrecciate tra loro – in cui ci sono diverse tappe significative.Una di queste riguarda certamente i Tale of Tales, un team di sviluppo composto dal duo Auriea Harvey e Michaël Samyn. Il loro percorso tocca infatti almeno due storici momenti di passaggio del medium videoludico e aiuta a comprenderne l’evoluzione. Il primo di questi due momenti riguarda la loro attività anticipatoria rispetto all’affermarsi di quella che è stata comunemente definita la grande ondata indie intorno al 2010. Il secondo momento si lega invece alla loro decisione di non pubblicare più videogiochi commerciali pochi anni dopo. Nel corso del contributo si parlerà con una attenzione particolare di questi due passaggi, senza però trascurare il resto del percorso creativo e produttivo dei Tale of Tales.
Prima di tutto, è utile fornire alcune coordinate sulla linea poetica di fondo – ben riconoscibile – che Auriea Harvey e Michaël Samyn hanno sempre portato avanti.
I Tale of Tales hanno incarnato fin da subito, nello sviluppo videoludico, un modello “resistente” di approccio al mercato e alle convenzioni del medium. Non si limitano infatti – e già non sarebbe scontato – ad allontanarsi dalle correnti commerciali del panorama videoludico, anche quelle interne al mondo indie. Con un passo ulteriore, rifiutano anche gli statuti generali del concettualismo, dell’arte contemporanea e della game art, pur sottolineando la necessità di produrre arte e bellezza attraverso il medium, come hanno chiaramente espresso nel loro Realtime Art Manifesto (Harvey, Samyn, 2006).
In questo elenco, la game art richiede una piccola parentesi esplicativa, perché questo termine può fare riferimento a due realtà diverse, come ha indicato Matteo Bittanti (2006). La prima (per Bittanti game art con la minuscola) riguarda saperi e competenze artistiche presenti a monte di un videogioco, che si esprimono per esempio nei concept realizzati nelle prime fasi del lavoro su un nuovo prodotto. La seconda (Game Art con la maiuscola) identifica invece quelle espressioni artistiche prodotte a partire da un videogioco, da cui recuperano temi o strumenti, come machinima e varie forme d’arte videoludica (su questo si possono vedere i testi raccolti in Ferrari, Traini 2009; 2011 e Quaranta, 2013). Il manifesto di Tale of Tales, con la sua espressione «make art–games, not game–art» (Harvey, Samyn, 2006) si riferisce alla seconda accezione, tra queste due.
Come indicato dagli stessi Tale of Tales (Harvey, Samyn, 2010a e Samyn, 2010, oltre all’intervista in Juul, 2018), ciò che realizzano sono dei “non-giochi” che si allontanano dalle meccaniche (video)ludiche, proponendosi invece come delle opere digitali di intrattenimento. Come hanno sottolineato, quest’idea dei non-giochi nasce come una sorta di risposta dadaista a una frequente critica che veniva rivolta ai loro prodotti: «non sono videogiochi». Per cui hanno deciso di ribaltare questa critica abbracciandola, proponendo Notgames e segnalando che, effettivamente, quanto realizzato da loro rientrava nei “non-giochi”. Una cosa interessante è che, se si leggono le FAQ del loro progetto 8 (del 2002) si vede che sarebbero gli altri videogiochi a non essere degli effettivi “giochi”, secondo loro: « We have a strange relationship with computer games. We love playing them dearly but, in a way, only in as far as they are not games. Games never fail to frustrate us at a certain point with their mechanics and conventions (absurd puzzles and boss rounds that break the immersion, doing things over and over again, getting stuck already in the tutorial, etc., sounds familiar?). With “8”, we are trying to make a game that does not have any of the conventions that we dislike so much and which, in our opinion, ruin a lot of the joy that can be found in games» (corsivi nel testo originale).
Il loro percorso artistico nasce comunque prima dei loro videogiochi (o “non-giochi”) e già le esperienze pregresse rivelano molto sui loro interessi e approcci. Prima di iniziare a lavorare insieme, entrambi avevano già realizzato alcuni lavori individuali, legati alla net art. Di Michaël Samyn si può per esempio ricordare Love, mentre Auriea Harvey aveva preso parte alla lunga performance corale Brandon. Il loro primo lavoro insieme è skinonskinonskin (1999), una serie di lettere d’amore digitali in vari formati che i due si scambiano. In quel momento non è ancora emerso il nome Tale of Tales e la coppia si ritrova sotto il nome Entropy8Zuper!, unione delle loro precedenti pratiche e interessi web. Se si cerca oggi Entropy8Zuper!, questo è quel che viene indicato sulla pagina: « On the 22nd anniversary of the launch of Entropy8Zuper! We would like to point out that our site is no longer browseable. All of the files are still where they always have been, we never deleted a thing. But corporations do not care about net art history. Flash was murdered, net technologies moved on. Let us mourn! Let us CELEBRATE!».
Questa sottolineatura postuma mostra una preoccupazione che esisteva fin dall’origine del loro interesse artistico: la volontà di raggiungere liberamente le persone, senza dover ricorrere a una forma di mediazione. Come però si vedrà in seguito – e come in realtà emerge anche da questa amara citazione – tutto il loro percorso è stato un braccio di ferro contro piattaforme e istituzioni. La loro scelta della net art per disintermediare l’arte, evitando gallerie, curatori e musei (come si legge in un’intervista di Samyn in Jakimavicius, 2011), anni dopo ha portato all’inaccessibilità di quelle loro opere, a causa di differenti sistemi di potere.
THE GRAVEYARD, THE PATH E IL CAMBIAMENTO DEL MONDO INDIE
Come visto, prima che i Tale of Tales fossero tali, già si erano indirizzati verso l’importanza dell’interazione e la volontà di raggiungere il pubblico senza dover passare dai tradizionali gatekeeper. Tutto ciò si riflette sulla loro produzione videoludica.L’interattività non richiede particolari spiegazioni, in questo contesto. L’allontanamento dal gatekeeping è invece molto interessante, perché si lega all’evoluzione stessa del mercato videoludico, come anticipato in precedenza. Negli anni in cui si sono dedicati ai videogiochi (dal 2002 al 2015 circa), infatti, ci sono stati dei cambiamenti radicali, che hanno toccato anche la concezione di “videogioco indie”.
Ciascun (breve) periodo sembra ripensare il concetto di indie, e quanto veniva profilato ad esempio nel 2005 (Wilson, 2005) appare decisamente diverso dal 2008–2009 (con alcune sperimentazioni come quelle dei Tale of Tales da un lato e gli eshop da un altro) e ancor più dal 2010–2012 (con una nuova e rinnovata ondata di “figure autoriali” indipendenti, a fianco di crescenti possibilità per l’ampliamento dell’industria). In quegli stessi anni, per esempio, Brandon Sheffield scriveva, in un editoriale per «GDM. Game Developer Magazine», che «The term “indie” has lost its meaning as the scope of games has expanded. Maybe we need new terms—or maybe they're now irrelevant. What’s clear is that the opportunity for making games is wider than ever before, and indie or not, that can only mean good things» (Sheffield, 2011, p. 2). Sull’evoluzione del termine e su cosa rappresentasse intorno al 2010-2012 si segnala anche un esaustivo sunto di Cugliandro e Lupetti (2021).
Fatta questa breve premessa terminologica, una estrema sintesi del cambiamento in corso in quegli anni è la seguente: le piattaforme di digital distribution hanno permesso a un gran numero di piccoli team indipendenti di diffondere i loro videogiochi. Si parla di servizi come Xbox Live Arcade e piattaforme come Steam, che iniziano a mostrare il loro pieno potenziale intorno al 2008, pur esistendo già da prima, quando aprono man mano la strada a tutta una serie di prodotti videoludici che avrebbero avuto grandi difficoltà a vedere la luce, dovendo passare per la distribuzione fisica, che ha costi molto elevati. All’esterno della digital distribution c’è, pertanto, una prima e radicale forma di gatekeeping legata ai costi stessi: un videogioco “piccolo”, incapace di garantire un certo numero di copie, è automaticamente tagliato fuori. Le piattaforme, inoltre, non fanno una selezione così radicale, operando al più per pratiche di gatewatching (semplificando: operano un controllo a posteriori su ciò che viene inviato). Sono gli anni di Braid (2008), di Flower (2009), di Limbo (2010) e di moltissimi altri videogiochi che vanno a formare nella mente delle persone un nuovo concetto di “indie”.
I Tale of Tales operano però già da prima di tutto ciò. Il loro primo progetto videoludico, 8, è del 2002, seguito da The Endless Forest (2005). 8 non ha (ancora) una versione definitiva, a distanza di anni, sebbene siano emerse numerose versioni più o meno avanzate e ripensate del progetto originario. È interessante, comunque, il suo legame con le fiabe, che si lega anche alla scelta del nome stesso dei Tale of Tales. Il rimando è infatti a Lo cunto de li cunti (che in inglese diventa, appunto, Tale of Tales) di Gianbattista Basile, una raccolta di cinquanta fiabe in napoletano. Una di queste fiabe è Sole, Luna e Talia, una delle numerosissime versioni della Bella Addormentata, ed è la storia a cui i Tale of Tales si sono ispirati per il loro 8.
The Endless Forest è invece un MMO, in cui ciascun giocatore è un cervo. Come si può intuire già da questo elemento, il gioco è diversissimo da qualsiasi altro MMO a cui si è abituati. Non ci sono classi, combattimenti e dungeon. Ciò che ci si trova davanti, invece, è la crescita di un cervo, capace di interagire in vario modo con gli altri animali (e, quindi, con gli altri giocatori) presenti nella foresta.
È però con i successivi The Graveyard (2008) e The Path (2009) che le premesse tematiche poste dai Tale of Tales esplodono e si moltiplicano, sebbene meritano almeno una menzione volante anche i loro Vanitas (una sorta di memento mori digitale) e Fatale (ispirato alla storia della principessa giudaica Salomè).
The Graveyard e The Path sono due videogiochi in cui «l’esperienza del gioco è, per dichiarata intenzione degli autori, avulsa dall’obiettivo apparentemente espresso dalle regole» (Righi Riva, 2012) e si procede attraverso una sorta di game design empatico. Entrambi – esplicitamente il primo, meno direttamente il secondo – affrontano inoltre la questione della morte, con modalità inedite per il medium videoludico (Fallica, 2011; Toniolo, 2020).
In The Graveyard bisogna guidare una anziana signora attraverso un cimitero, fino a una panchina, ove è possibile farla sedere e ascoltare la musica che si diffonde. La versione a pagamento (4,99€) contiene gli stessi contenuti, ma aggiunge la possibilità che la signora muoia mentre è seduta sulla panchina. Una simile scelta rappresentava, negli intenti di Tale of Tales, una forma di denuncia verso espansioni e DLC a pagamento.
The Path, invece, è legato alla storia di Cappuccetto Rosso, per cui si torna al mondo fiabesco dopo 8. Si comincia in una casa, in cui sono presenti sei ragazze. Selezionando una di loro se ne assume il controllo e ci si trova in una strada nel bosco. Appare il seguente messaggio: «Go to Grandmother's house and stay on the path». Se si seguono le istruzioni, però, non succede nulla di interessante e si giunge a una sorta di game over. Bisogna esplorare il bosco, in cui ogni ragazza incontra un differente “lupo”. Solo in seguito a questo evento la situazione procede andando a casa della nonna. Quando tutte le ragazze hanno incontrato il loro lupo, una settima ragazza diviene giocabile, con un percorso che ripercorre quanto visto in precedenza dalle altre.
Questi due videogiochi hanno avuto un grande impatto sul medium, in modi talvolta inaspettati. Ne parla, tra gli altri, il designer Adrian Chmielarz (2015), uno dei creatori del videogioco narrativo The Vanishing of Ethan Carter, in un articolo dedicato al fallimento commerciale di Sunset, l’ultimo videogioco dei Tale of Tales. Prima di toccare questo discorso, però, Chmielarz ripercorre alcuni dei numerosi debiti che molti sviluppatori hanno dichiarato nei confronti di questi giochi. The Graveyard, in particolar modo, ha ispirato la sequenza nel villaggio del celebre Uncharted 2: Among Thieves (2009). Anche le grandi produzioni, insomma, hanno guardato a quanto realizzato dai Tale of Tales. Chmielarz stesso, inoltre, rivela che The Path è stato un forte elemento di ispirazione, quando ha realizzato The Vanishing of Ethan Carter, nonostante alcuni aspetti del gioco realizzato dai Tale of Tales fossero per lui ben poco funzionali. Ciò che lo ha colpito nel profondo, però, è la proposta di “abbandonare il sentiero”, che in The Path avviene in modo intelligente e per nulla scontato: «It’s not the heavy-handed metaphor of going off the beaten path that worked for me here. It’s the idea that the players must invest themselves in the game on their own, without the game offering them any extrinsic motivation. The world of The Path was just there, indifferent. And its exploration was not rewarded with extra ammo or completion points. It was the reward in and of itself» (Chmielarz, 2015).
Più in generale, The Path contiene numerose suggestioni differenti. C’è al suo interno un filone gotico (il bosco-labirinto, la vecchia magione, gli oggetti che attivano ricordi e svelano indizi, ecc.: Cohut 2015); c’è una flânerie postmoderna che porta a girovagare a vuoto senza obiettivi specifici, liberando il giocatore dal senso di colpa legato al “non far nulla” (Pelurson, 2019); c’è la componente metaludica di questo gioco, che costituisce una critica alle meccaniche dei videogiochi commerciali tramite le sue stesse meccaniche, costituendo un esempio di critica al medium tramite il medium stesso (Ensslin, 2013).
Anche i dati sulla ricezione e i guadagni di questi videogiochi sono però interessanti e raccontano molto sul mondo videoludico in generale. I dettagliati post sul vecchio blog dei Tale of Tales forniscono una serie di dati facilmente consultabili sull’andamento dei loro videogiochi, almeno per quanto riguarda il loro primo anno di vita. In un anno, per esempio, The Path ha venduto oltre cinquantamila copie, più di metà delle quali tramite Steam (Harvey, Samyn, 2010b). Oltre la metà delle vendite su Steam è avvenuta durante dei bundle settimanali in cui The Path era inserito, scontato, al fianco di altri videogiochi indipendenti. Al di fuori di simili finestre temporali si è mantenuta una bassa ma sostanzialmente costante “coda lunga” (Anderson, 2006). The Path, in un anno, ha generato un guadagno di circa 135.000€, a fronte di un budget produttivo di circa 300.000€; non ha tuttavia compromesso l’attività dei Tale of Tales perché una discreta parte della somma spesa proveniva da finanziamenti a fondo perduto rivolti a iniziative artistiche (Harvey, Samyn, 2010b). Viene sottolineata infine l’accoglienza della critica, generalmente positiva e talvolta entusiastica.
The Graveyard, invece, in meno di un anno è stato giocato da oltre centoventimila persone, ma solamente lo 0,34% di coloro che hanno scaricato la versione gratuita hanno poi effettuato l’acquisto del gioco (Samyn, 2008); il dato estremamente basso trova almeno in parte una spiegazione nella modalità atipica della versione a pagamento, di cui si è detto in precedenza. Anche in questo caso vengono inoltre riportati i pareri favorevoli di alcuni articoli (fra cui uno italiano: Tagliaferri, 2008).
Questi articoli fotografano la realtà di videogiochi economicamente poco proficui ma apprezzati, almeno dalla critica videoludica che si esprime nei suoi canali cartacei e digitali. Negli anni successivi, va detto, c’è stato un ulteriore recupero di questi videogiochi, spesso attraverso i video di YouTube. I giudizi espressi in questo caso sono però differenti, soprattutto quando si parla di The Graveyard, a proposito del quale i video più visualizzati (come quelli di PewDiePie, GameGrumps e CinnamoToastKen) presentano reazioni fortemente dissacranti e negative, o utilizzano il gioco per parodiare alcune pratiche di gaming diffuse su YouTube, come lo speedrun e il completismo.
Un video del canale CinnamonToastKen, in particolare presenta l’emblematico titolo The Graveyard SPEEDRUN 100% All Items Completion!!, utilizzando il tipico lessico di questi video ma applicato a un videogioco senza oggetti da raccogliere e intrinsecamente legato alla lentezza del movimento.The Path ha ricevuto invece un più ampio spettro di risposte da parte degli youtubers, anche in vista delle maggiori possibilità interattive e interpretative che offre. A fianco di video denigratori (come, in Italia, quello di Zeb89) sono presenti, per esempio, video che sottolineano l’aspetto inquietante del videogioco, ne propongono un’analisi metaforica e altro ancora. È possibile osservare come i “non–giochi” dei Tale of Tales vengono comunque di volta in volta ‘normalizzati’ per adattarne la struttura a dei modelli ormai sostanzialmente standardizzati di tipologie video sul gaming, a seconda di quale singola caratteristica viene messa in risalto.
È interessante notare come queste e altre creazioni dei Tale of Tales, sempre seguendo le loro dichiarazioni, oltre che dei “non–giochi” sarebbero anche stati pensati primariamente per un pubblico di “non–giocatori”, e questo è stato indicato in più occasioni come un elemento di difficoltà, nelle vendite e nella comprensione del pubblico. Chi si identifica come un gamer, infatti, tenderebbe in linea di massima a seguire una certa impostazione mentale su quali debbano esser le caratteristiche di un “videogioco”; chi, invece, è lontano da questa etichetta e da queste esperienze ha difficoltà a conoscere un simile mondo, o mostra particolari ritrosie.
Posto che “gamer” sia un’etichetta estremamente ampia, che racchiude moltissime posizioni e interessi differenti, è effettivamente vero che in molti casi c’è stata una ridicolizzazione dei loro videogiochi, mentre in altri casi sono stati normalizzati per inquadrarli nelle pratiche consuete del gaming. In molti altri casi ancora, infine, sono stati semplicemente ignorati o non hanno raggiunto determinate fette del pubblico di videogiocatori. Chi non videogioca, però, è ancora meno facilmente raggiunto dalla conoscenza di simili prodotti e, quando avviene, può mostrare disinteresse. Non è la sede per parlarne, ma in questa prospettiva operano molto di più certi – semplici – videogiochi per mobile rispetto a prodotti artistici.
I Tale of Tales proseguono in questa direzione con i loro successivi progetti, come Bientôt l'été (2012) e Luxuria Superbia (2013). Il primo viene nuovamente ricordato da Chmielarz nel suo contributo precedentemente citato: «I even enjoyed moments of the super cryptic – at least for me – Bientôt l’été. When sitting on a bench near the sea I got an extremely powerful sense of presence, and you can see from the screenshot above, it was definitely not about the graphics. That feeling got me thinking heavily on how to achieve something similar in The Vanishing of Ethan Carter» (2015). Bientôt l'été trae ispirazione dalle opere di Marguerite Duras, una scrittrice e sceneggiatrice francese molto nota nella sua madrepatria, ma conosciuta all’estero solo settorialmente (Samyn 2012). Uno degli aspetti interessanti del gioco è che il doppiaggio è esclusivamente in francese, mentre i testi sono tradotti in diverse lingue (italiano compreso).Luxuria Superbia è invece, in apparenza, un gioco senza troppe istruzioni esplicite e basate sul tocco dello schermo. Come si può comprendere dopo poco, però, in realtà Luxuria Superbia parla di sesso e masturbazione, attraverso il modo con cui si chiede di toccare le pareti di un fiore per stimolarle. Riportando le parole di una delle recensioni italiane (quella di Simone Tagliaferri, che aveva già seguito in passato e con attenzione le produzioni di questo duo creativo), «[è] così i Tale of Tales hanno deciso di mettere in scena il rapporto che intercorre tra l'uomo occidentale e le nuove tecnologie, in un continuo sfiorarle delicatamente, carezzarle, lambirle con le dita, premerle con più o meno forza e, nella sostanza, dar loro il piacere di funzionare e l'energia per farlo» (Tagliaferri, 2013).
SUNSET: IL VIDEOGIOCO PER GIOCATORI (O FORSE NO)
Nel 2014 le cose cambiano, quando i Tale of Tales decidono di realizzare il loro primo “gioco per giocatori” (Handrahan, 2014), con un buon supporto economico da parte del pubblico (una campagna Kickstarter chiusa con oltre 67.000$ rispetto a un goal di 25.000$), una buona copertura mediatica nella stampa specializzata e un banner pubblicitario su Rock, Paper, Shotgun. Questi sono alcuni dei punti da loro indicati (Harvey, Samyn, 2015a) come elementi che gli avevano fatto sperare in un buon successo.Il videogioco in questione è Sunset ed è stato pubblicato nel 2015. Si gioca in prima persona, nei panni di Angela Burnes, una domestica afroamericana che si trova nell’immaginario paese di Anchuria. Qui si trova a lavorare nella casa di un potente del luogo, giorno dopo giorno, sempre all’ora del tramonto. Man mano che la storia procede, Angela scopre sempre più dettagli sulla guerra civile e sul dittatore di Anchuria.
Nonostante le premesse, viste come particolarmente speranzose dai Tale of Tales, quando il loro videogioco è divenuto disponibile, in un mese sono state distribuite solamente quattromila copie, incluse quelle vendute nei bundle e quelle dei duemiladuecentoventotto backers di Kickstarter (le quali non hanno dunque portato nuovi fondi).
Sunset ha spinto i Tale of Tales ad abbandonare lo sviluppo di videogiochi. In seguito le copie sono aumentate, anche per l’inserimento del videogioco in un Humble Bundle, con il superamento delle 17.000 unità in tre mesi, sufficienti a ripagare i debiti ma non a definire Sunset un successo, né a generare un ripensamento nei Tale of Tales (Harvey, Samyn, 2015b).
Il percorso dei Tale of Tales, e in particolare il mancato successo del loro Sunset, offre con chiarezza un quadro sulla scena indie e anche sulla loro poetica e le loro scelte.In primo luogo, vale la pena riportare le loro parole in merito alla necessità di allargare il pubblico e di raggiungere nuove persone. Parole in cui richiamano le origini del loro percorso, con la volontà di discostarsi dalla massificazione del mercato, ma in cui riconoscono anche la difficoltà a sostenere il loro lavoro operano con numeri ristretti: «We hate the idea of viewing our audience as numbers in statistics. Way back in the nineties we embraced the internet as the distribution channel for art precisely for the opposite reason: to get away from impersonal mass-market broadcasting and to establish a two-way relationship with the people who enjoy our work. And that still exists, and is lovely. But we knew all along that the small number of people we can reach and have that relationship with would not be sufficient to sustain our work. So if you talk with us on twitter, hello, we love you, but we needed to reach beyond you. Into the land of big numbers» (Harvey, Samyn, 2015a).
Emerge poi una sorta di denuncia ai “gamers”, identificati soprattutto da alcuni commentatori della vicenda (per esempio Smith, 2015) come un freno al cambiamento artistico del medium, in quanto ancorati a una visione tradizionalista e ristretta del panorama videoludico. Questa critica ai “gamers” non è peraltro nuova. Gli stessi Tale of Tales, come visto, avevano voluto discostarsi da questa utenza fin dalle origini, e si ricordano diverse altre critiche nel corso del tempo, tra cui l’articolo Gamers are over di Leigh Alexander (2014). Il termine “gamer”, peraltro, aveva ottenuto una ulteriore connotazione negativa dopo le vicende del Gamergate, almeno in certi ambiti del giornalismo e della critica.
L’accusa ai cosiddetti “gamers” – posto che, come si è detto in precedenza, non sia così semplice tracciare dei chiari confini a questa categoria – non è comunque sufficiente a giustificare il fallimento di Sunset. Numerosi altri videogiochi definiti “artistici” o in una qualche misura persino “non–giochi”, infatti, hanno ricevuto un’accoglienza decisamente positiva; lo stesso Her Story (sempre del 2015) di Sam Barlow, citato nell’articolo di Edward Smith (2015) è stato accolto con molto più entusiasmo, con centinaia di migliaia di copie vendute. Sempre per rimanere su quel periodo temporale, videogiochi come To the Moon (Freebird Games, 2011), Dear Esther (The Chinese Room, 2012), Gone Home (Fullbright, 2013), Papers, Please (Lucas Pope, 2013) e molti altri hanno riscosso un successo decisamente maggiore, pur avendo tutti ricevuto critiche più o meno differenziate per il loro allontanarsi da ciò che il “gamer” stereotipico vorrebbe.
Con le critiche ai cosiddetti “gamers” – tralasciando le connotazioni aggiuntive legate al Gamergate e fermandosi un passo prima– sembra allora che sia emersa una sorta di indebita profilazione, in cui si tenta di riunire sotto una singola etichetta un gruppo che non è così omogeneo come lo si vuole rappresentare, sotto numerosi indicatori. L’appello a un ampliamento di prospettive può sempre rivelarsi un utile elemento di rilancio propositivo, ma senza ‘accusare’ una comunità i cui confini paiono peraltro tracciati a tavolino, a seconda delle esigenze del momento, e che in realtà sembra già contenere al suo interno – escluse le sempre presenti posizioni estremizzanti – quelle stesse istanze di cui si auspica uno sviluppo.
Il già più volte citato articolo del designer Adrian Chmielarz rimane invece quella che è una delle più lucide analisi sul fallimento di Sunset e su quanto un simile episodio abbia da raccontare sui Tale of Tales, sul mercato e sui cosiddetti “gamers”.Il fallimento commerciale di Sunset, secondo Chmielarz (2015), è stato provocato da almeno tre fattori distinti. Il gioco, in primo luogo, non è «engaging». Pur segnalando la sua opposizione all’idea di un’arte che sia «not–fun», non è propriamente di mancato divertimento che sta parlando, fattore che già aveva trovato nel fun’ di Bogost (2006) la possibilità di individuare un divertimento serio, politico e militante come alternativa alla classica accezione di fun. Il punto sottolineato da Chmielarz riguarda il fatto che Sunset si rivela meccanico e ripetitivo senza fornire un valore aggiunto a questa ripetitività, perché l’intento del videogioco non è simulare la routine quotidiana di una casalinga, anche se il videogiocatore viene posto nei panni di una simile figura.
I Tale of Tales, inoltre, non sarebbero riusciti a «understand the audience», perché le caratteristiche che avevano identificato come focali in un «game for gamers» erano in realtà dei generalissimi assunti di fondo o semplici buone pratiche d’uso, come i “controlli convenzionali”, delle “attività ben definite” e una “storia con struttura in tre atti” «Nevertheless, even within Sunset’s carefully constructed context of conventional controls, three-act story and well defined activities, we deeply enjoyed the exploration of themes, the creation of atmosphere, the development of characters, and so on» (Harvey, Samyn, 2015a).
Il loro atteggiamento talvolta insofferente, quando non persino aggressivo, verso la categoria dei cosiddetti “gamers” ha solo ulteriormente alienato un pubblico già poco coinvolto. I Tale of Tales, infine, non sarebbero riusciti ad applicare la loro espressività artistica a delle logiche di mercato che non possono essere ignorate. Molti loro ‘successori’ hanno raggiunto un successo ben più ampio perché sarebbero riusciti a calare quelle idee in una logica commerciale e produttiva, in cui si ha la consapevolezza della saturazione di Steam, dell’importanza delle finestre di lancio e di una serie di altri fattori. Ma sono anche molti i team che non hanno assimilato una simile lezione e costituiscono una buona fetta di coloro che puntano troppo (se non, persino, esclusivamente) sulla componente artistica ed emozionale a discapito degli elementi organizzativi e commerciali, trovandosi destinati al fallimento. I precedenti videogiochi dei Tale of Tales si sono rivelati possibili anche grazie a non indifferenti finanziamenti pubblici (Walker, 2015) poi venuti meno, a cui numerosi altri team di sviluppo non hanno peraltro sempre modo di accedere. Considerando che, negli ultimi anni, anche l’Italia sta vedendo una progressiva apertura a diverse forme di finanziamento videoludico, la riflessione dovrebbe essere utilmente recuperata e ampliata.
A margine si può anche sottolineare come Sunset abbia lasciato una traccia estremamente modesta su YouTube. Uno spunto di riflessione in merito giungeva proprio da un video sul canale LHudson (ora privato e non più visualizzabile) in cui veniva indicata questa significativa assenza, che le news e le pubblicità su siti e blog non avevano potuto colmare, in termini di engagement e interessamento. Cercare “Sunset” nel motore di ricerca, segnalava lo youtuber, conduce in primo luogo a una serie di contenuti differenti, per ovvie ragioni. Anche aggiungendo ulteriori parole, come “game” o “videogame”, i risultati di gran lunga più visualizzati riguardano contenuti differenti, legati soprattutto a Sunset Overdrive (Insomniac Games, 2014) e Sunset Riders (Konami, 1991), oltre ad alcuni spezzoni del film d’animazione My Little Pony – Equestria Girls – Friendship Games (Ishi Rudell, 2015) contenenti il personaggio Sunset Shimmer.
Solo con una ulteriore scrematura, magari ricorrendo all’operatore logico not o con l’aggiunta di “tale of tales” emergono dei risultati pertinenti. Di questi, quasi tutti i video sono critici o sarcastici, a parte qualche analisi dal taglio più ampio sul mercato dei “videogiochi artistici”. Nessuno di questi video, peraltro, ha delle visualizzazioni particolarmente rilevanti. L’unico video di YouTube Italia con un numero di views significativo in cui si parla di Sunset e di Quei Due Sul Server ed è a sua volta un contenuto che va a parodiare l’approccio artistico dei Tale of Tales.
Lo youtuber LHudson, nel suo video reso poi privato, affermava di non vedere alcun beneficio nel giocare a Sunset rispetto a vedere un video sul gioco, a differenza di altri prodotti che uniscono tematiche politiche e militanti a una maggior interattività e varietà, come nel caso da lui citato di Spec Ops: The Line (2012).
Sembra possibile affermare che Sunset abbia fallito nel proporre una componente emozionale che sia «meaningful» e capace di attivare corde intime difficilmente toccate da altri media (Isbister, 2016). Non solo in positivo, ma neanche in negativo. Un videogioco come Gone Home, tanto per fare un esempio, ha suscitato – al fianco di numerosi apprezzamenti – anche una forte risposta contraria. Sunset sembra essere stato semplicemente ignorato e dimenticato.Il discrimine è forse sottile ma significativo.
Già Salen e Zimmerman (2003) avevano aperto alla possibilità di un gameplay che si rivelasse «meaningful» a prescindere da stringenti obiettivi di gioco. La specificazione è necessaria perché di base, nel game design, il meaningful play identifica la qualità delle scelte cui il videogiocatore si trova davanti, nella sua interazione con il sistema di gioco, legato a un rapporto fra scelte e desideri. Ma anche Gone Home, Firewatch, Dear Esther e tanti altri rientrano in questa classificazione.Ciò che sembra mancare, nella progettazione dell’artefatto che genera l’esperienza di gioco, sono elementi capaci di generare una sufficiente partecipazione e produttività intorno alle tre tipologie proposte da John Fiske alcuni anni fa (1992): semiotic, enunciative e textual productivity.
Tornando alla presenza di Sunset su YouTube, lo scenario che emerge è quello di una serie di video incentrata su tipologie discorsive e performative molto limitate, se confrontate anche solo con altri esponenti dei cosiddetti “walking simulators”. Prodotti come Gone Home, Dear Esther e altri sopra citati hanno prodotto numerose teorizzazioni, interrogativi, ricerche di easter eggs e segreti, commentari narrativizzanti, parodie e critiche, oltre che – sul profilo performativo – differenti forme di gioco, che vanno anche a ‘rompere’ le premesse stesse dell’avventura. Anche sul piano citazionistico e memetico i riferimenti inseriti in Sunset sono in linea di massima decisamente lontani dalla cultura popolare e ancor più del web, offrendo uno scarso appiglio anche sotto questo punto di vista.Un ulteriore punto che richiederebbe una lunga e apposita discussione è legata al ruolo della critica e delle recensioni. Almeno in termini di vendite, tutte le positive recensioni e gli articoli di varie testate non hanno portato a Sunset delle vendite significative, come hanno amaramente segnalato i Tale of Tales, al fianco di un generale fallimento della PR Company a cui si erano affidati: «We spent a lot of money on a PR company who got us plenty of press, took some work and worries off our shoulders, and found us other marketing opportunities. But it didn’t help sales one bit» (Harvey, Samyn, 2015a). Sulla critica in generale si rimanda a questo speciale sulla critica videoludica, in cui viene toccata anche la questione del suo possibile ruolo, non essendo significativo il suo impatto (positivo o negativo) sulle vendite, in numerosi casi.
DOPO SUNSET
In seguito al fallimento commerciale di Sunset, i Tale of Tales avevano detto che non avrebbero più fatto videogiochi. O, perlomeno, non più videogiochi commerciali.
Il medium videoludico non è scomparso del tutto dalla loro attività lavorativa e artistica. Tra i loro lavori recenti c’è, per esempio, il remake di The Endless Forest, su cui continuano a pubblicare aggiornamenti recenti.
Merita inoltre una menzione almeno The Viriditas Chapel of Perpetual Adoration (2022), un’esperienza in VR ispirata alle visioni di Ildegarda di Bingen (monaca, santa e teologa) e alle musiche da lei composte. Questa esperienza, insieme al precedente Compassie. A Pietà in Virtual Reality (2021) fa parte del loro progetto Cathedral in the Clouds, avviato nel 2016, non molto dopo Sunset. Sul sito di Cathedral in the Clouds si legge: «A cathedral in virtual reality forms the home of an ever expanding collection of digital dioramas inspired by Christian narratives and iconography». Ci sarebbero dubbi sull’inserimento di questo progetto all’interno del medium videoludico, ma certamente i Tale of Tales non hanno abbandonato la scelta di fare arte digitale interattiva.
Come si legge sulla pagina di The Viriditas Chapel of Perpetual Adoration, Michaël Samyn si è convertito di recente al cattolicesimo e questa è la sua prima opera d’arte come cristiano. Questo cambiamento si unisce a diversi altri nella loro vita e nella loro carriera. Non vivono più nel Belgio, a Ghent (Gand), perché dal 2019 si sono trasferiti a Roma. Non si occupano più di videogiochi, ma hanno partecipato come docenti al master in game design dell’università IULM. Michaël Samyn ha scritto un libro in italiano (scaricabile gratuitamente) per esercitarsi con questa lingua. Un significativo passaggio di questo breve libro è il seguente: «Come a Gand, vivere a Roma sembra vivere in un museo. Ma al contrario da Gand, il museo da Roma è un museo vivente di quale gli elementi fanno parto [sic] della vita di oggi. Invece a Gand la gente sembra imbarazzata dal passato» (p. 25). È significativo perché tocca un punto che sembra cruciale in queste ultime produzioni dei Tale of Tales: il legame con il passato, e soprattutto con l’arte del passato. Ne parla sempre Michaël Samyn nel postmortem (2021) del suo Compassie.
Come si legge sempre in questo postmortem, il rapporto con l’arte del passato si può declinare anche sul piano personale, come nelle riflessioni di Samyn su ciò che è cambiato da Bientôt l’été: «While creating Bientôt l’été I was torn between the desire to appeal to an audience (of gamers) and the desire to explore the aspects of the medium that fascinated me. That doubt is gone now. If only because I wouldn’t even know who the audience for VR is» (Samyn, 2021).
Niente più audience da appagare, non sapendo nemmeno quale audience sia esattamente quella che ci si trova davanti. E un interesse per la VR che è emersa anche in altre loro produzioni, come Cricoterie, dedicata al regista e pittore Tadeusz Kantor, presentatato al Game Happens di Genova nel 2019.Sempre il postmortem di Compassie segnala, infine, che i Tale of Tales “sono morti”. Non come individui, né come coppia creativa. Harvey e Samyn sono ancora in vita e lavorano ancora insieme.
Adesso, però, si fanno chiamare con un nuovo nome: Song of Songs. Cricoterie, per esempio, è apparso sotto questo nome.Per molte persone, almeno nell’ambiente videoludico, rimarranno però probabilmente sempre noti come Tale of Tales. E magari i loro videogiochi del passato continueranno a ispirare nuovi team di sviluppo, andando ad allungare l’elenco di debiti e omaggi che citava Chmielarz.
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Pubblicato il: 01/03/2024
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