PIZZE DI METALLO E LOTTA DI CLASSE
Stray, Midgar e la dicotomia alto-basso che racconta le disparità del mondo
Stray, titolo d’esordio dei francesi Blue Twelve Studio, è stato forse uno dei fenomeni pop più intensamente chiacchierati degli ultimi anni. Purtroppo ci si è concentrati tantissimo sul micio protagonista – che, va detto, nell’epoca dei gattini sui social lo ha reso un videogioco statisticamente impossibile da far fallire – ma la vera forza della creazione di Blue Twelve Studio sta altrove. Stray è un videogioco che racconta la sua storia grazie ad una gestione magistrale dei suoi spazi, inquadrati però dal punto di vista anomalo di un gatto anziché del solito essere umano. La città murata di Stray, infatti, racconta silenziosamente la storia di un mondo antropizzato e plasmato dall’uomo e per l’uomo in cui a mancare sono proprio gli uomini, anche se la loro presenza passata si riverbera nelle costruzioni e nel comportamento degli abitanti cibernetici dei vari livelli in cui è divisa la città-fortezza. Non è chiaro se gli androidi che popolano la città imitino gli uomini in quanto esseri finalmente coscienti o se la loro coscienza si sia sviluppata proprio in virtù del loro imitare gli schemi di comportamento umani, fatto sta che la città raccontata da Stray è uno spazio urbano fin troppo umano pur essendo popolata solamente da vecchi robot malmessi. Questo, in realtà, apre le porte ad un problema molto preciso: non è detto che questo fosse nelle intenzioni del team di sviluppo, ma Stray ribadisce per l’ennesima volta il fatto che noi esseri umani che stiamo da questa parte dello schermo fatichiamo ad immaginare una società futura che sia drasticamente differente da quella in cui viviamo.
È difficile che un mondo popolato da soli androidi si sviluppi nella stessa maniera in cui si è sviluppato il mondo che abitiamo, eppure sembra quasi che siamo incapaci di sganciarci dalla nostra concezione di società quando andiamo a creare mondi fantastici. Così come una delle mie scene preferite di NieR:Automata mostra delle biomacchine intente a mimare un freddo atto sessuale nel tentativo di ottenere così il dono della riproduzione, allo stesso modo i bassifondi e l’infracittà di Stray sono popolati di macchine che si comportano come se fossero esseri umani pur non avendone alcun reale bisogno. Nei bassifondi ci sono androidi che gestiscono bar malandati, altri che ammazzano il tempo suonando una chitarra fatta di rifiuti, altri ancora che si limitano a stare sdraiati su un tetto ad osservare il finto cielo che li sovrasta sognando “l’oltre”. È proprio in virtù di questa apparente incapacità di immaginare una società robotica divergente dalla nostra, però, che certe opere sono in grado di riflettere con forza sulle storture del mondo reale. Estromettere gli esseri umani dall’equazione permette infatti di evidenziare la violenza intrinseca del nostro modo di concepire il mondo, perché vedere degli esseri che ci imitano incastrati negli stessi problemi del nostro mondo rende quei problemi più evidenti ai nostri occhi. La città murata di Stray, infatti, è una città costruita su più livelli, e ognuno di quei livelli segna il limite di demarcazione tra una classe sociale e l’altra, con i più poveri relegati in basso e i più agiati distribuiti nelle zone che si trovano più in alto.
Intendiamoci: Stray in questo senso non si inventa nulla. Quella della separazione fisica tra gli spazi destinati a classi sociali differenti è forse una delle metafore più utilizzate (e, spesso, abusate) dagli autori di tutto il mondo che decidano di trattare il tema. Il treno di Snowpiercer (Bong Joon-Ho, 2013) e Le Transperceneige (Jacques Lob, Jeanne-Marc Rochette, 1982) vede i più poveri abitare le carrozze in coda e i più ricchi vivere in quelle più vicine alla motrice, in Akira (Kazuhiro Otomo, 1988) Neo-Tokyo mostra una netta divisione tra il centro città benestante e rialzato e le periferie povere schiacciate dall’espansionismo della metropoli, in High-Rise (J.G. Ballard, 1975) il condominio che dà il titolo al romanzo accentra i più abbienti nei piani più alti e i poveri ammassati nei piani sovraffollati più vicini al piano terra. Gli esempi, in questo senso, si sprecano, eppure la metafora visiva dello spazio diviso su più livelli continua a funzionare benissimo. Nelle battute finali di Stray il micio protagonista, aiutato dall’ex-umano B-12, svela il malcelato inganno in cui vivono gli abitanti della città murata, scoperchiando la cupola d’acciaio che gli ha negato il sole per quella che sembrerebbe essere un’eternità. È in quel momento che ho ripensato a quella che ancora oggi considero una delle più incredibili tra le città videoludiche che abbia mai visitato nella mia vita. È in quel momento che ho ripensato a Final Fantasy VII e alla sua Midgar.
Quando la copertura della città murata 99 di Stray si ritira su sé stessa lo fa dividendosi in spicchi, in quella che è forse la più bella citazione (volontaria o meno che sia) a quella che Barret definisce la “&^#$# pizza” che oscura il cielo dei bassifondi in Final Fantasy VII. Midgar è costruita seguendo esattamente lo stesso schema metaforico di tutti i luoghi citati finora: la parte bassa della città è ricoperta di baraccopoli accatastate una sull’altra, private della luce del sole da una serie di piastre metalliche sospese a 50 metri d’altezza su cui vive la popolazione benestante. Midgar è una città a strati controllata da una corporation colpevole di star prosciugando la terra su cui poggia della sua energia vitale per produrre l’elettricità utile a soddisfare il fabbisogno energetico della sua popolazione più ricca. Lo strato inferiore è quello degli scarti, quello in cui vivono tutte quelle persone che non hanno le tasche abbastanza profonde per poter essere degne di godere della luce del sole e che per questo meritano di vivere nascoste agli occhi di tutti e di essere considerate semplice forza lavoro a basso costo.
A differenza di Stray, però, Final Fantasy VII non estromette le persone dalla sua equazione. Final Fantasy VII mette il giocatore nei panni di Cloud, un soldato che in quanto tale ha sempre goduto del diritto a vivere sullo strato superiore, e lo catapulta nelle viscere della città, a contatto con tutti gli indesiderati che gli abitanti perbene hanno sigillato sotto una “rotting pizza” di metallo sospesa a cinquanta metri sopra le loro teste. Quello che colpisce da subito è però che sotto i quintali di rifiuti e dietro alle porte delle baracche si nasconde una popolazione che pur soffrendo evidentemente la propria condizione fa buon viso a cattivo gioco e si è stretta in una collaborazione che gli rende possibile sopportare un’esistenza a tratti disumana. Le strade sono piene di bambini che giocano con mezzi di fortuna, di mercati che offrono cibo e divertimenti ai loro avventori e di persone che si destreggiano come possono nella difficile arte di sopravvivere.
L’atmosfera dei bassifondi di Midgar (ma anche di quelli di Stray) è l’atmosfera delle grandi periferie povere, delle case di ringhiera e dei quartieri popolari: sono spazi costruiti appositamente per i poveri che sono difficilissimi da abitare, in cui l’unica arma per sopravvivere è la cooperazione. È per questo che gli slums di Midgar e i bassifondi della città murata 99 sono avvolti da un’atmosfera così viva e sorprendentemente positiva rispetto alle città che gli troneggiano sopra. È per questo che la Midgar poggiata sulla pizza di metallo è una città splendidamente decadente ma fredda e molto meno viva della sua controparte povera, ed è per questo che l’infracittà di Stray, con i suoi negozi, i suoi club e le sue rigide regole, instilla immediatamente nel giocatore il bisogno di tornare a respirare l’aria malsana ma più “umana” dei bassifondi.
Per quanto questa romanticizzazione della povertà e della periferia fatta da certe opere possa sembrare spesso eccessiva e forzata, però, è una riproposizione molto fedele della realtà. In un bellissimo documentario del Wall Street Journal dedicato alla città murata di Kowloon, gli abitanti di quello che era considerato un vero e proprio inferno in terra che per anni è stato la spazio urbano con la più alta densità abitativa del mondo, in cui le condizioni igieniche erano disastrose e in cui proliferavano fumerie d’oppio, studi di dentisti senza licenza e bordelli, affermano di sognare di tornare a vivere al suo interno. Il quartiere, costruito alla periferia di Hong Kong, venne demolito nel 1994 a seguito di un piano di riqualificazione urbana voluto dal governo, e i suoi abitanti vennero ridistribuiti all’interno della città. Molti raccontano lo shock provato nell’essere privati della comunità alla quale si sono appoggiati per far fronte alle difficoltà della vita all’interno della città murata, raccontano del sentimento di sincero altruismo innescato dalle condizioni esistenziali insostenibili date da quella situazione, e ne parlano con un senso di nostalgia palpabile. Se lo si chiedesse a Barret o a Tifa direbbero anche loro di essere profondamente innamorati della loro gente e di quell’atmosfera così paradossalmente gioviale degli slums, e probabilmente lo stesso direbbero Momo e Clementine parlando dei bassifondi della città di Stray.
La chiave del discorso, però, sta nel fatto che pur amando davvero le comunità di emarginati da cui provengono, sia Barret che Momo non riescono ad accettare l’iniquità della vita che sono costrette a sopportare. Ecco quindi che si crea un nuovo parallelismo tra Stray e Final Fantasy VII, che vedono rispettivamente negli Oltreggiosi e nell’Avalanche la risposta ad anni di soprusi e vessazioni. Sono entrambi gruppi rivoluzionari, composti da persone incapaci di accettare la realtà in cui vivono e vogliosi di sovvertire lo status quo dei mondi che abitano. Gli Oltreggiosi di Stray, in questo, sono molto più pacati, ed esprimono il loro rifiuto delle imposizioni impartitegli dall’alto riunendosi in un gruppo di androidi che desiderano evadere alla ricerca dell’oltre, indicato quasi come se fosse la terra promessa che si nasconde oltre il cielo di metallo appeso sopra le loro teste. La loro rivolta è la fuga, l’abbandono degli spazi a cui sono stati assegnati e che gli è stato vietato di lasciare. L’Avalanche, invece, è un gruppo di eco-terroristi. Final Fantasy VII si apre in medias res, con Barret, Cloud, Jessie, Biggs e Wedge impegnati in un’azione terroristica contro uno degli otto reattori mako che generano energia per Midgar. Si tratta, ancora oggi, di uno degli incipit più potenti mai visti all’interno di un videogioco, che in pochi minuti mette il giocatore a confronto con un atto terribile che porta alla morte di centinaia di persone innocenti inquadrato come un male necessario per ottenere un bene superiore.
L’estraneità di Cloud alle dinamiche interne dell’Avalanche, peraltro, permette di mostrare l’attentato al reattore con una sincerità quasi brutale: quella che il giocatore sta combattendo è la guerra di qualcun altro, ed è proprio per questo che quel gesto risulta così controverso. La rivoluzione non si fa senza morti, ma quella che si è chiamati a compiere è una vera e propria strage che finisce per spezzare anche i membri dell’Avalanche stessa, che di fronte al risultato delle loro azioni realizzano forse per la prima volta la portata micidiale del gesto appena compiuto. La verità è che l’incipit di Final Fantasy VII è perfetto proprio perché dopo aver messo sul tavolo la questione morale dell’attacco alla Shinra obbliga il giocatore a rifugiarsi nei bassifondi, a contatto con la loro popolazione. Barret, Tifa e gli altri dicono di star facendo ciò che fanno per il bene del pianeta, ma la realtà dei fatti è che gli attacchi dell’Avalanche nascono da un profondo e malcelato desiderio di liberare la loro gente dal giogo classista in cui sono imprigionati da sempre. Lo stesso vale per gli Oltreggiosi di Stray, che in superficie sono un gruppo di sognatori la cui evasione nasconde la speranza di un futuro migliore per tutti i loro compagni confinati in fondo alla catena sociale. Non è quindi un caso che entrambi i titoli inizino dal basso, mostrando prima le dinamiche delle baraccopoli per poi metterle in netto contrasto con le città che le sovrastano, evidenziando sia l’ingiustizia sociale che domina il loro (e il nostro) mondo sia la profonda differenza di atmosfera che esiste tra gli strati socialmente accettabili e quelli poveri popolati dai reietti.
In definitiva si potrebbe raccontare Final Fantasy VII come un JRPG vecchia scuola che parla del tentativo di sovvertire la distruzione del pianeta da parte di un semidio scontento del proprio destino, mentre quella di Stray potrebbe venire liquidata come la storia di un gatto infilato involontariamente in un’avventura infinitamente più grande di lui. La verità, però, è che Stray e Final Fantasy VII sono due videogiochi estremamente politici, due opere che criticano ferocemente il nostro mondo e che, in realtà, parlano esplicitamente di lotta di classe e della rivolta degli ultimi. Non è quindi un caso che sia Stray che la prima sezione di Final Fantasy VII si concludano allo stesso modo, ovvero con i protagonisti immobili di fronte all’immensità di un cielo negato per decenni da un sistema che li ha intrappolati sul fondo.
Quasi come se fossero usciti dall’inferno a riveder le stelle.
Pubblicato il: 08/03/2024
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