LA CRISI D'IDENTITÀ DEI VIDEOGIOCHI PORTATILI

Le umili origini delle “handy machine” e i sogni di grandezza: come le console portatili sono cambiate e cosa hanno perso per strada.

Sfogliando le pagine di un numero dell’edizione inglese di Computer & Video Games, in una giornata qualsiasi di un anno che sarà stato forse il 1992, capii che da quelle parti le console portatili non erano console. La redazione dello storico mensile si riferiva al Game Boy di Nintendo, al Game Gear di Sega e al Lynx di Atari con il termine: “Handheld”, portatile. Un aggettivo che non si riferiva ad alcun sostantivo, lasciando sottinteso o mirando a sostituirlo del tutto. A farci caso, altrove nella rivista si capiva che con “console” si intendessero il Super Nintendo Entertainment System o il Mega Drive, il Nintendo Entertainment System o il Master System, il Neo Geo o… beh, no, basta, non ce n’erano altre in quel momento.

ARRIVANO I VIDEOGIOCHI DA PASSEGGIO

Le console portatili erano ancora nella loro infanzia: la prima a proporne una fu Nintendo nel 1989 con il Game Boy, seguita nel giro di qualche mese da Atari con il Lynx, prima che Sega e NEC si accodassero nell’autunno del 1990 rispettivamente con il Game Gear e il PC Engine GT (che però, a ben vedere, è basato su una filosofia differente). Per la precisione il progetto del Lynx di Atari venne sviluppato praticamente per intero da Epyx, costretta poi da problemi finanziari a lasciarlo nelle mani di Atari a pochi mesi dall’arrivo nei negozi.

Il nome che Epyx aveva dato alla sua console era Handy e “Handy Game Machine” era anche lo slogan che campeggiava sulla confezione giapponese del Game Boy. Il termine “Handy”, insomma, accomunava le prime due console portatili della storia.

Una definizione di console portatile potrebbe essere: un sistema che permette di utilizzare svariati giochi e che è perfettamente autonomo, potendo contare su alimentazione, schermo e sistema di controllo integrati

Storicamente le console portatili sono dei sistemi chiusi, proprio come quelle da casa, e quindi presentano delle specifiche risorse hardware che non devono o vogliono rispettare alcuno standard e si avvalgono di sistemi di immagazzinamento dati personalizzati (come le cartucce di tutte le console sopra citate o i dischi UMD della PlayStation Portable di Sony).

Poter contare su di un hardware pensato ad hoc per rientrare nello spazio limitato che si può permettere una console che può essere utilizzata in movimento, e non solo trasportata da un luogo all’altro, ha per forza di cose influenzato lo stile e la natura dei giochi disponibili sulle console portatili (almeno per una larga parte della loro esistenza). Quando Nintendo pubblicava Super Mario Land al lancio del Game Boy (1989) era già passato un anno dalla pubblicazione di Super Mario Bros. 3 per Nintendo Entertainment System, una console lanciata nel 1983 in Giappone. Dodici mesi più tardi sarà già tempo di Super Mario World per Super Nintendo Entertainment System, la nuova console da casa di Nintendo. Le differenze tra quello che può fare un sistema da casa e il Game Boy, sono evidentissime.

Da sinistra a destra, con le relative proporzioni dovute alle differenti risoluzioni: Super Mario Bros. 3 (NES), Super Mario Land (Game Boy) e Super Mario World (Super NES).

I videogiochi sono stati costretti per molto tempo a doversi piegare a limiti tecnologici molto pressanti: numero di colori, dimensioni degli elementi, risoluzione e quindi definizione dell’immagine, complessità delle costruzioni poligonali, simulazione delle fonti di luce, routine comportamentali di “attori” non controllati dai giocatori, qualità e quantità degli elementi audio… Per la loro natura, cioè per quello di cui si diceva poco più sopra, le console portatili hanno rappresentato per molto tempo delle versioni ridotte di quello che si poteva giocare a casa, avendo accesso ad armi tecnologiche decisamente spuntate. Ma aggiungendo, però, la libertà di giocare dove e quando si voleva (soprattutto in classe, a patto di non farsi beccare dai prof.).

Le abitudini di gioco sul Game Boy o sui suoi colleghi cambiavano: le partite erano solitamente più brevi, intanto perché era più probabile che si stesse ammazzando il tempo in attesa di fare altro (un breve viaggio in autobus, l’attesa in fila dal dottore) rispetto al ritagliarsi delle mezz’ore di tutta calma e dedizione assoluta. Poi perché l’autonomia delle batterie era una costante preoccupazione, in particolar modo nel caso delle console portatili con schermi a colori.

Credits: Tsugufumi Matsumoto / AP file

I limiti tecnologici e le abitudini differenti costrinsero gli sviluppatori di videogiochi a imboccare una di due strade: 1) proporre versioni ricalibrate verso il basso di giochi già esistenti (o ripescare direttamente qualche nome del passato, tecnicamente obsoleto per le console da casa e i computer), 2) seguire processi di game design differenti e adatti al gioco portatile. Out Run per il Game Gear ricordava solo da lontano l’originale da sala giochi: funzionava bene, ma in buona parte perché suggeriva quello che non era. Ci si faceva andare bene quello, mentre la memoria tamponava le mancanze richiamando i ricordi delle partite al bar… a quello vero. 

Tetris per il Game Boy è un’esperienza perfetta e non è un caso che il nome del puzzle game senza tempo di Alexey Pajitnov sia irrimediabilmente legato alla console di Nintendo: altrove Tetris era un congegno molto ben concepito, ma la cui efficacia veniva attutita dalla possibilità di provare giochi più ricchi visivamente e dalle ambizioni più complesse. Il Game Boy e Tetris, invece, sembravano fatti l’uno per l’altro: partite brevi, veloci, su uno schermo che basta e avanza per tenere traccia dei movimenti e dei posizionamenti dei tetramini.

Tetris non nacque con il Game Boy in mente e, tantomeno, per soddisfare la necessità di avere dei videogiochi adatti alle console portatili, ma l’esempio funziona lo stesso. Il Game Boy è stata l’unica console portatile di reale successo per i primi quindici anni di esistenza di questo modo di videogiocare e la sua storia è ricolma di giochi fatti apposta per il divertimento portatile. 

Torniamo al punto di partenza: per gli inglesi, in quegli anni, c’erano gli handheld e c’erano le console, due mondi paralleli simili ma separati.

L'INVIDIA DEL DIVANO

Il PC Engine GT di NEC e il Nomad di Sega hanno iniziato a rendere le acque più torbide. Le due console portatili condividevano l’idea di fondo: essere compatibili con tutti i giochi disponibili per le loro controparti da casa. Il PC Engine GT spiega già nel nome che poteva accogliere tutte le Hucard su cui erano contenuti i singoli giochi per PC Engine, mentre il Nomad di Sega non era altro che un Mega Drive in miniatura.

Un’altra cosa che condividevano era una dimensione che si spingeva fino ai limiti della portabilità ed esigenze di alimentazione che accorciavano drasticamente la durata delle batterie. Lo schermo a colori non era, poi, all’altezza dei televisori di casa. Il PC Engine GT soffriva di un effetto di ghosting, cioè di persistenza e trascinamento degli elementi in movimento sullo schermo.

Pur essendo di fatto delle console portatili, il PC Engine GT e il Nomad provavano ad andare oltre ai limiti tradizionali del formato. O, forse, si stavano semplicemente snaturando. Una situazione per alcuni versi simile si ebbe di nuovo con la PlayStation Portable, arrivata alla fine del 2004.

Credits: Bryan Ochalla

PlayStation Portable, spesso abbreviata in PSP, condivideva con il mondo PlayStation la stessa visione e l’ambizione di voler mettere nelle mani dei clienti una tecnologia di altissimo livello. Ken Kutaragi, l’ingegnere a capo dei progetti PlayStation e PlayStation 2 e poi CEO di PlayStation, aveva di nuovo preso in contropiede l’intero settore. PSP si fece prima notare grazie a un display nemmeno vagamente paragonabile a quello della concorrenza, quando venne presentato all’Electronic Entertainment Expo del 2003, poi perché era evidentemente più vicina a PlayStation 2 che a PlayStation, in quanto a risorse hardware. La distanza tra quello che poteva offrire una console portatile e quanto concesso da quelle in salotto si era assottigliato. Mentre Nintendo con il DS elaborava una macchina ancora più cocciutamente portatile, con due schermi e touch screen che davano un’interpretazione molto differente dei videogiochi disponibili a casa, Sony si muoveva verso un’esperienza sempre più omogenea.

Prima del lancio della PSP erano svariate le preoccupazioni sollevate dagli sviluppatori. Il formato utilizzato (dei dischi inseriti in un guscio protettivo di plastica) avrebbe allungato i tempi di caricamento e messo in pericolo l’immediatezza tipica del gioco portatile? Il display avrebbe vampirizzato la riserva di energia della batteria interna troppo velocemente? Specifiche hardware così sontuose avrebbero reso troppo lunghi e costosi i tempi di sviluppo? Alla fine, la PlayStation Portable si rivelò essere un grande successo, e contribuì a “normalizzare” l’esperienza offerta dai giochi, avvicinandola a quelle a cui eravamo abituati quando seduti sul divano e di fronte al televisore.

La stessa strada venne percorsa dalla PlayStation Vita, che arrivò a una sinergia quasi totale con la PlayStation 3: fu in quel periodo che, per la prima volta, si sperimentò la possibilità di giocare sostanzialmente allo stesso gioco, sia a casa che fuori casa. La funzione di cross-save permetteva di condividere il salvataggio, e quindi i progressi ottenuti, sia con la versione per la PlayStation 3 che con quella per la PlayStation Vita di un gioco. Stava iniziando a sedimentarsi l’idea che lo stile di gioco potesse essere spesso indistinguibile, che ci si ritrovasse con in mano un controller o un’intera console con schermo. Che si fosse sbracati in poltrona in un pigro dopocena o su un aereo pronto a decollare.

Questo non vuole dire che i videogiochi figli della tradizione portatile fossero scomparsi, ma è anche vero che il pubblico era ormai abituato a pensare che da una console portatile potesse attendersi qualcosa di più: un gioco di guida spettacolare, uno sparatutto in prima persona, un enorme gioco di ruolo in 3D, una simulazione sportiva con supporto completo al gioco online… E intanto anche gli hardware crescevano: l’ultima console portatile tascabile è stata il Game Boy Advance SP (2003), anche nella forma ridottissima del Game Boy Advance Micro (2005). La famiglia del Nintendo DS (2004) e del Nintendo 3DS (2011), della PlayStation Portable (2004) e della PlayStation Vita (2012) sono incompatibili con qualsiasi tasca e anzi, possono richiedere delle custodie adeguate a evitare che si rovinino quando abbandonate in uno zaino o in una borsa.

UN SOLO MODO DI FARE VIDEOGIOCHI

Il punto di arrivo è lo Switch, la prima console ibrida della storia dei videogiochi. O almeno la prima che è stata venduta come tale e che sulla sua doppia natura (da casa e portatile) ha costruito la sua comunicazione, perché dopotutto anche il Nomad poteva essere collegato al televisore. Lo Switch ha di fatto unito le due linee di prodotti di Nintendo, assorbendo l’eredità del Wii U (la console da casa lanciata nel 2012) e del Nintendo 3DS (2011). Dal 2017 non si può più scegliere una console di Nintendo da tenere solo in casa o una solo per il gioco portatile, perché lo Switch fa entrambe le cose.

Nintendo ha presentato lo Switch con un filmato che mostrava una persona giocare a The Legend of Zelda: Breath of the Wild su un grosso televisore, fino a quando decide di prepararsi e uscire. Ma non prima di aver preso la console per continuare a giocare anche fuori casa, allo stesso gioco. Che non è stato scelto a caso: è la serie più ricca e costosa tra tutte le produzioni di Nintendo, la tipica esperienza da casa, almeno in quella declinazione classica, così lontana dalle riduzioni portatili del passato. 

Nel 1998 The Legend of Zelda: Ocarina of Time firmava alcune delle pagine più importanti del game design in un mondo aperto in 3D. Il primo episodio di The Legend of Zelda in 3D per una console portatile è datato 2007 (Phantom Hourglass), quasi dieci anni dopo. Quel gioco aveva caratteristiche inedite, che di certo non si trovavano a casa: controllo via touch screen e interazioni con il microfono integrato nel Nintendo DS.

Questa consapevolezza nei giocatori che la filosofia di gioco si è di fatto uniformata (ma sarebbe meglio dire “appiattita”), rende più complicato proporre prodotti più piccoli, semplici, sperimentali, strampalati… come invece poteva succedere all’epoca del Game Boy e di tutte le altre, grazie alle aspettative “calmierate” da hardware limitati sotto il profilo visivo e di calcolo. È un paradosso, perché lo Switch è di fatto una console portatile, perfettamente aderente alla definizione stilata inizialmente. La sua dimensione casalinga è data da un adattatore che ne garantisce l’alimentazione ed estende la visualizzazione su uno schermo esterno, ma non incide in alcun modo sulle risorse hardware a disposizione. I limiti, Switch, li ha ancora tutti. Eppure, dov’è un nuovo Wario Ware? Dov’è un gioco che ha senso solo nell’immediatezza e nella leggerezza del gaming portatile?

Tirare in mezzo i videogiochi che hanno proliferato su dispositivi smart funziona fino a un certo punto. Mi pare evidente che da anni la scena sia stagnante e che ci si limiti ad aderire a formule che hanno detto tutto, pur continuando a rendere bene a pochi editori belli grassi. Il modo di fare videogiochi sui telefoni non si sta evolvendo, non sta influenzando le progettazioni di quelli da casa o “portatili” (si fa per dire, ormai). Anche la formula free to play non ha attecchito più di tanto e sono sempre più rari i casi in cui viene applicata dalle parti di PlayStation, Xbox o Nintendo. 

Il gioco portatile, con i suoi vezzi, è ridotto a qualche curiosa avventura del team indipendente del momento. Di questo sono convinto. Di questo ero convinto, prima di essermi ritrovato con un PlayDate tra le mani (ma di questo ne parliamo tra un po’, non troppo).

Pubblicato il: 30/04/2024

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6 commenti

Un tuffo nel nostalgico passato! E.. un bell'articolo scorrevole e riflessivo quanto basta !

il male del capitalismo è anche non accorgersi che il gioco su smartphone avrebbe tutti gli ingredienti per divenire, se sviluppato e coccolato, un capitolo validissimo di questo articolo, e forse quello definitivo, la convergenza maxima. invece il …Altro... il male del capitalismo è anche non accorgersi che il gioco su smartphone avrebbe tutti gli ingredienti per divenire, se sviluppato e coccolato, un capitolo validissimo di questo articolo, e forse quello definitivo, la convergenza maxima. invece il panorama è rimasto imbarazzante a dir poco, ma a quanto pare redditizio.

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