SAM BARLOW
Il maestro del palinsesto
Sam Barlow è indubbiamente il maestro dei palinsesti. Non in senso televisivo, ma filologico. Non si sta infatti parlando dell’accezione oggi più comune del termine, in cui il palinsesto indica l’insieme delle trasmissioni programmate in televisione (o alla radio). Si parla semmai del palinsesto che deriva dal greco πάλιν + ψηστός (pálin psēstòs), ovvero “raschiato di nuovo”. È il termine utilizzato per riferirsi a un manoscritto su cui c’era scritto qualcosa, poi il testo è stato cancellato e si è riutilizzato il materiale, andando nuovamente a scriverci sopra. Una pratica molto comune, dettata dal costo e dalla scarsità del materiale. Oggi, grazie alla tecnologia, è possibile leggere le frasi precedentemente cancellate, o almeno parti di esse.
Ma che cosa c’entra tutto questo con Sam Barlow e con le sue opere? Lo rivela lui stesso in tempi non sospetti, prima che si mettesse in proprio: «A palimpsest is an ancient text where many (often 100s) of different texts have been written on the same writing material over time. Modern techniques allow us to view these texts and attempt to find meaning in the densely over-written passages. This is how I refer to a story that is made of many smaller pieces, whose connections are not clearly defined — a work in which the reader/viewer/player assembles their own picture of what is going slowly by merging these smaller pieces of the puzzle. The pieces might contradict, or contrast, or seem unconnected. Initially they obscure each other and resist a global interpretation. But over time a coherent picture emerges» (Barlow 2009).
Come scrive, questo è il suo modo di riferirsi a tutte quelle storie composte da tanti piccoli tasselli con connessioni indefinite. Spetta al lettore metterli insieme e non c’è una soluzione giusta. I vari pezzi potrebbero essere in contraddizione tra di loro. Eppure, perseverando, ecco che si arriva a un quadro coerente. Proprio come quando ci si trova davanti ai diversi “strati” di un palinsesto.
Questo spiega la sua fascinazione per certi tipi di storie e, al tempo stesso, è un’ottima chiave per approcciarsi alle sue opere più famose. Andiamo però con ordine, partendo dall’inizio.
GALLINE, VIDEOCASSETTE E GNOCCHI
Il nome di Sam Barlow comincia a circolare, verso la fine degli anni ’90, tra gli appassionati di interactive fictions (o avventure testuali), dove produce alcune avventure testuali, di quelle in cui bisogna digitare determinati comandi per poter proseguire. Il sito «The Interactive Fiction Database» elenca tre opere di Barlow. La prima di queste è The one about the chicken, the lion and the monkey?, pubblicata nel 1998 e realizzata per partecipare alla ChickenComp, una competizione che aveva come tema la gallina che attraversa la strada. Barlow propone una storia in cui un uomo deve tornare a casa dalla propria fidanzata (possibilmente con un regalo per il suo compleanno!) e ha a disposizione un costume da gallina, uno da leone e uno da scimmia, da cui deriva il curioso titolo scelto.
Sempre nel 1998 pubblica anche The City. Come il precedente, anch’esso viene proposto (e forse appositamente realizzato) per una competizione: 4th Annual Interactive Fiction Competition, che fu vinta da Photopia di Adam Cadre, mentre Barlow arrivò tredicesimo (su ventisette partecipanti). La più approfondita (nonché una delle poche) recensioni di The City è quella scritta da Paul O’Brian (1998), che parla di un’esperienza narrativamente derivativa nel suo insieme, ma che presenta alcuni elementi di originalità, per esempio nell’interfaccia. Non sempre il primo aspetto è negativo e il secondo è positivo, peraltro. Perché ci sono topoi narrativi che continuano a funzionare bene anche se già molto noti, mentre certe innovazioni sono più un fastidio che altro. The City è la storia di un loop in cui il protagonista si trova a osservare sé stesso in una videocassetta. C’è uno sfondo distopico dietro alla storia, ma rimane appunto solo un vago contesto, poco approfondito.
Non vale comunque la pena soffermarsi più di tanto su questi primi esperimenti. Hanno ancora poco da dire su Barlow, a parte il suo interesse per le interactive fictions, di cui si rivela un fruitore appassionato che – come spesso avviene – recupera e rimescola suggestioni ricevute altrove, mentre è alla ricerca della propria voce personale. Se si fosse fermato lì, sarebbe stato uno dei tantissimi amatori che si divertono per un po’ prima di passare ad altro. Il successivo Aisle, del 1999, segnala però un primo e significativo cambiamento e a distanza di anni è tutt’ora spesso citato tra i migliori esempi di interactive fictions (lo fa per esempio Wheeler, 2009, p. 214 in un libro su come scrivere per i videogiochi). In quest’opera, Barlow mette in campo un ottimo esempio di one turn game o one move game: un gioco in cui si ha una sola mossa a disposizione.
Anzi, secondo Nick Montfort (professore di Digital Media al MIT), Aisle sarebbe l’apripista di questo genere, non essendoci dei predecessori (non noti o significativi, perlomeno). Come scrive Montfort: «By taking interactive fiction to one extreme, it is possible to create a work that allows for at most one command from the interactor during any traversal; in such a work, the first reply is also the final reply. This seems to have been done first by Sam Barlow, whose Aisle (released in 1999) places the player character in a supermarket» (2003, p. 217).
Il titolo, Aisle, richiama infatti la corsia (aisle, per l’appunto) del supermercato in cui si trova il nostro protagonista. Questa è la descrizione della scena:
Da questa premessa narrativa si sviluppano più di cento finali, a seconda del comando inserito. Ogni volta si arriva subito al finale e poi si riparte. Già questo è un curioso elemento di innovazione, da parte di Sam Barlow, ma non è la caratteristica più interessante di Aisle, se lo si osserva retroattivamente, alla luce di quelli che saranno i futuri videogiochi da lui realizzati. Esistono infatti almeno tre mondi possibili all’interno di Aisle (Clark 2017, p. 62), incompatibili tra di loro. La differenziazione è soprattutto legata a Clare, la compagna del protagonista. In alcuni finali, Clare è viva e sta ancora insieme a lui. In altri, la donna è viva ma i due hanno preso strade differenti. In altri ancora, Clare è morta. Sono poi ovviamente presenti anche molti finali in cui la donna non è citata e che pertanto potrebbero essere inseriti in ciascuno di questi tre mondi possibili.
Può sembrare un aspetto accessorio, forse anche banale, ma è utile per comprendere la “logica del palinsesto” presente nelle opere di Barlow, in cui si stratificano letture e significati differenti a seconda del proprio approccio al testo. Aisle è un prodotto contenuto, sperimentale, a suo modo ristretto, ma già ben rappresenta ciò che caratterizza in profondità la produzione successiva di questo autore. Va anche ricordato, comunque, che a quel tempo Barlow non aveva ancora le idee chiare su quelli che sarebbero stati i suoi videogiochi futuri. Come ha detto lui stesso in un’intervista (in Martín-Núñez e Navarro Remesal, 2021, p. 134), quando si guarda ad Aisle a posteriori, è facile riconoscervi i semi dei suoi lavori successivi, ma non aveva in mente un percorso coerente al tempo. Detto ciò, quel che ancora non si è manifestato qui è un altro elemento che diverrà molto caratteristico: l’utilizzo di filmati dal vivo. Prima di arrivare lì, bisogna però aggiungere ancora un po’ di passaggi al percorso evolutivo di Sam Barlow.
IL LAVORO IN TEAM
Dopo essere andato all’università, Barlow rimane per un po’ di tempo negli Stati Uniti, in cui viene assunto per lavorare a una sorta di antenato di Facebook. In particolare, stava lavorando per Michael Saylor, ricordato da Barlow come «a billionaire who was doing weird things with databases» (in Martín-Núñez e Navarro Remesal, 2021, p. 136). Tuttavia, si trova ben presto senza lavoro quando scoppia la bolla speculativa delle Dot-com, che destabilizza il mercato. Decide allora di ritornare nel Regno Unito per cercare un nuovo impiego. Non sa bene che strada prendere, ma un suo amico che fa il programmatore presso una software house di videogiochi gli consiglia di entrare in quel settore come artist. Sam Barlow inizia così a sperimentare con programmi come Maya e 3D Studio, per poi mandare CV e portfolio agli sviluppatori, fino a quando trova lavoro nel team Climax Solent (Barlow, 2015).
Barlow si è candidato come artista, ma visto che parla di design per quasi tutto il tempo, il suo ruolo viene presto modificato ed egli diventa lead designer del videogioco Serious Sam: Next Encounter (2004), uno spin-off della popolare serie di sparatutto Serious Sam. L’esatto ruolo che ha ricoperto è in realtà poco chiaro, perché i credits del gioco riportano Mark Davies come lead designer, mentre nel making-of appariva il nome di Barlow. In ogni caso, lui ha certamente lavorato come designer a Serious Sam: Next Encounter, anche se magari è stato lead designer (ovvero ha avuto un ruolo anche organizzativo nel team) solo per una parte dello sviluppo.
Dopo questo videogioco – che viene accolto con opinioni contrastanti – Barlow si ritrova coinvolto in altri progetti dal risultato altalenante. Prende per esempio parte allo sviluppo di Crusty Demons (2006), un videogioco legato all’omonimo gruppo di motociclisti statunitensi. È un bizzarro, violento e caciarone videogioco di acrobazie con le moto, rimasto nel cuore di alcuni appassionati ma per il resto passato senza aver lasciato il segno. Il successivo videogioco, Ghost Rider (2007), è un progetto già più interessante. Come intuibile dal titolo, si tratta dell’adattamento del film Ghost Rider uscito nello stesso anno. Il videogioco si presentava su PlayStation 2 e PlayStation Portable come un “clone” di God of War e Devil May Cry, mentre la versione per Game Boy Advance proponeva delle battaglie bidimensionali, eccetto durante la guida della moto.
Al videogioco hanno collaborato anche Jimmy Palmiotti e Garth Ennis, due noti autori Marvel, ma questi ultimi hanno dedicato poco tempo al progetto, che era per loro un lavoro secondario, di minore importanza. Barlow, invece, prende il lavoro molto seriamente, recuperando tutti i fumetti di Ghost Rider per documentarsi al meglio delle sue possibilità. Legge anche lo script del film, che non lo impressiona per niente. Quando arriva lo script del gioco, l’impressione è altrettanto negativa. Barlow stesso si mette a riscriverne intere parti e, nel team, tutti ritengono che la sua versione sia decisamente migliore, ma alla fine devono comunque attenersi allo script originario, perché è quello che è stato approvato da Marvel e non è possibile operare diversamente.
Un ulteriore passo in avanti avviene con il suo lavoro a Silent Hill: Origins (2007) e Silent Hill: Shattered Memories (2009). In entrambi, Barlow ricopre anche il ruolo di writer oltre a quello di lead designer. Origins è un prequel dell’originario Silent Hill (1999), mentre Shattered Memories è una riproposizione del primo episodio in un differente universo narrativo. Non sono, generalmente, i Silent Hill più apprezzati, pur rimanendo dei prodotti interessanti.
A proposito di Shattered Memories, c’è un passaggio piuttosto illuminante, in un’intervista fatta a Sam Barlow, perché rivela molto sulla sua visione della narrazione all’interno del medium videoludico: «If I pitched Shattered Memories, and say: “I want to make a game about the complicated grief of this 18 year old girl”, people would say that that doesn’t sound interesting as a video game. But because it was Silent Hill we got away with it. Now, thirteen years on, the breadth is much greater» (in Martín-Núñez e Navarro Remesal, 2021, p. 149). Insomma, nessuno avrebbe voluto investire sulla storia di Shattered Memories, se non ci fosse stato dietro il nome Silent Hill. L’avrebbero ritenuta poco interessante, poco adatta per un videogioco. In quegli anni, dice Barlow col senno di poi, i suoi successivi videogiochi, quelli che avrebbe realizzato da indipendente, forse non sarebbero mai usciti, perché gli acquisti digitali erano ancora pochi e per lanciare un gioco bisognava prima di tutto renderlo accattivante per le grandi catene come Game Stop. Nonostante ci sia stato questo cambiamento, il processo è ancora in corso. Anche oggi è possibilissimo trovarsi davanti al parere di persone che non ritengono “adatta a un videogioco” una certa forma narrativa o una certa tematica, ma di questo se ne riparlerà più sotto.
In ogni caso, Shattered Memories ha dato diverse soddisfazioni e forse, in un altro universo, Sam Barlow avrebbe continuato su questa strada, senza reinventarsi come sviluppatore indipendente. In effetti, è la strada che aveva originariamente intrapreso anche dopo Shattered Memories, visto che era stato coinvolto nello sviluppo di un progetto – sulla carta – molto interessante: Legacy of Kain: Dead Sun, che sarebbe dovuto essere il sesto episodio della serie Legacy of Kain. Il videogioco venne però cancellato nel 2012, dopo tre anni di sviluppo. Non si tratta nemmeno del primo progetto abbandonato in cui Barlow era stato coinvolto, visto che prima c’era già stato Elveon, un videogioco fantasy in terza persona cancellato nel 2010.
Dopo Shattered Memories – che per Barlow era la cosa migliore da lui realizzata (Barlow, 2015) – è pertanto arrivato un periodo di incertezza e, presumibilmente, di frustrazione, davanti a progetti cancellati dopo anni di lavoro. Per cui, anche in vista di simili eventi, nasce il desiderio di cambiare rotta. Niente più grandi produzioni.
È tempo di (ri)abbracciare l’indie.
LA SUA STORIA
La volontà di realizzare Her Story (2015) nasce mentre Barlow sta ancora lavorando presso Climax. L’idea alla base del gioco emerge dalla visione di Homicide: Life on the Street, una serie poliziesca statunitense degli anni ’90. Quel che affascina Barlow, in quella serie, è il modo con cui vengono condotti gli interrogatori, che appaiono come una sorta di arena, di campo di battaglia, in cui il detective e il sospettato si affrontano (MCV Staff, 2015). Un’altra ispirazione, da lui citata in un’intervista (Martín-Núñez e Navarro Remesal, 2021, p. 148) è stata la più o meno fortuita lettura di un articolo accademico che ragionava sul ruolo della risata all’interno degli interrogatori condotti dalla polizia. In questo testo, a un certo punto veniva detto che in questi interrogatori sono sempre presenti tre persone. Sono fisicamente presenti il poliziotto che fa le domande e l’accusato che risponde, ma è come se al loro fianco ci fosse anche una terza persona, che tengono sempre a mente nel loro dialogo: il giudice. Leggendo queste parole, Barlow ha un’intuizione improvvisa. Anche nel suo videogioco ci sarebbe stata questa terza presenza invisibile. Non più il giudice, ma il giocatore.
Da qui, l’idea di un videogioco basato sugli interrogatori, in cui focalizzarsi il più possibile sulla storia, andando a rimuovere o ridimensionare al massimo tutti gli altri elementi. Deve essere un videogioco realizzabile a un costo contenuto. Non un prodotto che faccia rimpiangere la mancanza di fondi a disposizione per realizzarlo. Questo pone ovviamente dei grossi limiti sotto diversi aspetti, primo fra tutti quello riguardante la componente grafica. A meno che non sia possibile trovare un modo per aggirare l’ostacolo.
Il videogioco che Barlow ha in mente non richiede di far muovere dei personaggi e, in generale, l’interazione è limitata. Per cui potrebbe funzionare bene utilizzando dei filmati dal vivo al posto dei modelli tridimensionali. Non sarebbe stata nemmeno una gran novità, nel medium videoludico. Anzi, un’operazione del genere avrebbe riportato alla luce un approccio che era già stato utilizzato molte volte in passato: il full motion video (o FMV), cioè l’utilizzo di filmati preregistrati. Si erano visti parecchi videogiochi realizzati in questo modo, talvolta ricorrendo all’animazione (come in Dragon’s Lair del 1983, realizzato insieme al maestro dei cartoni animati Don Bluth) e talvolta a scene dal vivo. Certo, anche un attore professionista ha il suo costo, ma sembra una strada decisamente più praticabile, soprattutto se si riesce a trovare la persona giusta. Sam Barlow decide così di sentire una sua vecchia conoscenza: la musicista ed ex atleta professionista Viva Seifert.
I due si erano conosciuti durante la realizzazione di Legacy of Kain: Dead Sun, nel quale Viva Seifert dava voce a uno dei personaggi del gioco. Espressiva, energica, precisa, sembra la persona ideale da coinvolgere. Lei accetta. Ha una grande responsabilità, perché il successo o il fallimento di Her Story sarà in larghissima parte determinato dalla qualità della sua performance attoriale. Lei e Barlow si mettono insieme a rivedere il copione, decisamente troppo ampio, che viene ridotto a meno di un terzo della lunghezza originaria. Il budget è limitato, per cui decidono di girare tutto quanto in cinque giorni a casa di Viva Seifert. Barlow interpreta l’ufficiale di polizia che, anche se non viene mai mostrato, è presente sulla scena e interagisce con la protagonista della storia. Il lavoro è estenuante, ma la performance è ottima e costituirà uno dei grandi punti di forza del gioco.
All’interno di Her Story si assume il controllo di un individuo, dall’identità inizialmente ignota, che si trova davanti al monitor di un PC. Attraverso un programma presente sul desktop, quella persona può effettuare una serie di ricerche, ricorrendo a parole chiave, che mostrano specifici momenti di alcuni interrogatori. I brevi filmati che emergono in questo modo mostrano una donna di nome Hannah, che deve rendere conto alla polizia della scomparsa di suo marito. I video mostrano solo il volto e le risposte di Hannah, lasciando in ombra le domande degli investigatori, sebbene molte di queste siano intuibili osservando le domande.
Questi brevi tasselli audiovisivi, che durano da pochi secondi a pochi minuti, svelano man mano curiosi e inattesi dettagli sulla storia della donna. In particolar modo, è possibile capire piuttosto presto che in realtà quegli interrogatori riguardano due persone differenti: Hannah e la sua sorella gemella Eve (sempre interpretata da Viva Seifert). Ricostruire la cronologia degli interrogatori aiuta a capire come si sono susseguiti gli eventi, ma rimangono comunque alcuni elementi aperti all’interpretazione. Quest’ultima si differenzia sulla base dei segmenti individuati e del significato che si vuole attribuire alle parole delle due donne. Il giocatore è quindi davanti a un “palinsesto”, nel senso indicato in precedenza, in cui ha davanti a sé dei lacerti sparsi di un discorso stratificato, che si suddivide su periodi differenti, a cui deve cercare di dare un senso. Non esiste il game over e non ci sono limiti di tempo per condurre l’indagine. Quando ci si sente pronti, è possibile abbandonare la ricerca, scoprendo a quel punto di aver giocato nei panni di Sarah, la figlia di Eve, a cui viene chiesto se ha compreso le ragioni legate all’agire di sua madre anni prima, al tempo in cui furono registrati quegli interrogatori. Una domanda che, ovviamente, è rivolta anche al videogiocatore.
Durante il processo interpretativo occorre essere elastici nel riconsiderare i materiali precedentemente visionati, che possono assumere un significato ulteriore alla luce di scoperte successive. Come sintetizzato in un contributo accademico sul gioco, «in Her Story, è possibile imbattersi in una registrazione apparentemente priva di informazioni utili per poi rendersi conto, dopo la visione di altre registrazioni cronologicamente precedenti o successive, che il video considerato superfluo in un primo momento nasconde verità importanti, percepibili come tali solo dopo aver memorizzato altre informazioni. In base all’ordine con cui ogni utente osserva i video, costruisce la sua personale catena di elementi narrativi evocativi, in cui spesso i frammenti lasciati in disparte inizialmente si rivelano tasselli molto importanti» (Genovesi, 2019, pp. 146-147). Si viene dunque sfidati da questa stratificazione concettuale e temporale, in quello che è un libero gioco interpretativo, dove non è possibile trovare un’unica soluzione al “puzzle” narrativo che viene proposto da Sam Barlow. In un’intervista (AppUnwrapper, 2015), Viva Seifert ha detto che per lei la vicenda raccontata in Her Story non presenta elementi di ambiguità, ma che capisce bene come mai tante persone diverse possano giungere a interpretazioni differenti, in base a come ricompongono il puzzle narrativo. Del resto, lei ha avuto una visione da dietro le quinte della storia completa, andando anche a co-crearla almeno in parte, visto che la sua performance forniva nuove idee a Barlow, man mano che proseguivano con la registrazione.
REPLICARE DIFFERENZIANDO
Grazie al successo raggiunto con Her Story, Barlow può permettersi qualche agio e qualche spesa in più, nella realizzazione del videogioco successivo. D’altra parte, ora il pubblico ha delle aspettative nei suoi confronti. Molti gli suggeriscono di realizzare un seguito di Her Story con un attore differente, ma Barlow non è convinto da questa idea. L’ideale sarebbe proporre qualcosa di abbastanza simile a Her Story da poter mettere a proprio agio chi lo ha apprezzato, ma che sia anche abbastanza differente da non renderlo solo uno svogliato sequel. Viene effettivamente trovato un buon bilanciamento con Telling Lies (2019), a cui inizia a lavorare dal 2016. Molti degli elementi visti in Her Story rimangono presenti, dal FMV alla ricerca di video dal desktop. Anche la presenza di un personaggio seduto davanti al monitor (e che viene idealmente controllato dal giocatore) fa il suo ritorno, con un risalto ancor maggiore rispetto al passato, visto che si osserva il suo riflesso sullo schermo.
Questa volta, la fonte di ispirazione sono le letture di Sam Barlow sulla sorveglianza online. Un discorso ricchissimo di spunti legati ai dispositivi di controllo, alle logiche del potere, alla privacy e alla separazione tra pubblico e privato. Va anche ricordato che, durante la lavorazione di Telling Lies, Barlow ha avuto modo di realizzare un altro prodotto legato a queste tematiche: #Wargames (2018). Questa serie interattiva recupera il titolo e alcune suggestioni del film Wargames – Giochi di guerra (WarGames) del 1983. Nella rivisitazione a cui lavora Barlow si seguono le vicende di tre giovani hacker alle prese con conti bancari, dati sensibili e attivismo. Non è solo un lavoro di Sam Barlow, è una sua collaborazione con il team della compagnia Eko, a cui dà una mano per concludere il progetto. Almeno in termini comunicativi, #Wargames viene presentato come una serie tv interattiva, al contrario di Her Story e Telling Lies che vengono proposti come dei videogiochi “cinematografici”.
Tornando a Telling Lies, quest’ultimo viene presentato come un incrocio tra le suggestioni di due pellicole cinematografiche: La conversazione (The Conversation, 1974) di Francis Ford Coppola e Shame (2011) di Steve McQueen. Il primo racconta la storia di un investigatore privato ossessionato dalla privacy a cui viene chiesto di pedinare una coppia di persone e di registrare la loro conversazione. Il secondo parla di dipendenza sessuale e di disconnessione emotiva.
Tutte queste suggestioni conducono, in Telling Lies, a una differente forma di investigazione, in cui si passano in rassegna dei video sottratti alla National Security Agency, che mostrano le videochiamate di quattro persone (un uomo e tre donne). Ritorna il sistema di ricerca tramite parole chiave che si era già visto in Her Story, questa volta in una forma più evoluta, in cui è possibile selezionare la parola desiderata dai sottotitoli presenti nei video. Sono inoltre presenti tre finali diversi, che possono essere raggiunti a seconda di quali sono stati i contenuti più visti. Telling Lies, nel suo insieme, ha anche una durata molto più lunga rispetto a Her Story, come del resto è intuibile. Se, con il videogioco precedente, Barlow aveva dovuto operare ottimizzando in ogni modo possibile costi e tempistiche, questa volta ha modo di registrare molto più materiale in location differenti e con diversi attori.
Dopo Telling Lies, la sperimentazione portata avanti da Barlow fa un ulteriore passo avanti con il successivo Immortality (2022), inizialmente presentato col nome Project Ambrosio nel 2020. Questa volta si segue la storia di Marissa Marcel, un’enigmatica figura che aveva recitato in due (immaginari) film mai pubblicati, Ambrosio e Minsky, il primo tratto dal famoso romanzo gotico Il monaco (1796) di Matthew Gregory Lewis, mentre il secondo è una storia di detective. In seguito, l’attrice sparisce dalla circolazione per una trentina di anni, per poi ricomparire in un terzo film, Two of Everything, anch’esso non pubblicato.
Come nei precedenti videogiochi di Barlow, per ricostruire il mistero dietro a Marissa Marcel bisogna osservare un gran numero di frammenti audiovisivi, dai quali bisogna trarre la propria interpretazione dei fatti. La differenza è che, questa volta, non bisogna operare attraverso parole chiave, ma tramite un procedimento in cui è possibile mettere in pausa i diversi fotogrammi, andando a caccia di elementi selezionabili, che consentono l’accesso a differenti filmati. Nonostante questa differenza, l’utente deve comunque portare avanti un procedimento analogo, che è stato definito di “telescoping”, inteso come la necessità di osservare gli elementi presenti nell’immediato mantenendo però al tempo stesso una prospettiva di lungo termine: «Il telescoping, che Barlow enfatizza anche nel suo secondo titolo, ossia Telling Lies (Furious Bee 2019), trova altresì in Immortality una totalizzante applicazione. L’utente non può fallire ed incorrere nel game over, non ha limiti temporali per ricercare i vari filmati e dev’essere non solo in grado di cogliere l’importanza di ciò che vede in una clip, ma essere altresì pronto a tornare sulla medesima clip successivamente, quando conoscerà maggiori informazioni contestuali tramite altri filmati» (Genovesi, 2023, p. 121). È qualcosa di simile al montaggio di un film, un processo in cui si torna più volte a rivedere quel che è stato montato, alla luce delle nuove parti che vanno ad aggiungersi e che possono fornire un ulteriore significato ai segmenti precedenti.
Come negli altri giochi di Barlow, anche qui ciascun giocatore attribuirà un significato diverso ai vari segmenti. Uno spezzone che per qualcuno è ben poco significativo potrebbe rivelarsi di grande importanza per un giocatore differente. Ed è questo, probabilmente, l’elemento più peculiare e significativo delle opere di Barlow, almeno fin qui, perché è quello che va maggiormente a toccare in profondità la struttura dei suoi videogiochi. Al suo fianco, sono comunque ben presenti altri elementi ricorrenti, come il già citato ricorso all’FMV o i temi del doppio e dello scambio di persona, che con varie modalità e forme attraversano le sue opere.
"VERI" VIDEOGIOCHI?
Vale la pena riportare un estratto del libro Handmade Pixels di Jesper Juul, dedicato ai videogiochi indipendenti e al concetto di “autenticità”. In uno dei capitoli, significativamente intitolato “A chi importa se è un gioco?” (Who cares if it's a game?), Juul porta proprio l’esempio di Her Story, riportando i commenti di alcuni utenti che lo hanno definito come qualcosa che non è un videogioco e come “robaccia da hipster”:
«consider Her Story […]. A user review rejects it: “This is not a game. Remove it, before people buy this sad excuse for a title.” Another poster in the same thread describes it as “artsy hipster crap.” It is common to see player comments like this, with a game rejected on the premise that it’s not a game, or not a real game. It has been noted many times that the word hipster will always apply to someone else, someone who is inauthentically trying too hard.21 To call a game “artsy hipster crap” is to deny it authenticity as a game, to claim it too artificially constructed, too removed from “real” gamehood. This is the paradox of authenticity […]: we may have identified several markers of authenticity in independent games, but someone may well reject a game as inauthentic because it consciously employs these markers—and hence is “artsy hipster crap”» (Juul, pp. 220-221).
Non è la sede per dare una risposta, ma è utile ricordare tutto ciò. A seconda di ciò che una persona ha in mente, quando parla di “videogioco”, le opere di Barlow potrebbero cadere al di fuori di quel perimetro. Come per molte produzioni analoghe, dove inizia il “film interattivo” e dove invece il “videogioco filmico”? Al di fuori di un senso pratico, in termini di categorie merceologiche (con tassazioni diverse, legislazioni differenti ecc.) potrebbe anche essere una domanda oziosa, in fin dei conti. Però è sempre utile ricordare, di quando in quando, che la ricerca di una “autenticità” videoludica, di quali sono le caratteristiche di un “vero” videogioco, sono questioni che ritornano periodicamente, forse perché certa utenza ha bisogno di un perimetro rassicurante e familiare all’interno del quale muoversi.
Chi si muove nell’indie, però, va talvolta a esplorare nuove strade, che escono da quel perimetro. Similmente ai pionieri del selvaggio West, talvolta finiscono per essere coloro che non ottengono un’effettiva fama. Sono, semmai, coloro che ricevono una fucilata nella schiena da coloro che seguono il sentiero che hanno tracciato, per prendere l’oro. Ci sono però anche dei casi dove quegli stessi pionieri sanno ritagliarsi il proprio spazio, dopo aver aperto un nuovo percorso o, fuor di metafora, dopo aver mostrato un modo differente con cui concepire i videogiochi. Tornando nuovamente a Handmade Pixels di Juul, il libro si conclude con queste parole: «With independent games, the gates have opened. We know how to make new video games, to make players do new things, and to design new experiences. With independent and experimental games, there is always something new to do, think, or be part of» (Juul, 2019, p. 255).
BIBLIOGRAFIA
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Genovesi (2023): Matteo Genovesi, Attraverso lo spazio-tempo: la narrazione ambientale in Immortality, «H-ermes», 24, 2023, pp. 115-128.
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Montfort (2003): Nick Montfort, Twisty Little Passages: An Approach to Interactive Fiction, MIT Press, Cambridge (MA) 2003.
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Pubblicato il: 08/05/2024
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