GDC 2024

NELLA MENTE DI

JORDAN MECHNER

Intervista al creatore di Prince of Persia

Intervistare un pioniere del videogioco come Jordan Mechner non è necessariamente cosa semplice e non solo per il ruolo importante che ha ricoperto nello sviluppo del settore o per l’aver creato con Prince of Persia uno fra i giochi formativi per la mia passione. C’è anche la sua adorabile abitudine a documentare la propria vita e a condividerla in mille forme, con la pubblicazione dei suoi diari, l’attività online, la partecipazione al documentario interattivo The Making of Prince of Persia e, di recente, l’aver scritto e disegnato il fumetto autobiografico Replay. Con una simile mole d’informazioni tranquillamente disponibile, come fai a inventarti cose nuove e interessanti da chiedergli? Non lo so, io comunque ci ho provato e l’ho tenuto rinchiuso con me in una stanza della Game Developers Conference 2024 per un’ora, una roba ai limiti del sequestro di persona.La nostra chiacchierata è partita proprio dall’inizio, da quando il giovane Mechner ha visto cambiare in maniera radicale il mondo dell’intrattenimento. “I primi videogiochi di cui ho ricordi,” mi ha raccontato, “sono Tank War e Lunar Lander. Li trovavi al fianco dei flipper, nei bowling, magari in pizzeria.” Stiamo parlando di un periodo in cui le sale giochi erano piene di flipper e giochi elettromeccanici e ritrovarsi improvvisamente davanti qualcosa che aveva uno schermo “fu interessante, era una novità. Ma a Lunar Lander giocavo per qualche minuto, mi divertivo, ma mi stufavo in fretta.” Il cambio di paradigma venne portato nel 1978 da Space Invaders, che era davvero qualcosa di differente: “Divenne una mania. Ci giocavano tutti. Era intenso. Era esaltante. C'erano quei bassi potenti... E per la prima volta iniziarono a spuntare sale giochi con file e file di Space Invaders, non un solo esemplare ma dieci o venti. Andare in sala giochi era come... Era come andare al cinema, un'esperienza elettrizzante. Ed era anche anche il periodo in cui iniziarono ad apparire i primi personal computer.”

Il giovane Mechner guadagnava qualche soldo col suo talento da disegnatore, facendo caricature per i passanti in strada, e pian piano riuscì a mettere da parte una cifra sufficiente per l’acquisto di un Apple II. Da lì, iniziò a darsi da fare per capire come sfruttare davvero quella macchina. “Iniziai a programmare in BASIC. E il genere di giochi che si potevano programmare era veramente semplice, cose tipo il gioco del tris. Stiamo parlando di giochi che erano stati sviluppati da programmatori su terminali, teletype, e poi "tradotti" sugli home computer. L'idea di avere giochi con una grafica era una cosa nuova e l'Apple II fu tra i primi computer in grado di avere colori.” Improvvisamente, era possibile avere su un computer titoli che eri abituato a vedere solo in sala giochi, come Pong o Breakout. “Poterci giocare a casa e poter scrivere il programma che li faceva funzionare era bellissimo. Per me divenne un'ossessione. Ma Space Invaders era su un livello superiore, perché aveva una grafica ad alta risoluzione e delle animazioni rapide. Mi resi conto che non si poteva programmare un gioco del genere in BASIC.” Quando uscì una versione di Space Invaders su Apple II, mi ha raccontato Mechner, “fu una cosa incredibile. Ci si poteva giocare a casa senza dover spendere monetine! Come avevano fatto a programmarlo? Mi resi conto che era stato fatto in linguaggio macchina e che dovevo impararlo, se volevo riuscire a fare qualcosa del genere” 

Ma all’epoca non c’erano corsi scolastici o libri che spiegassero in maniera approfondita come programmare videogiochi: “Sì. Era una cosa veramente nuova e il manuale del computer non spiegava molto il linguaggio macchina. Praticamente era magia, era Harry Potter, c'erano segreti che... Come si potevano scoprire? Ogni volta che capivamo qualcosa, la volevamo condividere. Non c'erano programmatori o ingegneri specializzati, non avevo idea di come funzionasse un microprocessore. Studiavo i giochi e cercavo di capire come fossero stati programmati.”

Pian piano, Mechner iniziò a programmare e a capire come far muovere quegli ammassi di pixel su schermo. I suoi sforzi per arrivare a pubblicare un gioco e il percorso di collaborazione con Broderbund nello sviluppo di Deathbounce sono ben documentati nei suoi diari e nel documentario interattivo The Making of Karateka, oltre che menzionati nella sua autobiografia a fumetti: “Nella mia graphic novel Replay parlo di quel periodo in una pagina, passando da quando iniziai a programmare i primi giochi all'ingresso all'università e il lavoro su Karateka, il mio primo gioco pubblicato. Chiaramente ci sono stati alti e bassi, momenti di scoramento e poi di determinazione, tutte cose che registravo nel mio diario.” Per fortuna sua e nostra, Mechner non rinunciò mai al proprio sogno: “Diciamo che da ragazzino ero... testardo. Ero determinato. Mi scoraggiavo magari per qualche giorno ma poi qualcosa mi risvegliava l’entusiasmo e ripartivo su un altro progetto. Ma sì, ci sono voluti diversi anni per arrivare al mio primo gioco pubblicato.”

Una schermata di Space Invaders per Apple II

Quel momento arrivò nel 1984 con Karateka, un gioco incredibilmente innovativo e capace di fare cose, da un punto di vista tecnico, che su un semplice Apple II parevano impensabili. Ma Karateka non fu certamente solo tecnica. La prima passione di Mechner fin da bambino era per forme di narrazione più tradizionali come cinema, fumetti, e il suo primo gioco pubblicato ha finito per essere quello con cui ha smesso di cercare di riprodurre Asteroids ed è riuscito a infilarci tutti i suoi interessi, creando un qualcosa che sembrava in qualche modo un film interattivo. È quasi poetico, suggerisco, e Jordan concorda, aggiungendo che questa cosa contiene “una lezione, valida anche per i giovani sviluppatori di oggi, perché ho cominciato provando ad emulare i giochi di successo e che ammiravo, come Space Invaders e Asteroids, ma ovviamente arrivavo sempre fuori tempo massimo. La prima volta che ho fatto qualcosa di veramente originale, che non copiava quanto fatto da altri, è stato perché avevo pescato da altre fonti d’ispirazione. E penso che nel 1984 Karateka spiccò perché non era ispirato solo ad altri videogiochi. C’erano le stampe e i film giapponesi, c’era l’animazione Disney, c’era la colonna sonora che usava l’approccio a base di leitmotiv della musica classica. Erano influenze che magari altri sviluppatori non utilizzavano, perché erano personali, unicamente mie. Per questo penso che quel principio sia ancora valido, anche se ovviamente il settore e la tecnologia sono esplosi in una maniera incredibile dagli anni Ottanta a oggi.”

“Un videogioco riesce a spiccare se contiene qualcosa di inatteso.”

D’altro canto, all’epoca si vedevano costantemente innovazioni, una produzione continua di giochi che inventavano sempre qualcosa di nuovo. Per certi versi, si potrebbe dire che l’epoca dei pionieri del videogioco sia andata avanti, forse, fino alla fine degli anni Novanta. Ho chiesto a Mechner se in quegli anni avesse la sensazione di stare costantemente reinventando quello che faceva, il medium, le tecniche, il genere. Ne era consapevole o semplicemente faceva quello che voleva e accadeva naturalmente? “Quando lavoravo sui miei primi giochi per Apple II, stavo frequentando l’università e studiavo cinema, che è un’altra mia grande passione. E imparai molto sulla storia del cinema. Guardando i primi film muti e il modo in cui si è sviluppato quel medium, e stiamo parlando di ottant’anni prima rispetto a quando avevo iniziato a programmare, fui colpito dalle similitudini con il settore dei videogiochi. Nel cinema avevano limiti tecnici, come li avevamo noi. I primi film muti non avevano movimenti di macchina, la macchina da presa era fissata su un cavalletto, tutto il film si svolgeva con una singola inquadratura e gli attori che si muovevano al suo interno. Niente montaggio, niente primi piani, niente movimenti di macchina espressivi e niente suono. Film come Viaggio sulla Luna di George Melies mi ricordavano i videogiochi per computer 2D: anche noi non potevamo muovere la telecamera, l’azione si muoveva da sinistra a destra, il suono era un insieme di bip e bzzz…”

Mechner rifletteva su decenni di evoluzione del cinema, “con l’introduzione dei movimenti di macchina dinamici, del montaggio, del suono, degli effetti speciali, di tutte quelle cose che oggi diamo per scontate, e pensavo che anche i videogiochi avrebbero visto quel genere di evoluzione, perché eravamo all’inizio e il linguaggio dei videogame doveva ancora essere inventato. Non era solo la tecnologia ad avanzare, era anche il linguaggio del medium. Quasi ogni gioco che usciva conteneva un’idea nuova che, potenzialmente, avrebbe potuto prendere piede e aiutare il medium ad evolversi, esattamente come il primo film che conteneva un montaggio incrociato o un primo piano aveva scoperto qualcosa che sarebbe stato aggiunto al linguaggio del cinema.”

E di sicuro Mechner contribuì al medium in maniera, col senno di poi, forse anche più significativa di quanto all'epoca fosse possibile intuire. Karateka, Prince of Persia, ma anche Another World di Eric Chahi, lanciarono l’idea di raccontare storie attraverso i giochi d’azione, mentre prima avveniva praticamente solo nelle avventure grafiche. E quell’idea è oggi una cosa normalissima e accettata, che vedi continuamente in titoli come God of War o The Last of Us. Ma del resto, è lì che Mechner voleva arrivare, ispirato dalle innovazioni di chi già prima di lui aveva sperimentato in certe direzioni, come Dan Gorlin con Choplifter, e inseguendo la sua passione per lo storytelling, il fatto che da bambino voleva disegnare film d’animazione ma si era reso conto che era troppo difficile. Furono invece i videogiochi a dargli questa opportunità.

Da bambino mi piacevano un po’ tutti i modi di raccontare storie, romanzi, fumetti, film d’animazione e non. E questa passione mi aveva fatto venire voglia di diventare io stesso un creatore in uno di quegli ambiti. Quando arrivarono i videogiochi, si trattava di un nuovo medium, una nuova opportunità. Nel 1978 ero un ragazzino ed ero frustrato, perché provavo a creare dei film d’animazione ma il risultato era, beh, era qualcosa che era stato creato da un quattordicenne. Guardavo i film Disney e pensavo che sarei stato in grado di fare la stessa cosa, ma c’era una distanza enorme che ci separava. Quando arrivarono i giochi per computer, essendo un medium veramente nuovo, i giochi di successo a cui giocavo coi miei amici e che venivano sviluppati da studi professionali sembravano più alla mia portata. Pensavo che se fossi diventato un programmatore molto bravo, magari nel giro di un anno o due sarei stato in grado di sviluppare un gioco all’altezza di quelli pubblicati e che nessuno avrebbe pensato che era stato creato da un bambino.”

Dopo il successo di Karateka, Jordan Mechner sviluppò la sua opera seconda, quel Prince of Persia che avrebbe in larga misura definito la sua carriera e tracciato il suo percorso creativo nei decenni a venire. Gli ho chiesto se all’epoca, vedendo il gioco riscuotere quei consensi di critica e pubblico, si fosse reso immediatamente conto gli stava cambiando la vita e la risposta è chiaramente negativa: “Era una cosa incredibilmente rara e una grande fortuna, per un ragazzo poco più che ventenne, riuscire a creare giochi che raggiunsero un grosso pubblico e ottennero riconoscimenti. Ma per tutto quel periodo, io volevo diventare uno sceneggiatore, un regista. Avevo davvero la sensazione che videogiochi e cinema fossero carriere separate e che avrei dovuto fare una scelta. Inoltre, dopo Prince of Persia, studiai cinema, diressi dei cortometraggi a 16 millimetri. Imparai quel mestiere. Ed erano cose talmente diverse che non riuscivo a considerarle due facce della stessa carriera.” Mechner era combattuto, pensava che le due attività si escludessero a vicenda, che il tempo speso a sviluppare videogiochi lo tenesse lontano dal cinema e il tempo speso a dirigere film studenteschi fosse rubato alla sua carriera nei videogame. “Per questo vedo una sorta di ironia poetica nel fatto che quando finalmente venni ingaggiato per scrivere un film da un grosso studio cinematografico fu per Prince of Persia. Era un progetto iniziato come gioco per Apple II e mi aveva portato da Jerry Bruckheimer. Quei due percorsi paralleli avevano finito per convergere e unirsi.”

Aver creato una IP di così grande successo, che ha finito per vivere di vita propria e che molto probabilmente sopravvivrà al suo creatore, è forse il massimo a cui possa aspirare una persona creativa. Ma allo stesso tempo, talvolta, può diventare una condanna, perché se vieni inquadrato come “quello di Prince of Persia”, poi può diventare difficile avere l’opportunità di fare altro. Interrogato al riguardo, Mechner mi ha confessato di vedere sostanzialmente solo i lati positivi del successo: “Creare qualcosa talmente di successo da perdurare a lungo è raro e bellissimo. È stato fantastico vederlo adattato in tanti medium ed è bello vedere che è giunto alla sua terza generazione, dai primi giochi 2D al periodo di Le sabbie del tempo nei primi anni 2000 e ora la ripartenza con The Lost Crown. E in più il film e i fumetti! Quindi sono molto grato, perché Prince of Persia mi ha dato la possibilità di lavorare in tutti questi ambiti che amo molto.” E non solo, oggi Mechner è soprattutto un fumettista, ha scritto opere come Templar e Monte Cristo, curando anche Replay come autore completo. E anche le porte di quella carriera si sono aperte grazie al successo della sua creatura, quando venne adattata in fumetto. “Non mi sono mai sentito limitato. Sicuramente ci sono fan di Prince of Persia che vorrebbero vedermi passare anni a sviluppare un altro episodio, ma è una cosa che non mi ha mai influenzato o limitato. Ho sempre lavorato sui progetti che mi appassionavano ed esaltavano. Negli ultimi trentacinque anni, ho lavorato su tre videogiochi e un film di Prince of Persia. Ci sono stati i primi due episodi 2D, poi Le sabbie del tempo e quindi il film. Tutti i miei altri progetti non hanno avuto nulla a che fare con Prince of Persia: The Last Express, Monte Cristo, Liberté, Replay... E anzi, se Prince of Persia porta la gente a scoprire i miei altri lavori che altrimenti non avrebbero conosciuto, ne sono felice e grato.

The Last Express fu un progetto estremamente ambizioso e personale in cui Mechner si lanciò durante gli anni Novanta. Ma fu anche un progetto difficile, con un ciclo di sviluppo lunghissimo e con la responsabilità, per Mechner, di aver fondato uno studio e dover lavorare per mantenerlo in attività. “Nel 1993, quando iniziammo lo sviluppo, arrivavo dai primi due Prince of Persia. Questo progetto costituiva un modo per unire la mia esperienza nello sviluppo di videogiochi e l’opportunità di fondare uno studio che quei successi mi avevano garantito, ma anche i miei studi cinematografici, il mio interesse nella scrittura, nella regia e nella narrazione cinematografica, e pure nei confronti del fumetto europeo, che avevo appena scoperto. Enki Bilal, Jacques Tard… tutti autori che da americano non conoscevo. The Last Express riunì tutte queste cose e il mio interesse nella storia europea del ventesimo secolo.” 

Mechner concorda che dedicarsi a questo progetto costituì una mossa ambiziosa e rischiosa: “Sarebbe stato più facile sviluppare un altro Prince of Persia, ma per me era più importante sperimentare e dedicarmi a un progetto che mi entusiasmava, cercando di trasmettere quell’entusiasmo anche agli altri.” Tutto questo sforzo e questo amore sono stati ripagati dai fan, che sulla distanza hanno trasformato The Last Express in un gioco di culto amatissimo. Quell’avventura grafica così bizzarra, sperimentale tanto nelle scelte estetiche quanto nel gameplay incentrato sulla manipolazione del tempo e del racconto, “è davvero un gioco figlio dell’amore e venticinque anni dopo, ne vado orgogliosissimo. Ricevere ancora oggi i complimenti di giocatori e altri sviluppatori che hanno amato The Last Express, ne sono stati emozionati o ne hanno tratto ispirazione, è una cosa che scalda il cuore. Per questo, anche se non ha venduto bene come Prince of Persia, è comunque gioco che è rimasto nella memoria e ha superato la prova del tempo, conquistando l’amore e la fedeltà dei suoi fan. Insomma, ne ho un bel ricordo.”

E a proposito del non aver sviluppato un terzo Prince of Persia… non è che Mechner non ci abbia provato, anche perché Prince of Persia 2 si concludeva con un cliffhanger, introducendo un nuovo personaggio che avrebbe dovuto fare da antagonista nel capitolo conclusivo della trilogia. “Nel 1993,” mi ha raccontato, “stavamo partendo con Smoking Car Productions e la nostra idea era di realizzare anche il terzo Prince of Persia, ma quel progetto venne abbandonato per il semplice motivo che nel 1993 i giochi 2D non interessavano più ai publisher come anche solo un anno prima. E questo a causa di Doom e del successo degli sparatutto 3D in tempo reale, un nuovo genere che faceva numeri enormi.”

Mechner avrebbe poi riprovato a concludere la sua trilogia nel 2017, lavorando con un team di Montpellier per sviluppare quello che “sarebbe stato un gioco in 2D piuttosto piccolo, sviluppato da un team dalle dimensioni modeste. Una cosa paragonabile a Inside o Limbo. Ma purtroppo quel progetto non è andato in porto e quel cliffhanger con la strega rimane ancora lì appeso.”

Vent’anni abbondanti prima del 2017, però, si manifestò sul settore dei videogiochi un fulmine a ciel sereno chiamato Lara Croft. Per chi aveva nel cuore Prince of Persia, giocare al primo Tomb Raider nel 1996 fu un’esperienza… particolare, perché per molti aspetti, dal movimento “a quadrati”, alla rarità dei combattimenti e al mix di azione ed esplorazione, sembrava una specie di Prince of Persia in 3D, con una donna e delle pistole al posto del principe e della sua spada. La cosa buffa è che Tomb Raider recuperava anche il particolare approccio alla colonna sonora dei giochi di Jordan Mechner, nato in origine come espediente per aggirare i limiti tecnologici. Ai tempi di Karateka e Prince of Persia, Mechner lavorava su Apple II, un sistema tecnicamente limitato nel quale era necessario fermare completamente l’azione per poter generare la musica. Da questo limite tecnico nacque quella che poi sarebbe diventata una cifra stilistica di Mechner, l’utilizzo dei leitmotiv in momenti specifici che interrompevano l’azione per sottolineare l’emozione. Personalmente, ritrovo questo suo approccio e questa sua forza comunicativa in tutte le sue opere, al punto – e mi rendo conto che può essere una mia sovrainterpretazione – di “vederlo” anche in certi passaggi dei suoi fumetti, per esempio sulla morte di [redatto per evitare spoiler] in Templar, con quei primi piani che fermano l’azione per sottolineare l’emozione... E quasi si sente la musica. Gli chiedo se questa cosa abbia senso o sia solo una mia lettura folle e mi risponde che “i fumetti sono un medium visivo, privo di musica. Ma nella costruzione della tavola, delle vignette, cerchiamo di dare un senso del ritmo e del dramma. Nel cinema si fa in modi diversi. E in un gioco per Apple II come Karateka, come dicevi, c’erano limiti tecnici che crearono un’opportunità per uno stile magari più teatrale. Un po’ come per i personaggi dei vecchi film muti, siccome la telecamera era distante e la risoluzione era quello che era, i pixel erano talmente grandi che i personaggi dovevano risultare espressivi attraverso le pose. Sono felice che quella scena di Templar ti abbia colpito. LeUyen e Alex sono degli artisti fantastici e hanno creato qualcosa di veramente toccante e cinematografico, con una storia epica ma anche intima e umana.”

Riguardo alle somiglianze che vedo fra il primo Tomb Raider e Prince of Persia, Mechner concorda, “ma in modo positivo, lo presi come un complimento. Certo, fu fonte di preoccupazione per il team di Broderbund che nel 1997 si stava mettendo al lavoro su Prince of Persia 3D. Perché se Tomb Raider era Prince of Persia con le pistole e una protagonista femminile… come si poteva evitare che Prince of Persia 3D finisse per essere solo un Tomb Raider con le spade e un personaggio maschile? Era un dubbio lecito.” 

In quel momento, Broderbund si trovò a competere con un fenomeno colossale come quello di Lara Croft: Prince of Persia era passato dall’essere un grosso successo al ruolo di Davide contro Golia. Ma Mechner non venne coinvolto: “Come abbiamo detto, c’era stato un momento in cui con Smoking Car Productions eravamo pronti a lavorare sul terzo Prince of Persia 2D, ma quando quella cosa non andò in porto, dedicammo tutte le nostre forze a The Last Express. E quindi non lavorai su Prince of Persia 3D. Se ne occupò Red Orb Studio, che faceva parte di Broderbund, e per loro era un qualcosa di veramente nuovo.” 

Qualche anno dopo, però, Mechner ebbe l’occasione di lavorare su un Prince of Persia tridimensionale, con Le sabbie del tempo: “Ubisoft mi contattò per propormi un rilancio di Prince of Persia, quindi andai a Montreal per incontrare il team. Era uno studio molto giovane, con gente come Yannis Mallat e Patrice Desilets, e volevano riportare in vita Prince of Persia sulla nuova generazione di console.” Sulle prime, Mechner era stato coinvolto per “scrivere la storia, contribuire alla parte narrativa, dirigere gli attori e le sequenze animate, e integrare gli elementi di narrazione e quelli di gioco.” Ma ci prese gusto, si ritrovò a collaborare in maniera sempre più stretta e finì per trasferirsi a Montreal e unirsi al team “come game designer e anche scrittore e narrative designer.”

Chiaramente era una situazione molto diversa da quella dei primi due Prince of Persia su cui aveva lavorato: il principe non era più strettamente una sua creatura e ora Mechner doveva confrontarsi con una produzione e uno studio di sviluppo dalle dimensioni più grandi. Gli ho chiesto se fu complicato e se fece fatica, in un certo senso, a cedere il controllo sulla sua creatura: “Fu bellissimo. Tra l’altro, sì, era un team sensibilmente più grosso rispetto alla produzione dei primi due Prince of Persia ma era comunque più piccolo rispetto a quello di The Last Express. Quindi arrivavo da un’esperienza che mi aveva preparato molto bene, un progetto che aveva una forte componente narrativa, in cui avevo fatto esperienza di direzione degli attori, di registrazione dei dialoghi… E anche dal punto di vista tecnico, sotto certi aspetti, The Last Express fu molto più ambizioso e difficile di The Sands of Time, che era un gioco d’azione per console. Certo, presentava le sue sfide, ma dal punto di vista della creazione di una nuova tecnologia e di sperimentare con la narrazione, Le sabbie del tempo fu un progetto molto più lineare.”

Quel progetto con Ubisoft finì anche per fare da rampa di lancio verso il sogno hollywoodiano e, inevitabilmente, verso un'altra esperienza che l'avrebbe visto perdere il controllo della sua creatura: "Dopo aver lavorato su Le sabbie del tempo a Montreal, tornai a Los Angeles per proporre l’adattamento cinematografico e Jerry Bruckheimer e Disney lo acquistarono, volevano produrlo. Non ci voleva un genio per immaginare che non sarei stato l’ultimo a lavorare sulla sceneggiatura, Jerry Bruckheimer era noto per la sua abitudine di far scrivere e riscrivere gli script quattro o cinque volte. Quindi, insomma, me l’aspettavo. Speravo però che mi dessero modo di scrivere una prima bozza e fare almeno una prima riscrittura completa e di qualità. E fu così. La mia prima versione fu apprezzata al punto che mi venne chiesto di scriverne una seconda, sulla base della quale il film venne messo in produzione. Come sceneggiatore, è una bella soddisfazione. Poi, certo, una volta avviato il progetto, ci lavorarono sopra altri, ma è normale.” Mechner, comunque, ebbe anche l’occasione di partecipare in prima persona alla lavorazione del film: “Andare nel deserto del Marocco, sul set, per seguire le riprese, fu una bella esperienza, emozionante e bizzarra. La produzione portò migliaia di persone, costruendo città fatte di tende, con cavalli, camion, eserciti, quantità enormi di persone che si occupavano delle armature, dei costumi, delle armi… Dopo aver passato così tanto tempo a modellare queste cose in 3D e pixel su uno schermo, vederle ricreate nel mondo reale e pensare che tutta quella roba era nata con qualche pixel su Apple II fu surreale. E poi incontrare un cast del calibro di Mike Newell, il regista, e gli attori, Ben Kingsley, Jake Gyllenhaal, Alfred Molina. Proprio quell’Alfred Molina che in uno dei suoi primi ruoli, nel primo Indiana Jones, non era riuscito ad evitare i chiodi e aveva fatto da ispirazione per il primo Prince of Persia! Incontrarlo nel deserto che interpreta un personaggio nel film di Prince of Persia fu davvero un cerchio che si chiudeva.”

Su quel set Mechner visse esperienze surreali, raccontando a Molina del suo ruolo nella nascita di Prince of Persia e chiacchierando con i vari attori che andavano a raccontargli di averci giocato… “Alcuni, a seconda dell’età, anche al gioco originale!”

Successivamente Mechner è un po’ uscito dal mondo di Prince of Persia e non ha per esempio lavorato in alcun modo al reboot del 2008, nel quale però era ancora fin troppo evidente il suo lascito, con una caratterizzazione dei protagonisti e dei loro battibecchi chiaramente figlia di Le sabbie del tempo e del film. Ma, in un modo o nell’altro, ha continuato a tornare sui suoi classici. Nel 2012, per esempio, è uscito un remake di Karateka che l’ha visto collaborare e con cui è riuscito a riproporre il suo primo gioco in una veste moderna ma tutto sommato rispettosa dell’originale: “Se ne occupò uno studio di nome Liquid, a Los Angeles, ma ci lavorai anch’io. Il nostro obiettivo era di creare un gioco breve, semplice e facile da giocare per tutte le età.”

Ma il suo nuovo Prince of Persia, come abbiamo detto, non è mai giunto a compimento e oggi si ritrova ancora una volta a giocare a un capitolo della saga su cui non ha lavorato. Gli ho chiesto cosa pensi di The Lost Crown, che ha ammesso di avere con se, nella borsa, in versione Switch: “Penso che il team di Montpellier abbia fatto un lavoro meraviglioso nel prendere elementi da tutti i vecchi Prince of Persia,” mi ha detto, “tornando agli originali in 2D ma anche recuperando cose come i poteri temporali di Le sabbie del tempo e aspetti del gioco del 2008. E hanno anche pescato molto dalla vera mitologia persiana, usando il lavoro che avevamo fatto per quel Prince of Persia mai uscito su cui avevamo lavorato assieme. The Lost Crown è il gioco con il feeling, la storia e la mitologia “più persiani” di tutta la serie. E il team è riuscito a prendere tutti questi elementi e unirli in maniera molto intelligente, generando un qualcosa di coerente e soddisfacente sia come metroidvania che come Prince of Persia. Ne sono davvero molto felice. E per tornare a quando mi chiedevi sul lasciare la mia creatura in mani altrui… È come vedere un figlio e osservarlo mentre va ed esplora il mondo. È chiaro che i Prince of Persia su cui ho lavorato, come Le sabbie del tempo, costituiscono un’espressione dei miei gusti e di mie scelte, ma è bellissimo anche vedere un gioco incredibile come The Lost Crown sviluppato da un altro team. È come andare a cena a casa di tuo figlio ormai diventato adulto. Ti dà fastidio quando vedi che non ha arredato il salotto come avresti fatto tu, o che cucina in maniera diversa da te? No! È bellissimo andarlo a trovare e farsi servire una bella cena in una bella casa. È così che mi sento nei confronti di The Lost Crown.”

Oggi, Mechner lavora soprattutto come fumettista. La sua ultima opera è una serie in tre volumi pubblicata da poco in Francia, che Mechner ha scritto per i disegni dell'italiano Mario Alberti. Si intitola Monte Cristo e adatta il romanzo di Alexandre Dumas ai tempi contemporanei. Nel 2023, invece, Mechner ha pubblicato il primo fumetto da lui interamente scritto e disegnato, Replay, un racconto autobiografico intergenerazionale dedicato alla sua famiglia, che mescola tre linee temporali incentrate su Jordan stesso, suo padre e suo nonno. 

Gli ho chiesto come sia stato ricevuto, anche al di fuori del pubblico di videogiocatori che ci si avvicina per ovvi motivi: "Uno dei fili narrativi di Replay,” mi ha detto, “racconta la mia vita e il mio percorso creativo, e chiaramente ne ho passato gran parte occupandomi di videogiochi. Ma non è un libro sui videogiochi o sullo sviluppo di videogiochi, parla anche di molto altro. Parla di famiglie, di genitori e figli, degli sconvolgimenti del ventesimo secolo, di come si intersecano la vita creativa e la vita personale, di come il passato filtra nel presente attraverso le generazioni. Penso che sia un libro rivolto a tutti ed è stato interessante vedere che più o meno metà dei lettori che incontro e con cui parlo l’hanno scoperto attratti da questi aspetti. Parla di ricordi di famiglia intergenerazionali e del ventesimo secolo. Per questi lettori, la parte sui videogiochi è qualcosa di totalmente nuovo e spesso mi dicono di aver scoperto cose al riguardo, di come questa lettura li abbia fatti interessare maggiormente ai videogame e abbia fatto da punto di contatto con i loro figli o nipoti.” Ma chiaramente in molti, come il sottoscritto, si sono avvicinati a Replay perché fan del Mechner game designer e “Per loro, la parte rivelatoria, di scoperta, è il lato storico del racconto, quello che parla di famiglia. Insomma, sono molto felice che Replay sembri stare funzionando con entrambe queste fasce di pubblico.

Ma ciò che lo rende veramente felice è l’idea che le sue opere facciano da punto di contatto fra più generazioni ed età. “È davvero la cosa più bella che ti possa capitare come autore e creatore,” mi dice: “adoro incontrare i fan di Prince of Persia, e mi è capitato anche qui alla GDC, che mi raccontano di averci giocato da bambini assieme a un genitore, o a un nonno o una nonna, e che ora condividono quell’esperienza con i propri figli.” 

Gli dico che ho giocato a The Lost Crown assieme a mia figlia e gli si stampa un sorrisone in faccia, sul quale ci salutiamo.

Pubblicato il: 27/06/2024

Abbonati al Patreon di FinalRound

Il tuo supporto serve per fare in modo che il sito resti senza pubblicità e garantisca un compenso etico ai collaboratori

1 commento

info@finalround.it

Privacy Policy
Cookie Policy

FinalRound.it © 2022
RoundTwo S.r.l. Partita Iva: 03905980128