JENOVA CHEN
Il linguaggio universale
«E vanno gli uomini a contemplare le vette delle montagne, gli enormi flutti del mare, le lunghe correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri, e non pensano a se stessi» (Confessioni, X, 8, 15).
Questa è una nota frase delle Confessioni di sant’Agostino. La stessa frase che avrebbe letto Francesco Petrarca nell’ascesa al mont Ventoux di cui parla in una delle sue lettere. Ed è anche la frase che Jenova Chen ha citato all’inizio di una sua intervista (Parkin, 2015), per parlare di come vede il rapporto con gli altri e con i videogiochi. Guardare dentro di sé – come invitava a fare sant’Agostino – è qualcosa che fanno in pochi, oggi come al suo tempo, e forse ancor più rispetto al suo tempo.
Eppure, se ci si fermasse per un secondo, ci si renderebbe conto di tante cose sorprendenti. Come, per esempio, il fatto che possiamo provare un enorme numero di emozioni, ma a volte non abbiamo le parole e le immagini per poterle descrivere al meglio. Questa è una forma di schiavitù, molto sottile e proprio per questo molto pericolosa. Essere impossibilitati a comprendere e a parlare di quali sentimenti ci muovono limita enormemente le nostre possibilità, ci tiene stretti nella morsa dell’angoscia. Soprattutto perché le emozioni con cui si ha più frequentemente a che fare sono negative. Basta accendere un telegiornale per rendersene conto. E – attenzione – anch’esse sono necessarie, ma pure in quel caso serve conoscerle meglio, così da non lasciarsi conquistare.
Una delle funzioni delle arti dovrebbe essere proprio quella di porre gli esseri umani davanti a un bagaglio emotivo arricchito, così che possano guardare dentro di essi e (ri)scoprirsi. Anche il videogioco è chiamato a tale compito, ma – come sottolinea Jenova Chen – troppo spesso ci si è limitati a sparatorie e uccisioni, perdendo per strada tutta quella grande ricchezza emotiva. Attraverso i suoi giochi, Chen è stato uno di quelli che ha voluto mostrare una strada differente, producendo esperienze in cui si ragionava prima di tutto sull’emozione da suscitare nei giocatori, prima della narrazione, del gameplay e del messaggio da trasmettere. E lo ha fatto portando avanti la costante ricerca di un linguaggio che fosse idealmente universale, che potesse toccare le corde emotive di ogni persona, superando barriere culturali e comunicative.
COMMUOVERSI CON IL FINAL FANTASY DELLA CINA
Xinghan Chen (il vero nome di Jenova Chen) nasce in Cina, a Shanghai, l’8 ottobre 1981. La sua famiglia appartiene alla classe media e suo padre ha lavorato prima alla realizzazione di computer e poi nell’ambito della software development. Chen è figlio unico e, come spesso avviene in casi del genere, riceve su di sé tutto l’affetto dei genitori, ma anche una grande pressione affinché egli dia sempre il massimo in ogni occasione. Per questa ragione, gli è difficile seguire la precoce passione per il disegno che ha sviluppato (Wen, 2007), perché i suoi genitori hanno in mente un’altra strada per lui. Come ha raccontato in una chiacchierata coi Tale of Tales (2008), quando si trova ancora alle elementari viene iscritto a un programma speciale per fargli imparare a programmare. Tuttavia, quando ha raggiunto l’età di dieci anni, Chen si rende conto che c’è qualcosa di molto più divertente della programmazione: i videogiochi. I genitori non sono entusiasti visto che, in generale, sono molto restrittivi su ciò che il figlio può fruire e selezionano accuratamente anche i libri e i film a cui egli ha accesso (Parkin, 2015). Stavolta, però, il bambino non vuole cedere e trova il modo di convincerli: promette loro di studiare e di impegnarsi sempre al massimo, in cambio di tempo libero per potersi dedicare alla sua passione. E visto che i suoi risultati scolastici sono ottimi, Chen si conquista il tempo che gli serve per sperimentare un gran numero di videogiochi, molti dei quali ottenuti grazie alla pirateria. Così, già al termine delle elementari, ha una conoscenza della programmazione e del medium videoludico superiori a gran parte dei suoi coetanei.
Negli anni successivi, Chen continua a videogiocare. Uno dei titoli che lo colpiscono maggiormente è The Legend of Sword and Fairy (仙劍奇俠傳) del 1995. Si tratta di un popolare videogioco di ruolo cinese che ha dato origine a una duratura serie, tutt’ora in vita. Il gioco è stato indicato (Hong, 2022) come un esempio cinese di “mitologismo”, quelle situazioni in cui un elemento del mito viene estrapolato dal suo contesto originario e inserito all’interno di un differente scenario, dove acquisisce nuove funzioni e caratteristiche. Forse sono situazioni di questo genere che offrono a Chen i primi spunti per l’astrazione che egli andrà poi a inserire nei suoi videogiochi futuri, anche se l’elemento determinante che lo porterà lungo quella strada (l’inserimento in un differente contesto culturale) qui non si è ancora verificato. In ogni caso, The Legend of Sword and Fairy colpisce nel profondo il giovane Chen, che si ritrova profondamente commosso dalla storia raccontata all’interno del gioco. Si sta pur sempre parlando di un GDR che può essere considerato l’equivalente cinese di Final Fantasy VII (1997), per impatto emotivo. E, poco dopo The Legend of Sword and Fairy, anche Final Fantasy VII va effettivamente a colpire l’immaginario di Chen, al punto che egli prende proprio da questo videogioco il nome con cui sarà conosciuto nella sua carriera: Jenova, la misteriosa entità extraterrestre giunta dallo spazio con un meteorite.
Tra un videogioco e l’altro, Jenova Chen continua i suoi studi di informatica, arrivando a laurearsi (in Computer Science & Engineering) alla Jiao Tong, università pubblica di Shanghai. Grazie al suo percorso pregresso, Chen ottiene il titolo senza troppe difficoltà e passa molto tempo esplorando altre aree, come l’animazione e l’arte digitale. Segue anche dei corsi legati a questi argomenti presso un’altra università di Shanghai, la Donghua. Durante questi anni di studio viene anche coinvolto nelle attività di uno dei primi gruppi universitari cinesi legati allo sviluppo di videogiochi. Insieme a loro, lavora ad alcuni piccoli progetti. Al termine degli studi, cerca di portare avanti questa attività, rendendola un effettivo lavoro, ma si scontra con alcune problematiche. I team cinesi che sviluppano videogiochi non offrono opportunità in linea con i suoi desideri e, soprattutto, producono in larga parte videogiochi che Chen non reputa all’altezza di un adulto. Come ricorderà lui stesso pochi anni dopo (in Wen, 2007), la maggior parte dei team cinesi si dedica o ai videogiochi online o ad attività di outsourcing, anche per riuscire a contrastare la pirateria dilagante. Ma dopo esperienze come The Legend of Sword and Fairy e Final Fantasy VII, è rimasta in Chen la convinzione che il videogioco debba offrire qualcosa di più, debba essere capace di trasmettere emozioni intense. Ripensando ai suoi studi da autodidatta sull’animazione, Chen pensa allora di trovare lavoro in quell’ambito. Per prepararsi al meglio, decide di andare a studiare negli Stati Uniti, dove si iscrive all’University of Southern California. Lì frequenta l’Interactive Media Program, una divisione della School of Cinematic Arts aperta dal 2002. Il suo obiettivo è semplice e chiaro: approfondire al meglio l’animazione, prendere il titolo di studio e tornare in Cina per trovare lavoro in quel settore.
Un paio di incontri fortuiti cambiano però il suo percorso, quando i videogiochi tornano a bussare alla sua porta.
NUVOLE E FLOW ALL'UNIVERSITÀ
Alla University of Southern California girano molte persone interessanti. Chen trova un gruppo di amanti dei videogiochi, ai quali si unisce per sviluppare Dyadin (2004), un progetto scolastico realizzato insieme a Mike Brinker, Vincent Diamante, Todd Furmanski, Erik Nelson e Glenn Song. Sono dei nomi degni di nota, se si va a osservare a posteriori le loro carriere. Vincent Diamante diventerà il compositore di molti futuri giochi di Chen (e non solo suoi). Anche Erik Nelson continuerà a collaborare con Chen. Todd Furmanski intraprenderà invece un percorso più accademico, di ricerca, ma sempre legato a videogiochi sperimentali (vale per esempio dare un occhio al suo Panopticon del 2003, scaricabile da Itch). Glenn Song andrà a lavorare come software engineer per i videogiochi della serie The Sims.
Dyadin è un videogioco per due giocatori, che possono agire insieme sulla stessa tastiera. I due personaggi presenti sullo schermo cambiano colore a seconda di quanto sono distanti l’uno dall’altro, e questo codice cromatico serve per risolvere i vari enigmi presenti. I due giocatori devono cooperare e, per superare un livello, entrambi devono raggiungere l’uscita. Si tratta di un esperimento piuttosto acerbo, oggi molto difficile da recuperare (è indicato sul sito personale di Chen, ma il download non funziona più), ma può essere comunque interessante osservarlo, almeno attraverso qualche video su YouTube. L’idea del codice cromatico, la cooperazione silenziosa e altri piccoli dettagli possono essere visti come anticipazioni di quel che Jenova Chen realizzerà in futuro. Un altro aspetto interessante è che si parla di Dyadin in un paper della professoressa Tracy Fullerton, che insegna Game Design alla University of Southern California. Come riporta il paper (Fullerton, 2005), l’università ha stanziato dei fondi per supportare lo sviluppo di videogiochi innovativi, realizzati da studenti iscritti a uno dei loro corsi. I vincitori ottengono fino a 20.000 dollari, insieme al supporto di vari esperti pronti a guidarli e all’accesso ai computer dell’università. I videogiochi finanziati sono due. E, in entrambi, appare il nome di Jenova Chen. Come detto, uno di questi è Dyadin. Prima di parlare dell’altro, invece, bisogna fare un piccolo passo indietro.
Mentre sta studiando alla School of Cinematic Arts, Jenova Chen ha occasione di andare alla Game Developers Conference (GDC). Nella sezione dell’evento dedicata agli indie, Chen conosce un gran numero di studenti che stanno realizzando dei videogiochi. Fa un paragone tra quel che aveva creato in Cina e ciò che vede alla GDC, restando piacevolmente sorpreso dall’alto livello delle produzioni che trova lì. L’evento riaccende in lui il desiderio di fare videogiochi. A quanto vede, c’è spazio per realizzare opere che vadano oltre il tradizionale “giochino” e che siano capaci di emozionare e commuovere.
C’è una persona in particolare, tra quelle incontrate alla GDC, che lo convincerà a proseguire su quel percorso. Si tratta di Kellee Santiago, che frequenta lo stesso Interactive Media Program seguito da Chen. Santiago è originaria di Caracas, in Venezuela, ma è cresciuta negli Stati Uniti (a Richmond, Virginia). Da piccola amava molto i videogiochi e suo padre, un software engineer, l’aveva spronata a entrare nel mondo dei computer e della programmazione. Santiago aveva poi scelto un altro percorso, iscrivendosi alla Tisch School of the Arts dell’Università di New York, dove aveva scoperto il mondo del teatro sperimentale. Dopo quell’esperienza si era iscritta all’Interactive Media Program frequentato anche da Chen. Prima del loro incontro alla GDC, Kellee Santiago si era riavvicinata al mondo dei videogiochi grazie a un corso di game design tenuto da Tracy Fullerton, che anni dopo avrebbe lavorato a Walden, A Game (2017), il videogioco educativo tratto dall’opera di Henry David Thoreau. La storia del game design raccontata da Fullerton convince la giovane a lasciare da parte il teatro e a dedicarsi allo sviluppo di videogiochi, rendendosi conto delle enormi potenzialità di questo medium, ancora tutte da esplorare e ben poco valorizzate.
L’intesa tra lei e Chen è immediata e i due, insieme ad altri compagni, cominciano a lavorare insieme per realizzare un videogioco. Ed è così che nasce Cloud (2005). Il primissimo spunto alla base del gioco sarebbe venuto in mente a Chen durante una passeggiata, in cui si è trovato a osservare le nuvole nel cielo, molto diverse dalle grigie nubi di smog sopra Shanghai. Questo lo avrebbe spinto a voler realizzare un videogioco sulle nuvole (Game Informer, 2010). L’idea ha un grande potenziale emotivo e viene accolta con entusiasmo anche da Kellee Santiago che, al pari di Chen, desidera ampliare il bagaglio emotivo presentato dai videogiochi. Al loro fianco lavorano anche Stephen Dinehart, Vincent Diamante, Aaron Meyers, Erik Nelson e Glenn Song. Diversi di loro hanno già partecipato alla creazione di Dyadin.
Cloud racconta la storia di un ragazzino chiuso in un ospedale. Mentre dorme nel suo letto, il ragazzo sogna di volare tra le nuvole del cielo. Nel gioco si assume il suo controllo ed è possibile cambiare forma, diventando una nuvola stessa, che può essere poi plasmata in vari modi. Cloud richiama i sogni (notturni o a occhi aperti) di quando si è bambini e si gioca tra le nuvole del cielo. Il videogioco ha un successo immediato: oltre mezzo milione di download in tre mesi, senza che siano state fatte particolari campagne di comunicazione. Attorno a esso si scatena anche uno dei tanti e accesi dibattiti sullo statuto del videogioco come forma d’arte. Il team di sviluppo presenta anche un paper alla conferenza internazionale SIGGRAPH insieme alla professoressa Tracy Fullerton (Fullerton et al., 2006) in cui racconta come è andato lo sviluppo del gioco. Diverse altre pubblicazioni, divulgative e accademiche, commentano Cloud. Un traguardo incredibile, per un videogioco realizzato da un gruppo di studenti durante gli anni dell’università.
E visto che di università si parla, Jenova Chen deve anche realizzare una tesi. Decide di lavorare sul flow nei videogiochi. Il flow è stato teorizzato all’inizio degli anni ’90 dallo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi (1990) e descrive una condizione ottimale, una sorta di stato di grazia, che è possibile sperimentare durante una variegata serie di attività. In tempi recenti, gli appassionati di manga e anime si sono imbattuti in questo concetto grazie alla serie calcistica Blue Lock, che cita esplicitamente il modello di Csikszentmihalyi. Quando siamo nel flow, noi siamo totalmente concentrati sull’esperienza davanti a noi, siamo più propensi ad apprendere e miglioriamo velocemente. Per far sì che tutto ciò accada devono però verificarsi alcune condizioni. In particolar modo, la sfida che ci viene proposta deve sempre essere un po’ più alta del nostro attuale livello di abilità. Se la difficoltà aumenta troppo rapidamente subentrano rabbia e frustrazione; magari non abbandoniamo il compito e continuiamo a provare e riprovare, ma non siamo concentrati. Bisogna però fare attenzione anche al caso contrario: se la difficoltà non cresce mai, in poco tempo finiremo per annoiarci. Anche in questo caso, potremmo comunque decidere di portare avanti quell’attività, ma la nostra mente sarà da tutt’altra parte. È possibile sperimentare il flow in diversi contesti, ma è un’esperienza che funziona molto bene nei videogiochi, visto che lì è possibile creare a monte l’esperienza ottimale per il videogiocatore, cosa più difficile da ricreare in (per esempio) una reale partita di calcio o una sessione di studio. Anche perché un altro elemento chiave del flow è la presenza di un feedback immediato, che può essere facilmente inserito in un videogioco.
Jenova Chen studia con attenzione il flow e scrive anche qualche paper sull’argomento (come Chen, 2007). In particolar modo, il suo studio si focalizza sulle modalità con cui differenti giocatori (che hanno differenti abilità e, pertanto, percepiscono la difficoltà in modo diverso) si adattano al flow. Una parte del suo lavoro di tesi consiste nella realizzazione di un videogioco, basato su un game design con una regolazione dinamica della difficoltà, grazie alla il gioco si adatta in modo dinamico alle azioni presenti e passate del giocatore, per mantenere coinvolgente l’esperienza. Nasce così flOw (2006), sviluppato in due mesi insieme a Nicholas Clark e pubblicato online come gioco flash. In flOw si controlla un piccolo organismo marino che cresce consumando altri organismi circostanti. Non è presente un tutorial esplicito e non ci sono menù. Come per il precedente Cloud, anche flOw riscuote subito un ottimo successo e si diffonde grazie al passaparola; in poche settimane, oltre 350.000 persone lo giocano.
Nel frattempo, la discussione della tesi si avvicina e con essa la fine del percorso di studi. Qualche anno prima, Chen si era guardato intorno, nel mercato del lavoro cinese, senza trovare opportunità di suo interesse. Questa volta, in un contesto diverso e con maggiore esperienza, comprende anche che può muoversi al di fuori degli schemi che aveva precedentemente seguito. Perché farsi assumere e lavorare ai videogiochi di altri, quando potrebbe realizzare i suoi?
QUELL'AZIENDA DI VIDEOGIOCHI. SI, PROPRIO QUELLA
Nel 2006, insieme all’amica Kellee Santiago, Jenova Chen fonda thatgamecompany (generalmente scritto con l’iniziale minuscola). Che, tradotto, sarebbe come dire “quell’azienda di videogiochi”. I videogiochi che hanno realizzato durante il percorso di studi rappresentano un ottimo biglietto da visita ma, come racconterà qualche anno dopo Santiago (in Elliott, 2010), all’inizio le incertezze erano comunque moltissime. Cloud aveva raggiunto un grande numero di persone, principalmente attraverso un passaparola spontaneo, ma era un videogioco gratuito. Le persone sarebbero state disposte a pagare per comprarlo? E se sì, quanto? Mentre cercano una risposta, Chen e Santiago fanno degli altri lavori, per essere sicuri di potersi sostentare. Fortunatamente per loro, non devono attendere molto. Ben presto vengono contattati da Sony, che li mette sotto contratto per la realizzazione di tre videogiochi da pubblicare sul PlayStation Network di PlayStation 3. In quel momento, il mercato dei videogiochi scaricabili per console è ancora in larga parte un segmento vergine e inesplorato. Servono videogiochi capaci di offrire esperienze brevi e contenute ma emotivamente intense, da vendere a un prezzo più basso rispetto ai tradizionali blockbuster. Chen e Santiago sembrano le persone ideali da coinvolgere, per ottenere un simile risultato.
Il primo dei tre giochi che devono realizzare per PlayStation Network è una nuova versione di flOw, con più contenuti, tra cui una modalità multiplayer. L’obiettivo di thatgamecompany è quello di terminare la versione PlayStation 3 in quattro mesi, per far sì che sia pronta al lancio del PlayStation Network (novembre 2006). Tuttavia, nonostante i loro sforzi, mancano quella finestra temporale e il videogioco viene pubblicato qualche mese dopo, a febbraio 2007. Per fortuna non è un grosso problema, visto che il producer di Sony che li seguiva aveva intuito fin da subito che non sarebbero mai riusciti a rispettare quella deadline, per cui non gli causa problemi. Ancor più della versione originaria, il flOw di PlayStation 3 raggiunge un ottimo successo e vengono realizzati dei porting e dei contenuti aggiuntivi, ai quali però thatgamecompany non lavora direttamente, limitandosi a supervisionarne l’andamento per verificare che sia mantenuta un’alta qualità e che le loro idee non vengano alterate.
Per Jenova Chen il futuro appare roseo, ma la sfida è appena cominciata. flOw resta ancora un progetto legato all’ambiente sicuro e protetto dell’università, per quanto siano stati in grado di trasformarlo in un buon successo commerciale. Ma il tempo dell’università è ora ufficialmente chiuso. Da qui in avanti avranno a che fare con il mercato. Bisogna pensare al secondo videogioco da pubblicare sul PlayStation Network. È tempo, per Chen e il suo team, di fare il punto della situazione.
I precedenti videogiochi di Jenova Chen sono tutti basati sull’immediatezza e su un anelito all’universalità. Il background personale di Chen è stata una fonte di ispirazione, in tal senso: quando si è trasferito dalla Cina negli Stati Uniti è entrato in contatto con una cultura radicalmente diversa, che lo ha portato a riflettere sulla comunicazione. Se un videogioco deve essere qualcosa di più di un mero prodotto commerciale, allora deve avere la capacità di poter parlare potenzialmente “a tutti”, superando barriere culturali e linguistiche. Poco testo, pochi tutorial, grande immediatezza e comprensibilità. Con Cloud, inoltre, Chen e i suoi amici hanno puntato molto anche sulla componente emotiva. Le emozioni umane sono un’altra chiave per portare avanti un discorso sull’universalità dei videogiochi. Esse, inoltre, rappresentano anche un campo molto interessante da esplorare, perché fino ad allora il bagaglio emotivo dei videogiochi è stato generalmente piuttosto ristretto. Come aveva capito il giovane Chen anni prima, un adulto ha bisogno di essere emotivamente toccato da un videogioco, per potersene davvero appassionare. Videogiochi come The Legend of Sword and Fairy e Final Fantasy VII avevano mostrato la via, ma era anche possibile discostarsi dal loro percorso e cercare delle strade ancora differenti, tutte da scoprire.
Dopo lunghe riflessioni, il team decide di produrre Flower (2009). Il ruolo di director è ricoperto da Jenova Chen, che sottolinea l’importanza di creare un gioco basato sull’impatto emotivo, molto più che su una storia o su un messaggio da trasmettere (Game Informer, 2010). Il lavoro a Flower dura circa due anni, anche se la maggior parte del tempo è speso nella prototipazione, in una sperimentazione continua di possibili soluzioni. Una volta che la direzione è chiara, thatgamecompany termina lo sviluppo del gioco in sei mesi. In Flower si assume il controllo del vento, che raccoglie i petali dei fiori, generando un crescente vortice di colori. Non ci sono testi e non c’è una narrazione esplicita, la storia emerge attraverso l’interazione con il paesaggio. I “sogni” dei sei fiori che si susseguono nel corso del gioco vanno in effetti a far emergere un arco narrativo, legato a una progressione spaziale, in cui man mano ci si avvicina a una lontana metropoli. Proseguendo attraverso i vari livelli, cambia anche la visione a cui si assiste nell’area di partenza, con un appartamento che si affaccia su una città, che appare via via più colorata e gioiosa.
Il binomio città/natura è molto forte e viene indicato dallo stesso Chen, che descrive Flower come «An interactive poem exploring the tension between urban & nature» (in Santiago, 2009). È una tensione più che una aperta contrapposizione. L’idea di Chen è che nell’essere umano sia insito il bisogno di trovare un equilibrio tra natura e cultura, tra città e wilderness. Lui stesso si è trovato a provare nostalgia per la grande (e inquinata) città di Shanghai, quando ha lasciato la Cina (Sickler-Voigt, 2023, p. 101). Per cui, se si volesse provare a decodificare il messaggio di Flower al di fuori dell’impatto emotivo, si potrebbe dire che il gioco vada a riflettere su questa tensione costante, in cui cercare di trovare una via di mezzo.
In ogni caso, non occorre riflettere sul possibile messaggio di Flower per godersi questa esperienza di gioco. Come detto, per Jenova Chen è soprattutto importante trasmettere emozioni positive ai giocatori. Se poi quelle emozioni fanno anche nascere dei pensieri, allora tanto meglio, ma l’anelito all’universalità passa anche da qui, dalla possibilità di godersi il gioco anche senza pensare al suo possibile “messaggio”. Comunque sia, non sono ovviamente mancate le analisi di Flower, tra cui riflessioni filosofiche basate sul pensiero di Félix Guattari e Gilles Deleuze (come du Plessis, 2018), per cui la stratificazione interpretativa del gioco scende ugualmente in profondità. La musica, altro linguaggio che ha da sempre una forte vocazione universale, ricopre una grande importanza in Flower, come intuibile. La colonna sonora viene affidata a Vincent Diamante, che aveva già lavorato con Chen a Dyadin e a Cloud.
IL VIAGGIO VERSO LA MONTAGNA
Una figura umanoide, avvolta da un abito svolazzante, si trova in mezzo a un deserto. Davanti a lei c’è una duna di sabbia. La figura ne raggiunge la cima e, lassù, ecco che si apre la vista sull’orizzonte. In lontananza c’è un’imponente montagna. Appare il titolo del gioco: Journey (2012). È così che inizia il terzo videogioco che thatgamecompany ha realizzato per PlayStation Network.
Un inizio molto interessante, con un ottimo esempio di foreshadow. È così che, in narratologia, viene definito quell’espediente narrativo che, all’inizio dell’avventura, offre degli indizi sul viaggio e sugli ostacoli che dovranno essere affrontati. La salita della duna di sabbia è una anticipazione della futura ascesa sulle pendici del monte. Proprio come, nel primo canto dell’Inferno di Dante, il colle illuminato dal sole che il poeta vede dalla selva (e che cerca di raggiungere) è una prefigurazione del suo futuro cammino lungo il monte del Purgatorio, verso il Paradiso.
Come già avvenuto in passato, Jenova Chen si trova a riflettere su come rendere universale un videogioco. Questa volta una delle sue fonti di ispirazione è proprio la narratologia, come ha dichiarato lui stesso (in Variety, 2013). Il viaggio di Journey è una ideale astrazione del monomito di Joseph Campbell, descritto nel suo famoso libro The Hero with a Thousand Faces (1949), tradotto in italiano come L’eroe dai mille volti. Con un’operazione di mitologia comparata, Campbell aveva analizzato un gran numero di storie provenienti dal mito e dall’epica, tutte legate a tradizioni differenti, rivelando la struttura comune alla base di quelle storie. Per quanto non sia un modello del tutto universale ed effettivamente applicabile a ogni storia e a ogni cultura possibile, la struttura descritta da Campbell funziona effettivamente bene per mostrare il funzionamento di un numero enorme di narrazioni, anche al di fuori dai confini del mito e dell’epica. In tempi più recenti, in particolar modo, è divenuta molto nota l’operazione portata avanti da Christopher Vogler nel suo The Writer's Journey: Mythic Structure For Writers (1992), tradotto in italiano come Il viaggio dell’eroe. Vogler recupera la struttura descritta da Campbell e la applica al cinema hollywoodiano, mostrando come quello schema sia rintracciabile anche alla base dei grandi successi cinematografici. Non importa se non si parla più di eroi in armatura che vanno a uccidere i draghi, anche la storia di un tassista a New York o di una impiegata della California contengono gli stessi elementi, quando la loro storia viene raccontata da un abile narratore. C’è la partenza dal mondo ordinario, ci sono i guardiani della soglia, ci sono i mentori e i tricksters, c’è il ritorno con l’elisir…
La creazione stessa di Journey, comunque, si rivela un’avventura non da poco. La primissima idea per il terzo gioco da consegnare a Sony, per cominciare, era molto differente rispetto al gioco effettivo. Il primo concept si chiamava Dragon e prevedeva una partita multiplayer in cui i giocatori avrebbero dovuto allontanare un grosso mostro lontano dagli altri partecipanti. L’idea viene ben presto scartata. Jenova Chen è alla ricerca di qualcosa di diverso, che possa toccare almeno potenzialmente le corde emotive di tutti quanti. Qualcosa che possa essere giocato sia da soli sia con altri e che esca dalle diffuse logiche di “vittoria” e di “obiettivi” di molti videogiochi. Il monomito di Campbell fornisce a Chen un buono spunto di base e viene man mano sviluppato il concetto del viaggio verso la montagna, ma lungo la strada arrivano le difficoltà.
Inizialmente, thatgamecompany avrebbe dovuto realizzare il gioco in un anno. Ben presto, però, si rendono conto che serve più tempo. Il loro Journey non è in grado di raggiungere quell’impatto emotivo che desiderano. Serve più tempo per migliorare l’esperienza. Sony concede loro un anno in più e il team si rimette subito al lavoro. tuttavia, anche questo secondo anno non è sufficiente. Il team si trova davanti a un bivio: accelerare più che possono la produzione, rischiando un burnout, oppure continuare con i loro ritmi, consapevoli del fatto che i soldi stanno per finire. Nessuna delle due strade è agevole, entrambe richiedono dei sacrifici. Alla fine optano per la seconda soluzione. I membri del team portano a termine il videogioco con grande ansia e stress, ma senza trovarsi “consumati” dal burnout. Thatgamecompany è in rosso e, negli ultimi periodi dello sviluppo, diverse persone non sono state pagate. Le tensioni interne sono state numerose, il team è riuscito a portare a casa il risultato facendosi forza reciprocamente e abbandonando le discussioni su tutto ciò che sarebbe stato bello inserire nel gioco. Non è possibile rimandare più di così.
Dopo circa tre anni di sviluppo, Journey viene finalmente pubblicato. Emotivamente parlando, questo videogioco segna una pietra miliare nel medium. Già prima della sua uscita, tre dei venticinque tester coinvolti per provare la versione finale del gioco erano scoppiati a piangere dopo averlo terminato, come racconterà in seguito lo stesso Chen (in North, 2013). Dopo l’uscita, Journey conquista un gran numero di premi e riconoscimenti. Il percorso artistico compiuto fin qui da Jenova Chen trova in questo gioco il suo punto più alto, in cui vanno a convergere le sue ricerche e considerazioni sull’universalità dell’esperienza. Si è già parlato del richiamo al viaggio dell’eroe di Campbell e al suo fianco si possono ricordare diverse altre decisioni. Come quella di mettere come protagonista una figura incappucciata, in cui qualunque persona possa identificarsi. O come la scelta di comunicare con degli sconosciuti attraverso un linguaggio non verbale, cosa che peraltro era già stata sperimentata in modo molto interessante dai Tale of Tales con il loro The Endless Forest (2005) qualche anno prima. Anche l’ambientazione nasce dal desiderio di unire differenti culture e differenti deserti, in una sorta di sincretismo in cui varie influenze vanno a ibridarsi (Ohanessian, 2012).
DALLA MONTAGNA AL CIELO
Appena concluso lo sviluppo di Journey, buona parte dei dipendenti di thatgamecompany lascia l’azienda e cerca lavoro altrove. Il contratto con Sony prevedeva la realizzazione di tre videogiochi, che sono stati consegnati, e lo sviluppo di Journey ha prosciugato tutti i soldi della compagnia. Nonostante ciò, thatgamecompany non scompare. Quando arrivano le percentuali sulle copie vendute il team si riprende e alcune persone che erano andate altrove tornano a lavorarci. Per thatgamecompany e per Jenova Chen è tempo di pensare al progetto successivo. Vengono raccolti dei fondi e si decide di lavorare con un team più piccolo, di dodici persone, circa la metà di quelle che avevano partecipato allo sviluppo di Journey.
Chen continua a lavorare come director per quello che diventerà il primo videogioco mobile dell’azienda: Sky: Children of the Light (2019). A distanza di molti anni da Cloud, torna l’idea della libertà e del “gioco libero” nel cielo, grazie a dei personaggi volanti, che possono incontrarsi tra di loro e condividere esperienze, mentre esplorano i differenti reami che compongono il gioco. Lo sviluppo di Sky: Children of the Light è durato ben sette anni, un tempo enorme, difficile da sostenere per la maggior parte dei team, ma thatgamecompany riesce a portare avanti il progetto, grazie ai fondi raccolti e alle piccole dimensioni del team. Il videogioco, al pari dei precedenti lavori di Chen, viene molto apprezzato, come esempio di “cozy game”, come “videogioco artistico” e molto altro ancora. Nel frattempo, Chen ha anche iniziato a lavorare con Annapurna Games, il publisher di videogiochi, che si occupa delle versioni PC di Flower e di Journey.
In più occasioni, Jenova Chen ha detto che la crescita del medium videoludico passa necessariamente attraverso il modo con cui esso rappresenta e veicola emozioni. Altrimenti vivrà sempre di una sorta di invidia verso le altre arti e resterà bloccato in una sorta di infantilismo. Con i suoi videogiochi, Chen e una delle persone che ha dato un importante contributo al medium, in tal senso. Soprattutto perché lo ha sempre fatto tenendo ben in mente un altro punto: una costante riflessione su come raggiungere il maggior numero possibile di persone, toccando i loro cuori, attraverso un linguaggio che punta all’universale.
BIBLIOGRAFIA
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Pubblicato il: 03/07/2024
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