FACCIA A FACCIA CON

NOAH FALSTEIN

Quello di Noah Falstein è un nome che gli appassionati di videogiochi italiani legano probabilmente soprattutto agli anni di Lucasfilm Games e Lucasarts, e in particolare alle due avventure grafiche dedicate a Indiana Jones. Ma non solo Noah è attivo nel settore dei videogiochi da prima delle sue acrobazie con fruste e cappello, è ancora oggi lanciatissimo, carico come una molla. Ho incontrato Noah alla Game Developers Conference ed era, mi ha detto, la trentaquattresima volta che ci andava: “sono nel settore da quarantatré anni, sono abbastanza vecchio da ricordare che da bambino ero appassionato di giochi da tavolo e giochi meccanici.” Nato infatti nel lontano 1957, Falstein scopre i videogiochi quando già frequenta l’università e se ne innamora subito: “Si parla degli anni Settanta, non c’era ancora un vero e proprio settore dei videogiochi e non immaginavo che fosse una possibilità di carriera. Però ho seguito un percorso di studi che mi ha permesso di sperimentare un po’ e per mettere alla prova le mie capacità di programmatore, ma anche le conoscenze di astronomia e fisica che avevo accumulato, ho sviluppato un videogioco, che era il primo su cui posavano gli occhi i miei professori. Era un gioco in cui bisognava estrarre minerali dalla cintura di asteroidi, utilizzando con precisione le coordinate, la composizione degli asteroidi, le meccaniche orbitali ecc… Fu parecchio divertente ma non mi resi conto che stavo sostanzialmente facendo un colloquio per questo genere di carriera.”

Uno dei suoi professori, infatti, lavorava part-time in Milton Bradley, l’azienda di giochi da tavolo che aveva appena riscosso un successo enorme con il Simon, in vendita ancora oggi. Era stato talmente redditizio che avevano deciso di investire in una grossa divisione di ricerca e sviluppo e nel 1980 assunsero Falstein: “A quel punto, mi resi conto che potevo guadagnarmi da vivere sviluppando videogiochi e non volevo fare altro.” 

Un paio di anni dopo, Noah venne assunto in Williams, azienda famosa soprattutto per i flipper ma che stava iniziando a farsi notare anche nel campo dei videogiochi con pezzi da novanta come Defender e Robotron: 2084. Lì, si ritrovò a lavorare assieme a un John Newcomer fresco del successo di Joust e i due creano Sinistar, uno sparatutto in cui si affronta una grossa astronave dal volto demoniaco. Nei miei ricordi, si tratta di un gioco davvero inquietante, con toni quasi horror, e Falstein conferma:

“Era voluto! Ci piaceva proprio l’idea di creare qualcosa che avrebbe spaventato le persone. Quando il Sinistar appare per la prima volta sullo schermo e ti insegue… un sacco di giocatori erano talmente sconvolti che che mollavano il joystick e si lasciavano mangiare. Eravamo molto soddisfatti di vedere quel genere di reazione.” 

Lavorare sui videogiochi nel 1982, mi ha raccontato, fu un’esperienza bellissima, perché di fatto avevi a che fare con la miglior tecnologia possibile, superiore a quella di qualsiasi computer casalingo. “Tutto era costruito apposta, lo schermo, l’hardware, la parte meccanica dei comandi. Era molto divertente, io lavoravo sul software ma dovevamo comunque collaborare a stretto contatto con chi si occupava dell’hardware e della parte meccanica per capire come far funzionare il tutto. Era un tipo di integrazione molto interessante, che non ho mai ritrovato da nessuna parte. Oggi difficilmente si lavora in una maniera così sfaccettata.

Nel 1983, lo sappiamo bene, il mercato dei videogiochi americano, e in particolare quello dei giochi per console, venne devastato da un crash fulmineo e micidiale. Nel giro di pochi mesi, si verificò un evento simile anche nelle sale giochi, causato in larga misura dall’esplosione della bolla dei laser game. E in Williams cominciarono a licenziare. Ma per fortuna, Falstein si era preparato inconsapevolmente una rete di sicurezza: “Avevo un’amica che lavorava anche lei nel settore delle sale giochi e voleva cambiare. Non ricordo come di preciso fosse venuta a sapere che stavano aprendo una sezione videogiochi all’interno di Lucasfilm… Non era ancora stato annunciato. Mi chiese di scriverle delle referenze e alla fine non venne assunta. Quattro o cinque mesi dopo, però, ci fu il crash del settore del 1983, circa il 90% degli introiti si polverizzò nel giro di qualche mese e in Williams iniziarono a licenziare. Allora chiamai la persona che aveva letto le referenze, David Fox. Mi disse che in quel momento assumevano e venni preso a lavorare con loro. Io e David siamo rimasti buonissimi amici da allora a oggi. Eravamo vicini di scrivania e lavorammo assieme sui Monkey Island. Lui aveva un ruolo molto grosso, io facevo solo il tester. Ma in Lucasfilm Games c’era un bell’ambiente di lavoro, continuammo a collaborare per un sacco di anni e fu una bellissima esperienza.”

Falstein, nato e cresciuto a Chicago, si trasferì così in California, e dopo il primo inverno trascorso al caldo se ne innamorò perdutamente: vive lì ancora oggi. In Lucasfilm Games trovò un contesto lavorativo idilliaco, circondato da gente creativa e talentuosa, che aveva il gran vantaggio di lavorare seguendo un set di regole semplici, ma entusiasmanti, stabilito da George Lucas: “Restate piccoli, siate i migliori e non sprecate soldi.” In quel periodo, Lucasfilm era nel bel mezzo della prima trilogia di Star Wars e stava producendo i primi Indiana Jones, due IP che si posizionavano anni luce sopra a qualsiasi altra cosa ci fosse sulla piazza. “Era il lavoro dei sogni. Anche solo far parte di quell’azienda, prima ancora che venisse pubblicato un singolo gioco, fu bellissimo. Furono otto anni pieni di esperienze meravigliose.”

All’inizio, però, la divisione videogiochi non poteva lavorare su Indiana Jones e Star Wars, perché i marchi erano stati dati in licenza altrove. Al di là dell’ovvio dispiacere, Falstein ritiene che “fu una cosa fantastica, perché ci costrinse ad essere originali. Un sacco di persone in Lucasfilm erano gelose della nostra posizione, perché loro dovevano lavorare sugli effetti speciali di proprietà intellettuali altrui, mentre noi potevamo occuparci delle nostre idee fuori di testa. Fra le mie cose preferite di quei primi anni nel settore dei videogiochi c’è il fatto che nessuno sapeva davvero cosa avrebbe funzionato, quindi potevamo provare quasi tutto quello che ci veniva in mente. Era liberatorio.” 

Le licenze di Star Wars e Indiana Jones erano state date ad altre aziende prima ancora che venisse creata la divisione videogiochi di Lucasfilm nel 1982. Ovviamente, quegli accordi avevano una data di scadenza e, mano a mano che arrivarono al termine, Noah Falstein e i suoi colleghi non vedevano l’ora di usarle. Ma non fu così semplice, perché i videogiochi dei primi anni Ottanta non fruttavano ancora le somme enormi di adesso: “Indiana Jones and the Last Crusade vendette circa mezzo milione di copie, che per la nostra divisione si concretizzò in un grosso profitto. Andai a chiedere al capo del licensing se finalmente avevamo lasciato il segno e quasi mi rise in faccia. L’anno precedente, l’intero fatturato della divisione videogiochi era stato inferiore a quanto avevano fruttato solo i pigiami di Star Wars.” Va detto che Star Wars, negli anni immediatamente successivi all’uscita de Il ritorno dello jedi, costituiva un metro di paragone difficile per chiunque. Ma, mi spiega Noah, un gioco di Star Wars sviluppato in licenza da un altro studio generava una buona percentuale sul ricavato senza investimenti da parte di Lucasfilm. Di contro, “Se il gioco lo sviluppavamo noi, dovevamo pagare quella stessa percentuale al dipartimento che curava le licenze. Ovviamente era tutto un giro di soldi all’interno della stessa azienda, ma significava che la nostra divisione non generava un profitto puro partendo dalla licenza e in più si perdeva la possibilità di dare il marchio ad altri e generare un profitto senza costi di sviluppo e pubblicazione.” C’era quindi un po’ di resistenza interna ma la qualità del lavoro svolto negli anni dalla divisione videogiochi fu sufficiente per convincere chi prendeva le decisioni a dare loro una chance. Senza contare che si poteva comunque continuare a dare anche fuori le licenze, come avvenne per flipper e giochi arcade. Di sicuro, comunque, Lucasfilm Games seppe mettere a buon frutto l’opportunità, dato che The Last Crusade e Fate of Atlantis furono i due giochi più venduti di sempre della divisione, almeno per quanto riguarda il suo primo periodo di vita. Poi sarebbero arrivati i successi enormi di Tim Schafer...

Indiana Jones and the Fate of Atlantis fu sviluppato in fretta e furia, per gli standard di Lucasfilm Games. Noah Falstein fu la prima persona assegnata al progetto e lui decise che bisognava assolutamente far uscire il gioco mentre il film era ancora nei cinema. Dopo circa nove mesi di sviluppo, arrivarono nei negozi due mesi dopo l’uscita del film, che però aveva riscosso un gran successo e rimase in sala ancora a lungo. Obiettivo raggiunto, insomma, ma che fatica! “In precedenza, il ciclo di sviluppo più breve era stato di un anno o un anno e mezzo, quindi fu molto difficile. A un certo punto dissi che temevo di non farcela, quindi David Fox e Ron Gilbert vennero ad aiutarmi. 

Eravamo i tre più esperti con il motore che stavamo usando, che era stato creato da Ron. ”Oltre al ciclo di sviluppo più breve del solito, lo studio dovette fare i conti anche col trovarsi a lavorare su una licenza e coi limiti che questo comporta. L’approccio fu forse il migliore possibile: “applicammo alla cosa lo stesso genere di creatività che avevamo imparato a usare sui progetti precedenti. Se avessimo seguito pedissequamente la trama del film, essendo un gioco d’avventura, avresti saputo esattamente cosa fare in ogni situazione. Allo stesso tempo, se ci fossimo allontanati troppo, raccontando una storia completamente diversa, la gente non avrebbe apprezzato.

Il nostro approccio fu di seguire molto fedelmente il film sul piano narrativo e utilizzare il gameplay per mostrare le cose che non si vedono nel film, quello che accade fra una scena e l’altra. Quindi si vede Indiana Jones in superficie in Italia che poi scende nelle catacombe e trova il cavaliere, ma le catacombe, nel gioco, sono mostrate molto di più, ampliate e approfondite. Discorso simile per la parte sul dirigibile.” Ma ci fu anche un vantaggio inatteso: lo studio ricevette qualche foto dal set e la sceneggiatura del film da usare come materiale di riferimento, ma nessuno disse loro che alcune scene erano state tagliate dal montaggio finale: “Lo scoprimmo tre settimane prima dell’uscita al cinema: noi tre a capo del progetto andammo in Paramount, a Los Angeles, per una proiezione in anteprima e alla fine eravamo abbastanza scioccati. Che fine avevano fatto quelle scene che avevamo messo nel gioco? Ne discutemmo rapidamente e decidemmo che potevamo vendercela come un motivo valido per giocarci: poter vedere le parti mancanti del film. Tra l’altro, nel film ci sono riferimenti a quelle scene tagliate che acquistano più senso se giochi al videogioco. Nella sceneggiatura, c’è una scena in cui Indiana Jones picchia l’operatore della radio sul dirigibile per evitare che dia l’allarme: questa scena nel film non c’è, però c’è una battuta scherzosa che accenna a questa cosa, con Indy stupito che la radio sia stata riparata. Ma la radio non s’è mai vista.”

Nonostante il ciclo di sviluppo molto breve e i limiti legati alla licenza, Indiana Jones and the Last Crusade includeva diverse innovazioni rispetto ai giochi precedenti, con per esempio opzioni aggiuntive a livello di interfaccia e un sistema di punteggio. Interrogato al riguardo, Noah mi ha spiegato in Lucasfilm Games ci tenevano a migliorare costantemente il motore SCUMM, ampliandolo, rendendolo più complesso ma allo stesso tempo anche più semplice e accessibile, come si sarebbe visto negli anni. “Nel caso di The Last Crusade, aiutò molto anche il fatto che io, David Fox e Ron Gilbert eravamo i project leader più esperti nel campo delle avventure grafiche. Inoltre era la prima volta che tre persone co-dirigevano lo sviluppo di un gioco, in genere se ne occupava una persona sola. Quindi c’era parecchio talento messo tutto assieme. Ma era anche una questione di orgoglio: era la prima volta che lavoravamo su una licenza Lucasfilm, volevamo fare una bella figura.  

E poi c’è il rovescio della medaglia sulla questione monetaria: se eri uno sviluppatore esterno che pagava per avere la licenza, lo facevi perché sapevi che la gente avrebbe comprato un gioco di Indiana Jones a scatola chiusa, anche se era orribile. Poi non è che sviluppavi apposta un gioco pessimo, ma diciamo che se avevi due team, mettevi quello più talentuoso sul gioco creato da zero, che avrebbe fruttato un guadagno pieno, senza costi di licenza. Mentre il team meno bravo lo mettevi sul gioco di Star Wars o Indiana Jones, che tanto avrebbe comunque generato un sacco di soldi. Noi, invece, eravamo convinti di poter fare molto meglio rispetto alla qualità media di quei giochi. E in linea di massima gli appassionati ci hanno dato ragione: mi sembra che tutti i giochi basati su quelle licenze sviluppati da Lucasfilm siano molto più popolari degli altri.”

All’epoca, gli sviluppatori di videogiochi cercavano di proteggersi dalla pirateria in maniera creativa, che invece di risultare molesta per chi comprava il gioco (tipo certi sistemi di protezione contemporanei), finisse invece per offrire gadget, contenuti interessanti, qualcosa in più. Nel caso di Indiana Jones and the Last Crusade, per esempio, la confezione includeva una riproduzione del diario di Henry Jones (il personaggio interpretato nel film da Sean Connery), all’interno della quale si trovavano i suoi appunti, che nascondevano indizi utili, quando non necessari, per la risoluzione degli enigmi. “Ingaggiammo mio fratello per creare quel diario”, mi ha raccontato Falstein. “Aveva studiato storia medievale e poi era diventato uno scrittore. Quando proposi di affidarlo a lui incontrai qualche perplessità, ma aveva il background perfetto per dare solidità storica al diario. Inoltre, allo Skywalker Ranch c’era questa biblioteca molto focalizzata sull’aspetto visivo, in cui poteva fare ricerche chi lavorava sugli effetti speciali e sui film. Fotocopiammo un sacco di materiale risalente al periodo fra il 1910 e il 1940, che poi utilizzammo per il diario. Trovammo anche la foto di un telegramma di quei tempi e lo riproducemmo. Poter avere quel livello di accuratezza era fantastico.”

A circa metà dell’avventura, viene riprodotta la scena del film in cui Indiana Jones si trova faccia a faccia con Adolf Hitler. E il gioco offre l’opportunità di tirargli un cazzotto. Ho chiesto a Noah chi ebbe quest’idea, ma non se lo ricordava. Mi ha però spiegato che “fu una cosa molto naturale, contando che c’era comunque l’elemento della boxe nel gioco. Un’altra scena tagliata dal film è quella in cui Indiana Jones boxa nel ring dell’università. Nel gioco l’abbiamo inserita ed è diventata un punto di partenza per la possibilità di fare a pugni che ritorna poi durante l’avventura. E poi c’è il pugno a Hitler. Ci pensammo immediatamente, la vera discussione fu però sul capire se avesse senso permettere di farlo e poi uscirne sani e salvi. E insomma, sei in piena Berlino, in pubblico… Anche se stavamo molto attenti a evitare di avere vicoli ciechi nel gioco, decidemmo che questo era un caso in cui aveva senso mettere un game over. C’era un avviso chiaro del fatto che si trattava di una scelta pericolosa, ma era un’idea troppo divertente.” Successivamente, Noah Falstein e lo studio ebbero l’occasione di lavorare su Indiana Jones and the Fate of Atlantis, un gioco che non era legato all’uscita di un film e forse anche grazie a questo risulta molto più ambizioso, vasto, compiuto.

Una vera avventura di Lucasfilm Games. Al riguardo, Falstein mi ha confermato che su quel progetto godettero di maggiore libertà e che fu un’esperienza davvero bella. “È difficile esprimere preferenze ma sotto molti punti di vista la collaborazione con Hal Barwood su quel gioco rimane una fra le mie preferite di sempre. Siamo ancora ottimi amici, anche se lui ora vive a Portland, in Oregon. Ma sì, fu molto importante avere la libertà di scegliere liberamente quale storia raccontare.” Sulle prime, era stato proposto di basare il gioco su una sceneggiatura che era stata rifiutata per il terzo film, “ma onestamente era orribile. Si può leggere online, è davvero scioccante che sia anche solo stata scritta, è incredibilmente misogina, Indiana Jones tratta malissimo una studentessa che ha una cotta per lui e lo segue in giro per il mondo. Lui la umilia costantemente per provare a levarsela di torno. 

E l’idea era che fosse divertente. Era retrograda perfino per gli anni Ottanta. E quindi decidemmo di scrivere noi una storia. Hal aveva moltissima esperienza al cinema e io portavo le me conoscenze in termini di sviluppo di videogiochi e di game design.”

Il rapporto con Hal Barwood fu particolarmente stimolante, perché basato sull’incontro e l’integrazione di due visioni legati a medium diversi. Spesso, nelle riunioni, dovevano spiegarsi a vicenda che lo stesso elemento sarebbe stato affrontato in maniera diversa lavorando su un film o un gioco. Ma nel giro di qualche tempo, Barwood venne assimilato e divenne un vero sviluppatore di videogiochi. “Da lui ho imparato moltissimo,” mi ha detto Falstein, “e non solo sul piano cinematografico, anche su come comporre un’ambientazione, su come un personaggio dovrebbe camminare… La sua esperienza cinematografica contribuì in maniera enorme, ci fece dei piccoli corsi su come il posizionamento della macchina da presa cambia il contesto emotivo, per esempio sul fatto che, se vuoi dare un senso di paura e sottomissione, la posizioni molto in basso, come se qualcuno ti osservasse dall’alto. E ci fece guardare diversi classici del cinema, un tema su cui tempo fa ha fatto anche un intervento alla GDC. Insomma, ho imparato molto in quell’ambito e nel contempo gli ho insegnato quello che sapevo sull’interattività e sullo sviluppo di videogiochi.”

Dopo l’uscita di Fate of Atlantis, le avventure Lucas virarono con prepotenza verso uno stile grafico molto più esagerato, con geometrie impossibili e personaggi cartooneschi. Fece eccezione The Dig, anche a causa di uno sviluppo durato diversi anni, ma i vari Day of The Tentacle, Sam & Max e Full Throttle buttarono completamente per aria l’approccio visivo. Ho chiesto a Falstein se sia stato un cambio di stile avvenuto in maniera naturale o una decisione consapevole a livello di studio: “Penso che sia accaduto soprattutto perché il nostro primo grafico, Gary Winnick, era un disegnatore di fumetti. E quando ampliammo il nostro reparto di grafici, lui ne venne messo a capo e ingaggiò i suoi amici e colleghi fumettisti, a cominciare da Steve Purcell, il creatore di Sam & Max. Arrivavano tutti dal mondo dei fumetti e quindi finirono per adottare uno stile che sentivano loro. E se guardi, anche nei giochi precedenti si percepiva questa tendenza, anche se magari era meno marcata. Fanno eccezione i due Indiana Jones, che richiedevano un approccio più realistico, e The Dig, sia perché come detto il progetto risale addirittura al 1991, ma poi anche perché venne realizzato usando degli effetti speciali creati dalla Industrial Light and Magic, che in un contesto cartoonesco sarebbero stati sprecati. Però è una domanda interessante, non credo che me l’abbiano mai fatta e non ci avevo mai pensato. Di sicuro, mi ricordo che i vari grafici disegnavano sempre bozzetti dal taglio strano e cartoonesco, quindi penso che fosse proprio la loro inclinazione naturale.  Poi è chiaro che dipendeva anche dai giochi: quelli basati su Star Wars dovevano avere un look più realistico.” E, a proposito di The Dig, l’avventura grafica nata da un’idea di Steven Spielberg impiegò svariati anni ad uscire, con diversi cambi al timone del progetto. Noah Falstein fu il primo a metterci mano e partecipò alla famosa riunione iniziale con Steven Spielberg, George Lucas e Ron Gilbert:

“Sono stato letteralmente il primo a lavorare su un videogioco ideato da Steven Spielberg. Lui è un videogiocatore incallito, lo è sempre stato, e ci sono stati almeno sei o sette giochi nati da lui.” Secondo Falstein, però, su quasi ogni singolo progetto nato dal famoso regista si è verificato lo stesso problema, con Spielberg che vuole seguire direttamente il progetto e tutti nello studio, soprattutto i dirigenti, che vogliono partecipare ed esserci alle riunioni. 

“E quando il tuo capo e il suo capo vogliono esserci e vogliono fare una buona impressione su Steven Spielberg, provano a fargli vedere quanto sono creativi, a tirar fuori idee, per potersi vantare del fatto che a Spielberg sono piaciute e costringerti a infilarle nel gioco. Ma tu ci sei, alla riunione, lo sai che Spielberg ha solo voluto essere gentile, sai che l’idea è tremenda ma non ci puoi fare nulla, perché il tuo capo può dirti che è piaciuta a Spielberg. George Lucas non si era mai interessato al nostro lavoro, ma aveva partecipato alle riunioni su The Dig e ci si era impegnato come non si era mai visto prima, perché era felice di poter tornare a lavorare col suo amico Steven. Insomma, la pressione era enorme.” Qualche anno dopo, ha aggiunto Falstein, in Electronic Arts lavorarono contemporaneamente su due giochi nati da idee di Steven Spielberg. Uno era un progetto d’altissimo profilo, l’altro era Boom Blox, un titolo per Wii pensato per i più piccoli. “Ho amici che lavorarono su quei progetti e so che in quel caso l’attenzione molesta dei dirigenti era focalizzata sul progetto d’alto profilo, quello costoso. Intanto, Robin Hunicke, la producer di Boom Blox, riuscì a completare il gioco senza essere paralizzata da quelle interferenze. Riuscì a lavorare tranquillamente con Spielberg senza che tutti volessero strapparle il controllo del progetto.”

Del lavoro iniziale di Falstein, comunque, non rimane praticamente nulla in un videogioco che dopo di lui vide avvicendarsi altri tre project leader diversi. Ma quel che lascia l’amaro in bocca a Falstein è soprattutto lo scarso riconoscimento dato a Brian Moriarty (creatore di Loom per Lucasfilm Games e prima ancora di svariati giochi di successo in Infocom): “Lui ha scritto penso l’80 o 90% della storia che si trova nel gioco e mi infastidisce abbastanza il fatto che non gli venga dato credito a sufficienza per questa cosa. Io, lui e Dave Grossman siamo stati i primi tre a lavorare sul gioco e nei riconoscimenti siamo indicati con la dicitura Ghosts of Dig's Past. Da un lato è bello che abbiano incluso i nostri nomi, ma soprattutto Brian fu fondamentale nella creazione del gioco e nell’averlo fatto virare verso quel taglio mistico, perché la mia versione era molto più in stile fantascienza realistica. Brian lo spinse in una direzione quasi spirituale, in un modo che penso emerga bene dal gioco. Ma non gli viene riconosciuto a sufficienza.” 

Noah Falstein rimase in Lucas per circa otto anni, durante i quali ricoprì ruoli di ogni tipo. Un vero prezzemolino, che risulta accreditato su praticamente quasi ogni gioco pubblicato. Gli ho chiesto se questa cosa nascesse da un suo desiderio di lanciarsi in tutte le direzioni o se questo genere di collaborazione “trasversale” fosse semplicemente la norma nello studio e lui, ovviamente, mi ha risposto che sono vere entrambe le cose. “Sicuramente era una situazione lavorativa molto aperta, in parte anche per l’architettura dell’edificio in cui lavoravamo, perlomeno negli anni passati allo Skywalker Ranch: ti incoraggiava a incontrare continuamente i colleghi, infilarti in conversazioni e riunioni. Finivi per sentire quello che facevano gli altri e buttare lì un suggerimento. E in più, senza dubbio, è una cosa che mi piace fare. E forse fra i motivi per cui mi licenziarono c’è anche il fatto che collaboravo con tutti, invece di focalizzarmi su un singolo progetto. Inoltre, può essere che mi abbia penalizzato anche l’aver lavorato su The Dig, con tutte le sue difficoltà. Ma insomma, amo la varietà ed è parte del motivo per cui lavoro come freelancer più o meno dalla metà degli anni Novanta: mi offre l’opportunità di lavorare su tanti progetti diversi tutti assieme. Il fatto è che mi annoio facilmente… Solo di recente, da ultrasessantenne, ho iniziato a chiedermi se soffro di disturbo da deficit di attenzione e del resto ci sono molte persone del settore a cui è stato diagnosticato in età adulta. Per me è difficile concentrarmi su una singola cosa per lungo tempo, specie poi oggi che lo sviluppo di un gioco AAA va avanti per cinque anni con duecento persone che fanno sempre la stessa cosa… Non fa per me.”

Già, nonostante tutti i successi, l’esperienza di Falstein in Lucasarts ebbe termine a causa di un licenziamento, che definisce molto traumatico. Ci fu una serie di licenziamenti in massa, generati da decisioni politiche e dalla necessità di far salire il profitto, come del resto accade spesso ancora oggi. “Sull’immediato fu molto traumatico, ma nel giro di due mesi venni coinvolto in una nuova startup ed ero motivatissimo. In generale, una cosa che ho visto accadere molto in questo settore è che le persone licenziate finiscono per trovare situazioni migliori, perché nel loro posto di lavoro precedente non si trovavano bene e non venivano apprezzate.” [L’intervista è precedente all’esplosione di licenziamenti degli ultimi mesi, che ovviamente costituisce una situazione diversa da ciò di cui parla Falstein.]

Falstein fu uno fra i primi assunti in The 3DO Company, un’azienda fondata da Trip Hawkins (già fondatore di Electronic Arts) per provare a lanciare un’idea di console “agnostica”, in cui tutti potevano produrre il loro hardware rispettando degli standard di compatibilità. Fu un progetto forse troppo avanti rispetto ai tempi in cui venne tentato e che sembra quasi più attuale nel 2024 che nei primi anni Novanta. Falstein mi ha raccontato che l’azienda “Per i primi sei mesi si chiamava SMSG, che credo stesse per San Mateo Software Group, ed era tutto segretissimo, non potevamo parlarne a nessuno. Anche quando arrivava gente per fare un colloquio, dicevamo loro cosa cercavamo, se un programmatore o magari un designer, e loro volevano sapere di cosa si trattasse, ma niente. Facevamo firmare un accordo di non divulgazione ma comunque non dicevamo nulla, e devo dire che è un ottimo modo di fare colloqui, perché se il candidato non sa su cosa dovrebbe lavorare, non ha modo di provare a dirti quello che vuoi sentirti dire. Se sanno che il progetto è Diablo 4, possono dirti che adorano la serie e come vogliono migliorarla. Nel nostro caso, chiedevamo “Cosa vuoi fare? Qual è il tuo lavoro ideale?”, loro ci chiedevano dettagli ma non rispondevamo. “Non è importante, ci interessa capire cosa potresti fare tu.” Alcune persone restavano sul vago, ci dicevano di essere grandi lavoratori, intenzionati a sviluppare il miglior gioco possibile, cercando di rassicurarci sulle loro doti.

Ma ogni tanto a qualcuno si accendeva una luce negli occhi e partiva a raccontarci il suo progetto dei sogni. E quando quel progetto era vicino al genere di cosa che volevamo fare, o comunque figlio di un modo di ragionare allineato al nostro, era facile immaginare che quella persona facesse per noi.”

Nonostante la segretezza, a convincere Falstein della bontà del progetto e a motivarlo nel lanciarcisi furono anche le parole di RJ Mical, un suo amico che aveva fatto entrare lui nel settore anni prima per lavorare su Sinistar e che aveva poi lavorato alla progettazione di macchine come la linea di computer Amiga e l’Atari Lynx. “Insomma, fu un bel periodo. E sì, è vero che non riscosse un gran successo, ma sul breve termine, diventammo società per azioni e nei primi nove mesi salirono a 50 dollari l’una. Eravamo estasiati e ci immaginavamo che questa cosa ci avrebbe fatto fare un sacco di soldi, ma una volta finito il periodo iniziale in cui non si potevano vendere le azioni, erano già scese a 6 dollari l’una. Ma insomma, per un po’, diciamo fino all’uscita di PlayStation, andammo forte. Ed era un concetto sulla carta interessante, allineato a come funzionano le altre forme di intrattenimento: posso guardare un film su qualsiasi hardware io abbia attaccato alla TV. Spero che prima o poi accada anche coi videogiochi e se deve succedere attraverso lo streaming, perché no?”

Successivamente, Falstein fu anche uno fra i primi assunti da DreamWorks Interactive, dove si trovò nuovamente a lavorare con Steven Spielberg. E ancora una volta emerse il suo desiderio di mettersi alla prova e sperimentare con generi e progetti diversi: “Ho oltre quaranta anni di carriera alle spalle e devo dire che Chaos Island è stato il progetto più piacevole e privo di grossi problemi a cui abbia mai lavorato. Tutti erano felici e lavoravano bene assieme, una cosa che mi sorprese abbastanza. Era un gioco molto particolare, non ricordo nemmeno come nacque l’idea di usare la licenza di Jurassic Park: The Lost World per creare un RTS mirato a un pubblico di pre-adolescenti. Col senno di poi, mi sembra una decisione quantomeno bizzarra. Ma ero felicissimo di poter lavorare su quella licenza. Inoltre, era un team di veterani, con l’eccezione di Denise Brown (oggi Fulton), che era molto giovane e faceva la producer. Era bravissima, poi andò a dirigere un’intera divisione in uno fra i principali studi texani. Ci piaceva proprio lavorare assieme, andavamo a pranzo tutti assieme, ci vedevamo nel weekend, era una favola.” Il problema è che, ovviamente, essendo coinvolto Steven Spielberg, il livello di stress poteva essere alto, sempre per i soliti motivi: tutti volevano farlo felice, figuriamoci lavorando in uno studio fondato da lui. “Tra l’altro, in quei primi sei mesi, passò un sacco di tempo a lavorare con noi. Io collaborai su un progetto con sua sorella che non venne mai portato a termine, ma feci conoscenza con la sua famiglia. Fu interessante vedere il suo coinvolgimento, capire quanto volesse davvero occuparsi di videogiochi. Ma insomma, era una situazione davvero inusuale, che era anche un sogno.”

DreamWorks era il primo nuovo studio fondato a Hollywood nel giro di cinquant’anni e si basava su un concetto veramente innovativo, sull’idea che tutte le divisioni (cinema, videogiochi, animazione, musica… ) fossero eguali e si supportassero a vicenda. Stiamo parlando degli anni Novanta, un periodo in cui chi faceva cinema era ancora abituato a generare cento volte più guadagno di chi creava videogiochi, quindi era una situazione molto particolare ed entusiasmante. Ma “purtroppo non durò a lungo e tutte le divisioni non cinematografiche finirono per essere vendute o trasformate in altro.” Va detto che Spielberg, mi ha raccontato Falstein, credeva davvero nel progetto ed è davvero un appassionato di videogiochi, anche al di là delle dichiarazioni di facciata. Aveva fondato DreamWorks dopo il successo di Schindler’s List e aveva deciso di prendersi una pausa di tre anni dai set per dedicarsi a creare e far funzionare lo studio. “Dai racconti delle persone che lavoravano direttamente con lui, so che passava circa sei ore al giorno appiccicato ai videogiochi e faceva impazzire tutti, perché c’era da lavorare. Suo figlio Max fa lo sviluppatore di videogiochi ed è cresciuto giocando anche alle nostre avventure, ricordo che giocava a Indiana Jones and the Last Crusade seduto sulle gambe di suo padre.”

Qualche anno dopo l’esperienza in DreamWorks Interactive, Falstein ebbe l’occasione di tornare a lavorare su un’avventura grafica assieme a Hal Barwood

“In quel periodo mi occupavo di game design come freelancer e venni a sapere che un’azienda tedesca stava lavorando su un gioco ispirato a Mata Hari ma non aveva nel team gente molto ferrata sul genere. Se non sbaglio, avevano esperienza solo di giochi di ruolo. Ma volevano produrre un gioco in stile Lucasarts, sapevano che io lavoravo come freelancer e io sapevo che a Hal non sarebbe dispiaciuto tornare a lavorare su un videogioco. Sviluppare Fate of Atlantis ci era piaciuto tantissimo e in seguito eravamo rimasti in contatto… era una bella opportunità.” 

I due non erano troppo convinti della scelta di basare un gioco su Mata Hari, perché se da un lato incentrare un gioco su una spia della Prima Guerra Mondiale non è una cattiva idea, dall’altro temevano che l’ambientazione non fosse molto adatta al pubblico di quegli anni.

“Inoltre, la sua è una storia veramente triste, non era una spia molto brava e fece una vita molto dura. Più accumulavamo informazioni sulla vera figura storica e più faticavamo a immaginarci un videogioco sensato: volevamo che fosse realistico, ma se l’avessimo basato sulla storia vera sarebbe stato deprimente. Quindi ci inventammo che i fatti realmente accaduti erano solo una copertura per nascondere la sua reale abilità come spia. Fu divertente: così come ai tempi di Fate of Atlantis ci eravamo divertiti a fare un sacco di ricerca, fra Platone, Atlantide e tutte le leggende, facemmo lo stesso riguardo a Mata Hari. Scoprimmo che aveva vissuto a Parigi nello stesso periodo di Marie Curie e ci piacque l’idea di raccontare la storia di due donne che avevano successo in un mondo dominato dagli uomini, entrambe straniere in Francia, cosa che creò loro ulteriori difficoltà. Ci sembrava un’amicizia naturale, oltre che una coppia interessante, una scienziata e una danzatrice spia. Ricordo un sacco di giorni passati a casa di Hal divertendoci a tirar fuori idee, fregandocene del fatto che pensavamo il gioco non avesse un gran potenziale.”

In quegli anni, Noah e Hal misero in piedi anche il The 400 Project, che provava a mettere assieme una serie di regole basilari per il game design. “Quella è un’idea di Hal. Lui aveva studiato cinema ed era molto frustrato dal fatto che non c’era una grossa base di conoscenze condivise sullo sviluppo di videogiochi. Riteneva che i videogiochi esistessero da tempo a sufficienza per avere una serie di regole chiare su cose da fare e cose da evitare nello sviluppo, quindi fece un intervento sul tema alla Game Developers Conference, credo nel periodo in cui ancora si teneva a San Jose. Lo intitolò “Four of the 400” perché aveva pensato a quattro esempi di regole del genere su cui aveva costruito una base di partenza. Il numero 400 ce lo mise perché ovviamente non c’è un numero definito, ma partendo da quattro, suonava bene. Pensai che era un’ottima idea e gli proposi di iniziare a raccogliere queste regole. All’epoca, organizzavo un incontro annuale di game designer, ci trovavamo a condividere idee per un weekend. In quegli anni, attorno al 2000, il settore era molto interconnesso. Lo è ancora oggi, eh, ma all’epoca, chiunque avesse creato un gioco di successo conosceva tutti gli altri. Iniziai a raccogliere queste regole e a pubblicarle nella mia rubrica sulla rivista Game Developer. Ci fermammo arrivati quasi a 200 regole, di qualità variabile. Mi piacerebbe andare avanti, rendere la cosa più articolata, ma la mia famiglia è stanca di sentirmi dire che dovrei scrivere un libro al riguardo. Lo dico da vent’anni, ma ho sempre troppo da fare con le mie altre attività.”

Sul curriculum di Noah Falstein figura anche un periodo in Google come chief game designer. Venne infatti ingaggiato per dirigere un dipartimento videogiochi all’interno del gruppo Android. “L’idea era di mettere assieme uno studio da 200 persone, probabilmente acquisendo uno studio più piccolo da usare come base, e poi di sviluppare giochi Android first party di alta qualità, un po’ come Nintendo crea i giochi migliori per le sue console. In più, trattandosi di Google, l’idea era anche di rendere pubblico il codice sorgente, perché il punto non era guadagnare sui singoli giochi, ma aiutare tutti a guadagnare sviluppando giochi. Anche perché su ogni vendita di giochi pubblicati da altri, Google guadagna il 30%.” Secondo Falstein era un’ottimo progetto ed era pronto a ingaggiare i vari game designer per mettere assieme il dipartimento ma nel giro di qualche mese la dirigenza di Google cambiò idea, per ragioni che preferisce non approfondire. “Solo che io ero stato già assunto come chief game designer, ed era un po’ strano occupare quella posizione quando non c’erano altri game designer assieme a me. Ma insomma, c’erano parecchi altri progetti slegati dai videogiochi a cui dedicarsi.”

All’epoca, mi ha raccontato Falstein, il progetto di Stadia era già in lavorazione e il nome in codice era Pikmin, anche se “lo cambiarono perché si resero conto che faceva capire subito che si trattava di un progetto legato ai videogiochi. Comunque, provai una versione molto preliminare, se non sbaglio nel 2014, ed era già notevole. Ovviamente serviva una connessione a internet di grande qualità e dovevano continuare a lavorarci su per renderlo meno costoso. Io però mi limitai a qualche test, il team era ancora veramente minuscolo, credo meno di cinque persone. E infatti erano felici di poterne parlare con qualcuno che aveva esperienza di design. Avevano un po’ di giochi con cui stavano sperimentando e che pensavano sarebbero stati adatti a Stadia. Io diedi una mano, ma poi le cose cambiarono molto da lì al lancio. Collaborai anche ai progetti VR e AR, Daydream e Tango, anche Google Cardboard, che quando venne presentato era fenomenale, anche se chiaramente invecchiò molto in fretta. Lavorai anche su alcune idee per Google Blast. Tra l’altro credo ancora molto nel potenziale della realtà aumentata, vorrei che venisse esplorata maggiormente.”

Oggi, come accennato prima, Noah Falstein lavora esclusivamente come freelancer, per altro appoggiandosi su The Inspiracy, un’azienda che ha fondato quasi trent’anni fa e che si focalizza sulle consulenze. Gli ho chiesto di parlarmi di come funzioni il lavoro da game designer freelancer e quanta incidenza abbia oggi sulle grosse produzioni: “Beh, è comunque una cosa ancora non molto diffusa, anche se l’utilizzo di freelancer sta diventando sempre più frequente. L’idea mi è venuta grazie agli anni passati in Lucasfilm e Dreamworks, a contatto con il mondo del cinema, dove gran parte della gente creativa passa da un film all’altro. Ci sono registi che hanno un gruppo di persone con cui collaborano sempre e che si portano dietro su ogni progetto. Ho sempre pensato che questo tipo di organizzazione potesse costituire un’evoluzione naturale anche per il settore dei videogiochi, ma devo dire che al momento non è ancora successo su larga scala. Ci sono alcuni ambiti specifici su cui funziona così, penso ai compositori musicali e agli scrittori che lavorano sui videogochi. Chiaramente ci sono studi che hanno musicisti o scrittori assunti internamente, ma molti lavorano di gioco in gioco, passando da uno studio all’altro. Nel game design è più complesso e devo dire che da quando sono diventato un game designer freelance non ho mai lavorato come lead su un gioco di primissimo piano, perché tipicamente gli studi tripla A hanno designer interni. Però ho collaborato su tanti bei giochi. E la varietà e l’affrontare sfide mi interessano più che poter vantare l’autorialità totale su un gioco, quindi sono soddisfatto così.” Sicuramente, nello scegliere questo tipo di percorso, diventa fondamentale anche saper fare più cose assieme: “da un lato sviluppi un gioco ma dall’altro devi anche venderti costantemente, per esempio andando alle conferenze, perché se ti concentri solo sullo sviluppo, a progetto terminato non hai altro lavoro che ti attende e va a finire che per portare a casa la pagnotta devi smettere di fare il freelancer. Succede a molte persone che tentano questa via, si arrendono quando incappano in un periodo senza lavoro e tornano nella sicurezza del posto fisso. Nel mio caso, non andai a fare il chief game designer in Google per necessità, è che era proprio una posizione irresistibile. Ma in generale, a questo punto, non mi ci vedo proprio a tornare al posto fisso, e infatti ho anche rifiutato un paio di offerte.

Fra le collaborazioni degli ultimi anni, per Falstein è diventato nodale il lavoro nel nel campo dei serious game utilizzati con applicazione medica, un ambito di cui non si legge molto. Falstein scoprì i serious game nel 1998, quando Shell Oil contattò alcuni sviluppatori chiedendo idee su come integrare i videogiochi con quello che facevano. Era un genere di progetto molto insolito, nuovo, e Falstein si appassionò al lavoro su questo filone di videogiochi e, in particolare, al settore medico: “Attualmente lavoro come consulente per dieci clienti diversi ed è molto interessante, oltre a costituire una grossa sfida. Ogni tipo di gioco è unico. Per esempio, adesso mi sto occupando di giochi pensati per trattare chi soffre di disturbo da deficit dell’attenzione, depressione, ansia, miopia, dolori cronici… c’è una lista enorme di cose in cui i videogiochi sono molto efficaci. Ma anche videogiochi usati come strumenti di allenamento. Per esempio, ho lavorato con Level X, un’azienda che tra l’altro è diretta da un altro ex Lucas: hanno avuto un grosso successo, ormai hanno duecento dipendenti. E con loro lavoro su progetti veramente complessi, impegnativi, mi capita di sviluppare giochi che hanno come target i medici,

o magari un paziente che ha avuto un ictus e ha problemi di mobilità o col funzionamento del cervello. Sono tutte cose che ti fanno ragionare sui tuoi metodi creativi e ti costringono a trovare soluzioni nuove. E quando funziona, e molti di questi giochi risultano davvero efficaci, hai creato un gioco che non solo è stato impegnativo e interessante da sviluppare, ma è anche in grado di cambiare la vita delle persone.” Falstein mi ha raccontato di aver sviluppato un gioco pensato per adolescenti malati di cancro, afflitti da leucemia, che non prendevano regolarmente le pillole della chemioterapia “perché davano loro la nausea e… essendo adolescenti, se gli dicevi che stavano rischiando la vita non capivano davvero.” E il gioco si è rivelato molto efficace nel trasmettere determinati messaggi e persuaderli a seguire le cure. “Sono belle soddisfazioni e, onestamente, è anche parecchio lucrativo, perché stiamo parlando dell’industria farmaceutica e medica, un settore enorme con investimenti nell’ordine del trilione di dollari su scala mondiale. I videogiochi sono una fetta minuscola di quello che fanno, ma anche una percentuale minuscola di un trilione di dollari son parecchi soldi.”

Tra l’altro, per chi fosse curioso, alcuni videogiochi di questo tipo sono disponibili pubblicamente. Se si vuole scrivere sulla confezione che il gioco è effettivamente efficace e sicuro, mi ha spiegato Falstein, servono l’approvazione dell’FDA negli Stati Uniti o il bollino CE in Europa. E per esempio, fino a qualche tempo fa, un gioco su cui ha lavorato che è pensato per il disturbo da deficit dell’attenzione poteva essere acquistato solo tramite ricetta medica. “Ma ci sono molti… wellness game, per la meditazione, per esempio. Un paio piuttosto noti sono Calm e Headspace, due app per lo smartphone, acquistabili liberamente.” Dipende insomma da quali ambizioni ha il singolo gioco.

 Ma la storia recente di Falstein non è legata solo ai serious game e per esempio il suo nome appare nei titoli di coda di Return to Monkey Island, dove viene accreditato come tester. Quando menziono questa cosa, anche in relazione al chiedergli se ci sia un videogioco recente che ha amato molto, si lancia in una riflessione carica di lodi: “Penso che Return to Monkey Island, e in particolare il lavoro fatto da Ron Gilbert e Dave Grossman come lead designer e scrittori, in futuro verrà studiato come uno fra i migliori esempi di narrazione interattiva mai visti. E lo dico non perché si tratti di Monkey Island o per l’umorismo, che è fantastico, ma perché il gioco in sé costituisce un’esplorazione molto seria di che cosa sia la narrazione. Il modo in cui funzionano i diversi finali e il modo in cui gioca con l’idea che quando racconti una storia la cambi ogni volta… I nostri antenati, diecimila anni fa, si raccontavano storie seduti attorno al fuoco e anche una storia che veniva ripetuta svariate volte cambiava sempre un po’ a seconda di chi la raccontava. Secondo me, i videogiochi sono la versione moderna di questa cosa e Return to Monkey Island ne è un esempio fantastico, un capolavoro che penso verrà studiato nelle scuole.” 

L’intervista volge al termine e mi viene spontaneo chiedergli quale sia il segreto della sua longevità in un settore in cui si parla continuamente di burnout e di gente che cambia lavoro per fare qualcosa di meno stressante. Mi risponde che per lui la chiave è “quella cosa di cui abbiamo parlato a più riprese: reinventarsi, apprezzare le sfide nuove, è quello che ha permesso di rimanere motivato a me e a praticamente chiunque altro abbia una carriera così lunga. Di contro, chi vuole diventare bravissimo a fare solo una cosa e continua a fare quella tende ad essere superato e lasciato da parte dal settore. Ho diversi amici grafici che hanno abbandonato i videogiochi perché volevano lavorare solo con un certo tipo specifico di pixel art e quando è diventata meno richiesta hanno lasciato perdere, sono tornati a occuparsi di disegno.”

Pubblicato il: 15/07/2024

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3 commenti

quell'indiana Jones è uno dei titoli a cui sono più legato probabilmente è uno dei primi giochi che ho giocato con cognizione di causa ( mi ricordo che giravo apposta con la jeep perchè così spawnano i combattimenti) ricordo reso ancora più do …Altro... quell'indiana Jones è uno dei titoli a cui sono più legato probabilmente è uno dei primi giochi che ho giocato con cognizione di causa ( mi ricordo che giravo apposta con la jeep perchè così spawnano i combattimenti) ricordo reso ancora più dolce dal fatto che spesso lo giocavo con le mie due sorelle molto più grandi di me che mi guidavano e aiutavano negli enigmi.

The Dig è pura magia, mi ha sempre messo addosso una stranissima sensazione giocarci, lo considero splendida come avventura grafica, anche se ahimè, Falstein alla fin fine poco c'entra con il The Dig che tanto ho amato, poichè quello che aveva pen …Altro... The Dig è pura magia, mi ha sempre messo addosso una stranissima sensazione giocarci, lo considero splendida come avventura grafica, anche se ahimè, Falstein alla fin fine poco c'entra con il The Dig che tanto ho amato, poichè quello che aveva pensato inizialmente lui era più un action che un'avventura grafica, e fu sollevato dall'incarico, quindi con un po di cattiveria, visto che ripeto, tanto l'ho amato, è andata bene così. :D

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