ARTISTI, PIONIERI, RIBELLI
La storia dei videogiochi indie
Che cos’è un indie?
Diciamo fin da subito che scrivere una storia dei videogiochi indie significa necessariamente procedere per approssimazione. Questo perché “indie” è una di quelle parole che – grosso modo – evocano un’idea nella nostra testa, ma che non siamo in grado di definire con esattezza nel momento in cui ci viene chiesto cosa voglia esattamente dire trovarsi davanti a un “videogioco indipendente”. E anche se ne fossimo in grado, la nostra definizione sarebbe probabilmente diversa da quella di altre persone. Se poi uscissimo al di fuori del medium videoludico, il tutto diverrebbe ancor più complesso (pensiamo a quanto sia commerciale molta musica etichettata come “indie”, banalmente). Segnalo anche che c’è chi (Maria B. Garda e Paweł Grabarczyk) sottolinea che “indie” e “indipendente” sono due cose diverse. Ma non allontaniamoci più del dovuto.
Possiamo fare una lista, breve e certo non esaustiva, di ciò che viene comunemente citato quando si parla di videogiochi indipendenti.
Visto però che da qualche parte dobbiamo pur partire, vediamo di tenere a mente almeno alcuni punti fissi. Per prima cosa, come ha ricordato Paolo Pedercini in un suo intervento, l’indie dovrebbe essere considerato un gradiente o un continuum, non qualcosa di bianco o nero. Vale anche la pena ricordare, recuperando le parole di Paolo Ruffino, che bisognerebbe ripensare molte delle narrazioni che il mondo indie autoalimenta, come quella del primato di un geniale creativo, per andare invece a rimarcare l’importanza delle reti produttive dal basso. Più in generale si è visto molto entusiasmo, probabilmente troppo in diversi casi, nel corso degli ultimi anni, attorno a una sorta di rivoluzione indie che è stata costantemente attesa.
Alla fine della fiera, qui andremo a parlare di quei videogiochi che si pongono – realmente o percettivamente – al di fuori delle logiche mainstream per almeno una delle loro caratteristiche. Il che vuol dire avere un insieme molto ampio e poco definito (e, in ultima analisi, il rischio è di tornare al “è indie ciò che viene definito indie”) ma – come detto – l’indie va considerato come un gradiente, come una scala di grigi e mettere delle divisioni troppo nette finirebbe sempre per lasciare fuori qualcosa.
Quel che faremo, semmai, sarà fornire alcuni cenni sulla storia di questa etichetta, nel corso dell’articolo.
Dalla nascita del videogioco ai primi anni ’90
Se ritorniamo alle origini del videogioco, possiamo dire che esso nasce indie semplicemente perché all’inizio non esiste ancora un mercato mainstream. I primi videogiochi nascono infatti da studenti, hacker e “smanettoni” che hanno accesso a dei macchinari che sono pensati per altri scopi, ma ne modificano l’uso per realizzare dei giochi.
Come spesso succede quando di assiste alla nascita di un medium, ci si trova davanti a qualcosa di magmatico, multiforme, di cui è difficile definire i confini. Per questa ragione potrebbe anche essere improprio parlare di videogiochi indie: se è indipendente ciò che si contrappone al mainstream, e se in questo momento ancora non esiste nulla di mainstream, allora non sarebbe scorretto dire che è presto per fare una simile distinzione.
Lo scenario cambia rapidamente, nel giro di pochi anni, con la nascita delle prime console e delle prime case di produzione. In situazioni del genere non si riesce a fare una suddivisione netta in diversi periodi, anche perché la scena indie non ha uno sviluppo omogeneo in tutto il mondo. Pensiamo, giusto per fare un esempio, al panorama indie dell’America Latina e a quello della Finlandia (la cui storia è stata rispettivamente raccontata da Orlando Guevara-Villalobos e da Olli Sotaama nel libro Independent Videogames. Cultures, Networks, Techniques and Politics curato da Paolo Ruffino). In particolar modo, gli indie giapponesi (definiti dōjin soft o dōjin games) hanno sempre avuto caratteristiche uniche (ne ha parlato per esempio Mikhail Fiadotau). Per cui ci sarebbero numerose storie locali, che hanno viaggiato a velocità differenti, soprattutto in questa prima fase.
Di certo, però, il 1983 è una data significativa. Si tratta dell'anno in cui si è vista la famosa crisi del mercato videoludico, che secondo alcuni commentatori sarebbe stata a un passo dal distruggere la nascente industria, relegandola a una curiosità per pochi appassionati. Una posizione che oggi appare eccessiva e che avrebbe dato a quegli eventi un portato superiore al loro impatto reale. In un caso come nell’altro, non cambia il fatto che nel 1983 ci furono parecchi scossoni. Molti sviluppatori si misero a realizzare videogiochi in proprio (o tornarono a farlo) utilizzando i computer domestici dell'epoca. Siamo nel periodo dei cosiddetti “programmatori da cameretta”. Questi sviluppatori si ingegnano in vari modi per far conoscere i loro videogiochi, visto che nella maggior parte dei casi non hanno modo di essere distribuiti. Le riviste rappresentano in molti casi un ottimo veicolo comunicativo. L’acquisto e l'invio delle copie avviene spesso senza alcun intermediario. Lo sviluppatore stesso spedisce per posta le copie del suo videogioco. Un rappresentante emblematico di questa categoria di sviluppatori è Kevin Toms, il creatore di Football Manager (1982). Come ha avuto occasione di ricordare in questo articolo, la creazione del suo videogioco è avvenuta in un momento in cui erano tutti quanti indipendenti, all’interno di quella scena creativa, perché non c’erano publisher a cui rivolgersi. E anche i negozi specializzati erano praticamente inesistenti.
Kevin Toms ha creato un nuovo genere videoludico nella sua cameretta e lo ha fatto conoscere grazie all’autopromozione, con un processo di vendita semplice e rudimentale ma molto efficace, condiviso da un gran numero di altri sviluppatori del tempo. Si acquista uno spazio pubblicitario su una rivista, in cui vengono inserite le informazioni di base sul gioco e il proprio indirizzo. Si riceve un ordine via posta e si spedisce la copia del gioco.
Il quadro generale muta nuovamente nell’arco di pochi anni, per almeno due ragioni: l’affermarsi di nuove console e l’attenzione dei distributori e dei publisher verso questo proficuo sottobosco di sviluppatori. Nel caso delle console, l’ambiente di sviluppo è molto più controllato, per cui c’è una maggior forma di gatekeeping (di “sorveglianza all’ingresso”, per cui qualcuno decide cosa viene pubblicato e cosa no). Quest’ultimo è determinato in modo sostanzialmente automatico dai costi di produzione e di distribuzione. I progetti più piccoli e indipendenti rimangono generalmente al di fuori delle console perché non sarebbe profittevole distribuirne delle copie. Alcuni “programmatori da cameretta” entrano in team più strutturati. Altri sperimentano nuovi modi per continuare a portare avanti i loro progetti, senza doversi preoccupare di distributori e rivenditori. Il loro numero si riduce, anche perché si trovano davanti a delle sfide inedite. La pubblicità sulle riviste e l’invio manuale delle copie non funziona più: ora che la competizione è aumentata bisogna trovare nuovi modi per riuscire a diffondere il proprio gioco.
Sono due i metodi di distribuzione che si affermano, in questo nuovo scenario. Il freeware e lo shareware. Quest’ultimo, in particolar modo, si diffonde nella forma freemium. Si parla di freeware quando uno sviluppatore condivide un software che può essere scaricato gratuitamente e utilizzato senza restrizioni temporali, ma la cui proprietà rimane nelle mani di chi lo ha creato. Con lo shareware è invece possibile accedere gratuitamente a una parte del programma, ma per avere la versione completa bisogna pagare. Questo avviene soprattutto nella forma freemium (che quindi è, grosso modo, come una demo), mentre in altre tipologie di shareware ci si trova davanti a un limite temporale nell’uso gratuito. Alcuni dei videogiochi distribuiti in questo modo ottengono un’enorme popolarità, ma questa non si accompagna necessariamente a un elevato guadagno, perché molti giocatori si accontentano della versione di prova. In alcuni casi, i videogiocatori meno accorti non si rendono nemmeno conto di avere ottenuto solo un pezzo del gioco e si convincono che quella sia l’esperienza completa.
Nel mare di questi progetti, a volte emergono degli enormi successi commerciali. Uno dei casi più noti è certamente quello di Doom (1993), la cui storia produttiva è stata raccontata nel libro Masters of Doom di David Kushner. Trattandosi del videogioco che è generalmente indicato come il “padre” degli FPS – un genere assolutamente mainstream – per alcuni potrebbe sembrare strano parlare di Doom come di un videogioco indie, ma era stato prodotto in aperta sfida alle logiche dominanti dell’industria di quel periodo, con un approccio decisamente punk. Consiglio la lettura dell’appena citato Masters of Doom, per chi volesse approfondire.
La pubblicazione di Doom ha seguito il cosiddetto “modello Apogee”, che ha preso il nome da Apogee Software. In questo modello, il videogioco da pubblicare viene diviso in tre segmenti. Il primo è quello gratuito, mentre gli altri due possono essere ottenuti solo dopo aver pagato. E Doom è effettivamente diviso in tre parti (Knee-Deep in the Dead, Shores of Hell e Inferno), di cui la prima era ottenibile gratuitamente. Come ha ricordato John Carmack in un’intervista, diversi giocatori erano convinti che Knee-Deep in the Dead fosse il gioco completo e non si sono mai neanche posti il problema di acquistare le due sezioni successive.
Il caso di Doom mostra che, all’inizio degli anni ’90, questo modello è ancora percorribile, ma il mercato sta per cambiare ancora, con una serie di evoluzioni che avrebbero relegato per un po’ di tempo le produzioni indipendenti in un sottobosco più o meno dimenticato.
In cerca di una rotta da seguire: i travagliati anni ’90
All’inizio degli anni ’90 è ancora possibile, per un piccolo team come id Software, realizzare un enorme successo come Doom, ma nel giro di pochi anni avviene un enorme salto tecnologico e la competizione cresce a dismisura. I costi produttivi decuplicano. Servono team sempre più grandi e strutturati per realizzare dei videogiochi che siano al passo col tempo. E, come già detto in precedenza, i distributori mettono in campo un forte (e in fondo necessario) gatekeeping. Distribuire un “piccolo” videogioco sarebbe per loro un probabile fallimento economico e, in casi del genere, fanno il possibile per tutelarsi, facendo ricadere il rischio di impresa sugli sviluppatori. Per cui, anche se un piccolo team riuscisse a farsi ascoltare da un distributore, rischierebbe di imbarcarsi in un’impresa pericolosissima. Dovrebbe infatti occuparsi di produrre a proprie spese un gran numero di copie da far distribuire nei negozi. Se il videogioco non dovesse piacere, il distributore rimanderebbe tutto l’invenduto agli sviluppatori, che si troverebbero con un magazzino pieno di giochi invendibili. E se anche il videogioco dovesse vendere discretamente, la percentuale ottenuta dal team di sviluppo sarebbe alquanto bassa.
In questo panorama rimangono operativi solo pochi irriducibili, simili ai Galli del famoso villaggio di Asterix, che continuano a realizzare videogiochi stando ai margini del sistema. L’esempio più famoso è probabilmente quello della Spiderweb Software di Jeff Vogel, attiva dal 1994. I suoi videogiochi continuano a essere distribuiti tramite modello shareware. Come intuibile, rimangono ben lontani dai risultati dei grandi successi di quegli anni, ma sono prodotti che riescono a mantenere una piccola fanbase molto interessata e attiva.
Tuttavia, come si sarà ormai capito, anche questa situazione non è destinata a durare nel tempo, perché tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 arriva una nuova e significativa ondata di cambiamenti. Vale la pena spendere almeno due parole su ciascuno di essi.
Uno di questi grandi cambiamenti è la diffusione del modding, quel fenomeno che spinge i giocatori a modificare determinati videogiochi per produrne delle varianti (e, talvolta, quelli che finiscono per essere dei nuovi videogiochi a tutti gli effetti). In certi casi, i modder hanno dato vita a dei fenomeni enormi. La prima versione di Team Fortress era una mod di Quake (1996). Counter-Strike era una mod di Half-Life (1998) realizzata da due studenti e distribuita gratuitamente. Il popolarissimo genere dei MOBA nasce con Defense of the Ancients, che è una mod dello strategico Warcraft III (2002) o, più precisamente, della sua espansione The Frozen Throne. Ovviamente non tutte le mod generano dei fenomeni così popolari, ciò che ci interessa qui sottolineare è il fatto che questo fenomeno spinge sempre più persone a voler sperimentare con i videogiochi. Grazie al modding è possibile sentirsi degli autori, condividere le proprie creazioni, vedere una community appassionata che fornisce feedback e si diverte. Molti autori di videogiochi hanno iniziato proprio così (per esempio Toby Fox).
Un altro grande cambiamento è l’arrivo di Adobe Flash nel 1996. A partire dalla fine degli anni ’90, comincia a essere utilizzato sempre più spesso per realizzare dei videogiochi. Come nel caso del modding, questa è prima di tutto una palestra per molti futuri sviluppatori, che iniziano a muovere i loro primi passi con Flash. In secondo luogo, questi videogiochi sono generalmente semplici, accessibili, possono raggiungere un ampio bacino di utenti casual che giocano volentieri per qualche minuto online. Internet si sta infatti diffondendo sempre più nei computer domestici. Per molte persone, questo è il primo punto di contatto con un mondo videoludico esterno rispetto ai titoli che acquistano nei negozi. Certo, spesso si tratta di piccole esperienze, percepite come “giochini”, ma questa si rivela anche la forza di simili videogiochi, che vengono visti come simpatici passatempo e si diffondono rapidamente. L’affermarsi di questi giochi porta anche alla nascita di alcune piattaforme che fungono da aggregatore di titoli Flash, come Kongregate e Newgrounds. La loro presenza facilita ulteriormente la diffusione di simili giochi.
Il terzo e forse più importante cambiamento è l’avvento degli store online. Ma prima di arrivare a essi fermiamoci per un secondo e osserviamo come, in questi anni, sta cambiando la percezione di “videogioco indipendente” e la sua definizione.
Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 una delle persone che si interroga maggiormente sul concetto di videogioco indie è Greg Costikyan, autore di numerosi giochi da tavolo e videogiochi. Nel 1999, Costikyan pubblica un articolo su «Game Developer Magazine» (poi ripubblicato sul suo sito personale), in cui riflette sulla situazione dei videogiochi indipendenti, partendo dalla nascita – nel 1998 – dell’Independent Games Festival, che esiste tutt’ora. Secondo Costikyan, simili iniziative sono ovviamente lodevoli, ma insufficienti, perché gli indie non hanno modo di essere distribuiti e si trovano comunque a essere schiacciati dai colossi del settore. Servirebbe un circuito distributivo alternativo che consentisse a dei piccoli team di raggiungere nicchie di appassionati. L’anno successivo, l’autore sarebbe stato anche uno degli anonimi autori dello Scratchware Manifesto, in cui gli sviluppatori indipendenti venivano invitati a ribellarsi contro il sistema.
Ma che cos’è per loro un videogioco indie? Questo è anche un periodo in cui si diffondono definizioni e analisi. Nel 2002, per esempio, lo studioso Eric Zimmerman pubblicata un contributo intitolato Do Independent Games Exist? (Esistono i videogiochi indipendenti?), in cui dimostrava tutte le contraddizioni dietro a questa etichetta. In quello stesso anno, i Tale of Tales iniziano a realizzare videogiochi. O meglio, realizzano quelli che definiscono dei non-giochi, destinati a un pubblico di non-giocatori, come avranno modo di scrivere qualche anno dopo (nel 2006) all’interno del loro Realtime Art Manifesto. Anche questo è un tentativo di definire, dal loro punto di vista, che cosa voglia dire essere indipendenti rispetto al mercato e alle sue logiche dominanti. Anche il mondo accademico inizia a interessarsi dei videogiochi indie, come emerge da articoli come quello di Jason Wilson del 2005.
È possibile individuare due costanti. La prima è la difficoltà nel dare una definizione univoca, soprattutto quando si cerca di andare oltre le facili etichettature e si osservano le contraddizioni di simili realtà produttive. La seconda è il desiderio di trovare una nuova forma distributiva per questi videogiochi. Ed è proprio qui che entrano in gioco gli store online.
Gli anni 2000: un’esplosione indie
Nel 2004 viene lanciato il servizio Xbox Live Arcade (XBLA). In quell’anno è inoltre già attivo Steam, seppur in quel momento è ancora una sorta di client per i videogiochi di Valve. Nel 2005, tuttavia, comincia a ospitare alcuni titoli di terze parti. Queste due piattaforme aprono la strada a un nuovo e radicale cambiamento nel mondo dei videogiochi indie. E poco dopo, nel 2006, si aggiunge a loro anche Sony con il suo PlayStation Network (PSN). La distribuzione digitale consente di trovare quello sweet spot a metà strada tra le grandi produzioni e i giochi in Flash. Rispetto alle prime, la nuova ondata di indie che sta per arrivare ha il vantaggio di poter conquistare nuove fette di mercato. Sono infatti dei videogiochi spesso ricchi di sperimentazione, che possono essere venduti a un prezzo decisamente inferiore rispetto a quel che si trova nei negozi fisici. E così chi vuole esperienze brevi, spendendo poco, ha dei giochi capaci di soddisfarlo. Dei giochi che, come si è detto, sarebbe stato difficilissimo e molto rischioso proporre a un distributore tradizionale, per via della produzione di copie fisiche. Rispetto ai videogiochi Flash, spesso percepiti come “giochini” gratuiti, questi appaiono come prodotti superiori. Non che lo siano sempre e comunque, ma la percezione generale è quella.
Va anche detto che Steam, PSN e XBLA non sono state le uniche piattaforme digitali nate in quegli anni. Vale la pena ricordare almeno Manifesto Games, lanciata nel 2005 dal già più volte citato Greg Costikyan (che tra l’altro, in quello stesso anno, era tornato a parlare della “questione indie” in un famoso articolo). Manifesto Games ha chiuso nel 2009, ma è stato un esperimento interessante. Costikyan ha capito quali erano alcuni degli elementi che avrebbero poi portato al successo molti store online e ne ha parlato nel manifesto del suo store. Primo fra tutti, il principio della coda lunga di Chris Anderson. Semplificando, un negozio fisico può tenere al suo interno un numero limitato di prodotti e questi sono sottoposti a un ricambio costante, che finisce spesso per sfavorire le gemme nascoste (e, tra parentesi, ha anche un enorme numero di altri problemi legati ai resi, al magazzino, ecc. il discorso ci porterebbe lontano, ma sull’argomento si è scritto molto soprattutto a proposito di alcuni settori, come quello delle librerie, per cui potete trovare facilmente numerosi articoli in merito). Un negozio che vende videogiochi digitali non ha questo problema. Può tenere al suo interno un gran numero di titoli. Anzi, è incoraggiato a farlo, perché può contare su questo effetto della coda lunga. Normalmente, un prodotto ha il massimo picco di vendite nel periodo di uscita. La durata del picco varia a seconda del mercato e di altri fattori (per esempio, avrete magari sentito la distinzione tra best seller e long seller, sempre in ambito editoriale), ma tende comunque a esaurirsi in un arco temporale che va da pochi giorni a un mese circa. Ma dopo questo periodo ci sarà comunque una coda lunga di poche vendite sparse che continuano ad arrivare nel tempo, anche a distanza di anni. Oggi è un discorso relativamente banale, perché è la realtà a cui siamo abituati. Nel 2005 lo era molto meno. Manifesto Games non aveva le risorse per restare al passo con la concorrenza, ma aveva cercato di mettere in pratica le stesse strategie che avrebbero portato al successo diversi altri store digitali (non solo in ambito videoludico).
Gli stessi Steam, PSN e XBLA non decollano immediatamente. All’inizio il catalogo è molto ristretto e più che altro composto dalle versioni digitali dei vari “tripla A” che vengono pubblicati sul mercato. Del resto, da parte del pubblico c’è ancora disinteresse e disaffezione verso l’acquisto di videogiochi online.
Uno dei videogiochi che inizia a far percepire il cambiamento in arrivo è Braid di Jonathan Blow, pubblicato nel 2008 in digitale. Braid è un videogioco “piccolo” e “artistico” che riesce a vendere un gran numero di copie e a far parlare di sé senza essere distribuito nei negozi. Per molti sviluppatori indipendenti, questo è il segnale: si sta aprendo un nuovo mercato dove c’è spazio per la sperimentazione, attraverso videogiochi che possono essere venduti a un prezzo molto più basso dei “tripla A” (e che, ovviamente, hanno anche un costo produttivo largamente inferiore). Questa tendenza viene confermata negli anni successivi da un gran numero di altri successi indie. Nel 2009 c’è Flower di Jenova Chen. Nel 2010 escono Limbo e Super Meat Boy. Il 2011 è l’anno del commovente To the Moon di Kan Gao. Nel 2012 viene pubblicato Fez. Questo solo per citare alcuni dei più famosi, ma l’elenco potrebbe continuare. Anche chi rimane volutamente ai margini del mercato, come i Tale of Tales, raggiunge una certa notorietà. I loro The Graveyard (2008) e The Path (2009) sono alquanto chiacchierati, anche da parte di persone che non li capiscono o non li considerano dei videogiochi.
Questo mondo trova la sua consacrazione nel documentario Indie Game: The Movie del 2012, che segna però anche i limiti di questo modello. Si afferma infatti l’immagine dello sviluppatore-genio che, sfidando le norme del settore, riesce a raggiungere il successo. Questo immaginario, alimentato da Indie Game: The Movie e da molte altre narrazioni analoghe, sul lungo periodo ha generato un malinteso. I creatori dei videogiochi sopra citati hanno ovviamente un grande talento, ma hanno anche potuto sfruttare un mercato estremamente favorevole, con pochissima competizione. Giusto per dare un’idea, nel 2010 sono stati pubblicati su Steam poco più di 300 videogiochi. Tenendo conto della suddivisione tra vari generi e dei “tripla A”, la concorrenza per un “indie artistico” è quasi inesistente. L’anno scorso, sempre su Steam, sono stati pubblicati oltre 14.000 videogiochi e ovviamente continuano a essere venduti anche quelli pubblicati negli anni precedenti. Molti sviluppatori che hanno iniziato in seguito non hanno compreso (o lo hanno fatto troppo tardi) questo progressivo cambiamento in atto e sono rimasti ancorati all’immagine del genio indie che domina il mercato grazie alla sola forza delle proprie idee. E intanto, appena un paio di anni più tardi (nel 2014), si arriverà a parlare di una indiepocalypse in corso. Ma ci arriveremo tra poco.
Il successo dei videogiochi sopra citati porta a un gran numero di riflessioni sul concetto stesso di indie. Per i meno attenti, questo momento corrisponderebbe alla nascita stessa del videogioco indipendente, per cui c’è chi sente il bisogno di ripercorrere la precedente storia dell’indie gaming (come ha fatto per esempio Bennett Foddy in un talk all’IndieCade 2014). Sul fronte accademico, il journal canadese «Loading…» dedica un numero monografico del 2013 proprio agli indie, i cui articoli sono tutt’ora spesso citati. Anche molti developer esprimono la propria visione. Il 2012 è l’anno del già citato Rise of the Videogame Zinesters di Anna Anthropy e del – sempre già citato – intervento di Paolo Pedercini de La Molleindustria. L’anno prima, Brandon Sheffield aveva scritto (in un editoriale per «Game Developer Magazine»), che il termine indie aveva ormai perso il suo significato. Per cui, mentre le produzioni come Indie Game: The Movie veicolano una determinata immagine di “indie”, gli addetti ai lavori e gli accademici si pongono sempre più interrogativi su un’etichetta che appare sfuggente, difficile da definire. Senza dimenticare che, tra il 2010 e il 2014, è apparso un altro importante cambiamento che ha plasmato il successo delle produzioni indie, partendo da alcuni generi specifici.
2010-2014: arrivano gli youtuber
Possiamo dire che il gaming su YouTube nasce realmente solo nel 2010. Prima di allora, i contenuti dedicati ai videogiochi erano pochi, sparpagliati e soprattutto privi di due componenti che sarebbero diventate fondamentali: la presenza nel video di volto e voce del giocatore di turno. Due elementi necessari per mostrare le reazioni emotive (spesso decisamente sopra le righe) degli youtuber, che hanno iniziato ad attirare un pubblico crescente di fan. Queste loro reazioni funzionavano particolarmente bene in presenza di emozioni forti come rabbia e paura. E, per un caso fortuito, i videogiochi indie erano i migliori per entrambe. Ho già toccato l’argomento più e più volte, soprattutto a proposito degli horror, da un’analisi sui jumpscare a una storia dei videogiochi horror e a un articolo accademico (in inglese) su questa influenza reciproca tra youtuber e horror indie. A cui possiamo aggiungere anche un contributo sui cosiddetti rage games, quelli utilizzati per mostrare reazioni rabbiose e incontrollate. Qui mi limito a ripercorrere brevemente i punti principali del discorso.
Il genere dei survival horror è probabilmente il primo ad aver visto delle modifiche concrete dovute all’avvento degli youtuber di gaming, non solo in termini di vendite ma anche per logiche produttive. In un mercato mainstream in cui gran parte delle produzioni horror era sempre più ibridata con action e sparatutto, il successo del decisamente più contenuto Amnesia: The Dark Descent (2010) ha prodotto un discreto scossone. Amnesia si presta molto meglio di un action ad ambientazione horror per far fare i “salti sulla sedia” allo youtuber di turno, e questo è stato un elemento di grande importanza nel decretare il successo del gioco (come indicò lo stesso Thomas Grip, uno dei creatori del gioco). Un altro fattore determinante fu il modding, che ha sempre ben caratterizzato la scena indie.
Gli emergenti youtuber di gaming hanno fame di videogiochi simili ad Amnesia. Ne hanno bisogno per alimentare i loro canali e si lanciano a capofitto su tutto ciò che trovano, tra cui videogiochi preesistenti (come i Penumbra, della stessa Frictional Games di Amnesia, che non a caso alcuni considerarono erroneamente come dei seguiti di quest’ultimo) e titoli solo in apparenza riconducibili al survival horror (come il famoso Gone Home del 2013 e l’italiano Anna del 2012). Nel frattempo avviene un processo analogo sul fronte dei rage games, in cui giochi come Super Meat Boy fanno da apripista.
Tutto ciò appare come una grande e ulteriore opportunità, agli occhi di molti sviluppatori indie. All’interno dei negozi online la competizione è in crescita, ma grazie agli youtuber è possibile sfruttare un nuovo e potentissimo mezzo per raggiungere un ampio pubblico. Ed è possibile farlo con dei videogiochi poco costosi, alla portata di un piccolo team o anche di un singolo sviluppatore. Non c’è bisogno di creare un rivale di Resident Evil, se le persone chiedono a gran voce qualcosa di simile ad Amnesia. E in effetti alcuni dei più grandi successi del periodo sono videogiochi decisamente “piccoli”. Uno di questi è Slender: The Eight Pages (2012), che riesce a creare un’esperienza spaventosa con pochissime risorse e molta creatività (lo ha spiegato bene Chris Pruett in una sua breve ma significativa analisi del gioco). E un altro grande successo è Five Nights at Freddy’s (2014), realizzato da Scott Cawthon, che con alcuni accorgimenti è riuscito a far sembrare gli animatronics del gioco ben più intelligenti di quanto non fossero nella realtà. Due produzioni che riescono a ottenere tanto con poco. Ed entrambe hanno un successo travolgente. Un gran numero di sviluppatori comincia a produrre “cloni” di questi videogiochi, nella speranza di farsi conoscere grazie a qualche youtuber, ma anche questo mercato si sta rapidamente saturando.
Per Amnesia, la presenza degli youtuber ha aperto un fronte inaspettato, con pochissima concorrenza, che fino a quel momento nessuno aveva pensato di sfruttare. Nel 2015 (l’anno dopo l’uscita di Five Nights at Freddy’s) avere il proprio gioco su YouTube è una condizione necessaria (e non sempre sufficiente) per poter perlomeno sperare di ottenere un buon successo. Non è più l’arma segreta, è diventato il nuovo standard. Questo passaggio emerge molto bene se si va a vedere The Indie Game Developer Handbook, un libro pubblicato da Richard Hill-Whittall proprio nel 2015. È un testo molto pratico, pieno di consigli per gli sviluppatori indie. E l’autore parla dell’importanza degli youtuber per far conoscere il proprio gioco. Un’importanza ormai superiore a quella della stampa. Inoltre, al fianco di questa oggettiva crescita della competizione, va detto che molti sviluppatori hanno tentato di giocare al ribasso, proponendo delle pigre copie di Amnesia, di Slender o di qualche altro grande successo, infarcendoli di jumpscare casuali. Una tattica di corto periodo che poteva funzionare tra il 2010 e il 2011, considerata la generale penuria di horror “alla Amnesia”, ma che diventa sempre più insensata col passare del tempo.
È infatti arrivata la cosiddetta Indiepocalypse.
2014-2015: l’apocalisse degli indie
Tra il 2014 e il 2015 si è parlato di una “Indiepocalypse”, un’apocalisse che avrebbe spazzato via i videogiochi indipendenti, minacciati su più fronti da un mercato sempre più saturo e complesso, pieno non solo di validi competitor ma anche di un gran numero di “robaccia” che rende difficoltoso farsi conoscere sugli store online. Vale la pena recuperare alcune delle posizioni che sono state espresse su questa Indiepocalypse.
Una di queste è del già citato Paolo Pedercini de La Molleindustria, che ha proposto nel 2017, un paio di anni dopo l’esplosione del discorso. Nel suo intervento, Pedercini dice per prima cosa che la crescita esponenziale dei videogiochi indie è per lui una grande vittoria. È la prova che lo sviluppo dei videogiochi è più accessibile e non è più nelle mani di pochi gruppi di potere. La democratizzazione dello sviluppo si è verificata. Tuttavia, in un simile scenario non mancano alcuni problemi. Per prima cosa, il superamento delle vecchie forme di gatekeeping hanno generato nuovi problemi: in assenza di un controllo in entrata su ciò che viene pubblicato, gli store online finiscono per riempirsi di robaccia e a volte di palesi truffe o prodotti controversi. Senza contare che sono nate nuove forme di gatekeeping, diverse dalle precedenti. Per esempio la logica algoritmica dei motori di ricerca, delle indicizzazioni, delle categorie con cui vengono etichettati e suddivisi i videogiochi sugli store. Il banco vince sempre, come direbbe qualcuno. I gruppi di potere continuano a esercitare un controllo dall’alto. È solo cambiato il modo con cui lo fanno. Per cui se da un lato è possibile gioire e non preoccuparsi troppo per l’aumento dei videogiochi, dall’altro bisogna riconoscere che ci si trova facilmente in balìa di queste nuove forme di gatekeeping.
Tornando invece indietro di un paio di anni, ci sono almeno un paio di interventi che vale la pena segnalare, per comprendere al meglio i discorsi fatti sull’Indiepocalypse. Uno di questi è stato pubblicato nel 2015 da Ryan Clark, che in quello stesso anno aveva pubblicato Crypt of the Necrodancer. In quel periodo c’è una generale preoccupazione per il futuro dell’indie, ma per Clark l’Indiepocalypse sarebbe solo un mito. Il suo articolo si apre con un elenco che riporta i cinque principali discorsi che vengono fatti quando si parla di questa apocalisse indie. Cinque punti che va poi a contestare. Vale la pena riportarli:
Troppa concorrenza. Il ricavo medio per gioco si abbassa. Pubblicare su App Store è un massacro. Anche gli indie più “grossi” e solidi possono fallire. Ci sarà un’inevitabile crescita nei budget, stando a ciò che si vede coi cosiddetti “tripla I” (espressione modellata sui “tripla A” per definire i progetti indipendenti con un budget elevato).
Secondo Clark, l’ondata di videogiochi in arrivo su Steam non è certo una catastrofe. Un gran numero di quei videogiochi è infatti robaccia di bassa qualità, che raccoglie ben poco interesse. Qui in mezzo ci sono alcune vere e proprie truffe (un caso significativo fu Journey of the Light), al fianco di tutti quei prodotti identici tra loro fatti con l’asset flipping (sono quei giochi che utilizzano i premade assets generici senza apportarvi alcuna modifica), al fianco di giochi che sono semplicemente scadenti o poveri di contenuti. Certo, può esserci qualche rara occasione in cui un gioco del genere viene spinto dall’algoritmo, oppure in cui un gioco brutto viene particolarmente apprezzato e diventa uno di quei cosiddetti so bad, so good (un esempio su Steam è stato Bad Rats: the Rats' Revenge) ma queste sono delle eccezioni. Nella norma, la maggior parte di questi giochi è solo rumore di fondo e non bisognerebbe vederli come degli avversari, se si è realizzato un prodotto di qualità. Anzi, è stato proprio l’aumento dell’offerta a relegare nell’ombra questi videogiochi. Un brutto horror “stile Amnesia” avrebbe comunque potuto farsi conoscere, nel 2011, per mancanza di una valida competizione, ma non ora. Certo, anche i prodotti di qualità sono aumentati, per cui la competizione è cresciuta, ma si parla di numeri decisamente più ristretti rispetto al totale dei videogiochi pubblicati su Steam. E, come segnala Clark, questa è una competizione positiva, perché sprona a migliorare il proprio prodotto e a renderlo più interessante.
Ryan Clark parla anche del mercato mobile, che fin qui non abbiamo approfondito (anche perché richiederebbe una storia a sé). App Store (e Play Store) hanno vissuto prima e più di Steam un’enorme saturazione ed è diventato difficilissimo far emergere il proprio videogioco al loro interno. Per cui molti hanno pensato che anche Steam e gli altri store online avrebbero avuto in un tempo più o meno breve la stessa evoluzione. Tuttavia, Clark ricorda che ci sono alcune differenze sostanziali, in termini di pubblico e di abitudini di consumo, per cui non condivide questa preoccupazione.
I videogiochi presenti su App Store e Play Store vengono spesso percepiti come semplici riempitivi per i tempi morti da parte di molti utenti casual per cui i risultati spinti dall’algoritmo (sulla home page o all’avvio di una ricerca) hanno effettivamente un vantaggio significativo. La home page di Steam avrebbe invece una funzione di “promemoria”, più che altro, poiché potrebbe mostrare l’uscita di un videogioco di cui già si conoscevano alcune informazioni, derivate da anteprime, articoli e video. Vi consiglio comunque di dare un’occhiata al suo articolo per vedere come ha analizzato quei cinque punti.
Più o meno nello stesso periodo viene anche pubblicato un articolo di Sergiy Galyonkin di Steam Spy, meno ottimista di Ryan Clark ma comunque pronto a contrastare alcune paure che reputa eccessive. Per prima cosa, Galyonkin ricorda che la storia del medium videoludico ha già affrontato dei momenti di crisi, ma nessuno di questi ha portato a una completa apocalisse.
Secondo Galyonkin, le condizioni che hanno portato alla crisi attuale sono tre: disruptive technology, low barrier of entry e lack of differentiation.
Il primo dei fattori scatenanti riguarda la presenza di numerosi engine e tools gratuiti o poco costosi, oltre che molto facili da padroneggiare almeno nelle loro funzioni basilari. Senza dimenticare la possibilità di acquistare assets premade per cifre spesso irrisorie (e spesso vengono anche scaricati illegalmente, senza nemmeno pagare). Il secondo punto risulta strettamente correlato al precedente: con un assottigliamento delle barriere legate a competenza e disponibilità economica emergono numerosi aspiranti sviluppatori, i quali pubblicano i propri videogiochi anche grazie all’abbassamento di una barriera ulteriore, quella legata al controllo effettuato sugli store. Steam non ha alcun interesse a “tagliar fuori” un semplice prodotto di scarsa qualità. Al massimo interviene a posteriori in casi particolarmente problematici (come fu con il Journey of Light citato in precedenza).
I due punti sopra indicati si trascinano dietro il terzo. Se un gran numero di persone può sviluppare videogiochi, in breve tempo e magari utilizzando assets già pronti, la presenza di “cloni” tenderà ad aumentare esponenzialmente. E non si tratta soltanto dei “cloni” videoludici tradizionalmente intesi, cioè quei prodotti che ripropongono le meccaniche di un recente successo in un contesto differente (per esempio il gran numero di FPS sviluppati dopo l’uscita di Doom). In alcuni casi si tratta di videogiochi quasi del tutto identici in qualsiasi aspetto, fino al caso estremo in cui differenti sviluppatori costruiscono videogiochi a partire da uno stesso livello premade di un determinato asset pack, andando a generare videogiochi che sono minimali variazioni di una stessa base.
Non si tratta peraltro di una situazione esclusiva del panorama videoludico. Galyonkin pone il paragone con la fotografia, in cui una situazione analoga ha prodotto una percezione differente e, di conseguenza, differenti pratiche. Qualsiasi possessore di uno smartphone può fare foto ed essere in una certa misura un “fotografo”, ma la maggior parte delle persone non scatta foto in cerca di un profitto, lo fa come “amatore”, per divertirsi o per conservare dei ricordi. Non per questo è infatti avvenuta la ‘morte’ dei fotografi professionisti, o la scomparsa delle foto artistiche, pur con le difficoltà di un ambiente competitivo.
Ciò che, al momento, sembra esser poco presente nel panorama videoludico, rispetto alla fotografia, è l’ottica dello sviluppo “amatoriale” di videogiochi, il che non è sinonimico di uno sviluppo “indipendente”. Molti dei videogiochi che gli youtuber deridono nei loro video sui “giochi brutti” sono prodotti amatoriali, attività portate avanti come hobby, per passione, che possono eventualmente fornire competenze e contatti per avviare in seguito una serie di operazioni commerciali, ma che difficilmente potrebbero inserirsi in un mercato competitivo. Eppure molti videogiochi, anche se assolutamente amatoriali sono inseriti negli stessi circuiti distributivi delle grandi produzioni, come avviene su Steam.
Pur con visioni differenti, Clark e Galyonkin la pensano allo stesso modo su diversi aspetti del “fenomeno Indiepocalypse”. In particolar modo, entrambi analizzano la funzione percepita di Steam. Molti sviluppatori indie, infatti, pensano a Steam come a una vetrina o un meccanismo di scoperta. E per quanto Steam possa essere anche queste cose, non è l’approccio corretto, perché significa aspettarsi che sia Steam a promuovere e a far conoscere il proprio videogioco. Questo poteva essere vero nei primi anni della piattaforma, semplicemente perché il numero di prodotti al suo interno era molto più basso.
La situazione dell’indiepocalypse allora, più che generare un problema, avrebbe semplicemente reso evidente una situazione già operativa. Clark riconosce che in passato, in presenza di un numero molto più contenuto di videogiochi in un determinato ambiente, fosse possibile che dei prodotti di scarsa qualità ottenessero un successo considerevole, per una serie di circostanze fortuite. Il crescente numero di videogiochi avrebbe invece annullato o perlomeno ridotto questa possibile circostanza, legata alla casualità, portando a una maggior selezione qualitativa.
Gli sviluppatori, ancor più che in passato, devono promuovere il proprio videogioco, farlo conoscere, progettarlo per la diffondibilità. E, ricorda Galyonkin, le opzioni sono in tal senso molteplici e in alcuni casi gratuite o a basso costo. Pur nella difficoltà dell’operazione, essa appare comunque più semplice ed economica rispetto al passato, avendo a disposizione un gran numero di youtuber, pagine social, siti, community e tanto altro. La saturazione dell’Indiepocalypse, in tale ottica, sarebbe allora in primo luogo un invito alla riorganizzazione, piuttosto che una effettiva e drammatica apocalisse. Una riorganizzazione che in primo luogo passa dal ripensamento delle proprie strategie distributive, della dimensione economica del progetto e elementi analoghi. Ma ancor più una riorganizzazione di quelli che sono i punti di forza dei propri videogiochi, e soprattutto come devono essere trasmessi e comunicati.
Gli ultimi anni
Per molti aspetti, il panorama delineato tra il 2014 e il 2015 ha continuato a svilupparsi. I videogiochi pubblicati sulle piattaforme sono ancora più di prima, la competizione è cresciuta e vince chi riesce a far conoscere al meglio il proprio videogioco. Cosa che non è affatto scontata e che richiede una attenta comprensione del proprio pubblico. Nemmeno il possesso di grandi budget da spendere in marketing e comunicazione garantisce il successo di un prodotto e anche molte produzioni “tripla A” possono fallire miseramente. L’unica garanzia rimasta è la stretta relazione con il proprio pubblico. Bisogna capire che cosa desidera una particolare nicchia di giocatori, realizzare un prodotto che sia di loro interesse e mantenersi il più possibile in contatto diretto con loro. Oppure si abbandona qualsiasi prospettiva commerciale e si sviluppa ciò che si desidera, magari caricando su Itch.io il proprio gioco.
A proposito di Itch.io, quest’ultimo è diventato per molti la nuova sede dei progetti indipendenti, soprattutto quelli che non vogliono o non possono inserirsi nel mercato competitivo. È diventato la piattaforma degli indie perché è DRM-free, permette di scegliere la percentuale che si vuole ottenere dalle vendite e offre opzioni pay what you want.
Detto ciò, molti degli sviluppatori attivi su questa piattaforma sono comunque alla ricerca di un modo per monetizzare i propri giochi, magari tentando delle vie alternative rispetto alla vendita. Anche in questi casi, la situazione è complessa. Kickstarter, che per un breve periodo è apparso come la panacea contro tutti i mali, ha ben presto mostrato i suoi limiti e bisogna capire se e quando ha senso sfruttarlo per un videogioco (funziona mediamente meglio in altri settori, come quello dei giochi da tavolo). Molti hanno anche tentato la via di Patreon (o sistemi analoghi con supporto periodico), ma in generale è un sistema che non porta grandi risultati agli sviluppatori. Genera dei risultati interessanti solo in alcuni, specifici casi. Uno di questi è l’individuazione di una nicchia di appassionati che vuole una certa tipologia di videogiochi ma il mercato non glieli fornisce. Il che è una situazione alquanto rara, come intuibile, ma qualche caso c’è (i videogiochi in cui si gestisce un maneggio, per esempio, sono pochissimi, in larga parte pensati per bambine e mal fatti, per cui c’è chi ha saputo sfruttare questo buco di mercato). Un altro caso in cui Patreon funziona piuttosto bene è il mondo dei videogiochi erotici, sia vanilla sia legati a qualche “gusto” specifico.
Questo discorso sulle modalità di autofinanziamento ci riporta ancora una volta a osservare la retorica alla base dell’indie gaming di cui abbiamo parlato in apertura. Nella scelta stessa del termine, viene suggerita una contrapposizione radicale rispetto all’industria mainstream. Eppure, in molti casi, il cosiddetto mondo indie non fa altro che replicare le stesse logiche del mercato mainstream. Solo che lo fa con team più piccoli e con meno soldi. E anche quando tenta di percorrere altre strade si imbatte in numerose contraddizioni. Come hanno sottolineato Maria B. Garda e Paweł Grabarczyk in un loro contributo del 2016, c’è molta differenza tra l’indipendenza creativa, quella distributiva e quella legata ai finanziamenti. Talvolta queste tre aree possono coesistere all’interno di un videogioco. In molti altri casi questo non avviene. Per esempio, un team potrebbe autofinanziarsi e autopubblicarsi, andando però a sacrificare la propria indipendenza artistica per rispondere ai gusti del mercato.
Bisogna anche ricordare che – se l’indie va definendosi in contrapposizione al mainstream – la continua mutazione del mainstream va in linea di massima a modificare, per differenziazione, la percezione dell’indie.
Vale per esempio la pena osservare questi due mondi durante il periodo in cui il Metaverso è apparso come la next big thing e molti hanno investito in esso. Come emerso da un report (State of the Game Industry 2023) che ha coinvolto oltre 2300 sviluppatori di videogiochi (di cui il 39% si è identificato come lavoratore di uno studio indipendente, mentre il 23% ha detto di lavorare per un grande studio che realizza “tripla A”), la sfiducia verso il Metaverso è piuttosto diffusa tra chi fa videogiochi. Il 45% dei partecipanti ha espresso un forte scetticismo, ritenendo che il concetto di Metaverso non potrà mai concretizzarsi e le sue promesse non saranno mantenute. Secondo altri, ciò che più si avvicina al Metaverso sono esperienze come Fortnite o Minecraft. Il report ha anche evidenziato una certa sfiducia nei confronti di NFT (Non-Fungible Tokens) e crypto. Effettivamente, negli ultimi anni si è visto il loro inserimento all’interno di diversi progetti perlomeno problematici, che talvolta erano vere e proprie truffe o sistemi piramidali. Tutto ciò ha abbassato la fiducia di diversi sviluppatori.
È ancor più significativa la presa di posizione di Itch.io – che, come detto, è diventato per molti la nuova “casa” degli indie – nei confronti degli NFT. In una dichiarazione pubblica, Itch.io ha espresso preoccupazioni riguardo agli NFT, definendoli “uno scam” e sottolineando il loro impatto negativo sull'ambiente e sulla cultura dei videogiochi. Itch.io ha anche annunciato che non supporterà progetti che coinvolgono NFT sulla loro piattaforma.
Per cui l’indie gaming mostra, in larga parte, un approccio “resistente” e “oppositivo” al Metaverso, agli NFT e alle crypto (tre elementi che peraltro sono stati spesso collegati tra di loro) e vanno talvolta ad attaccarli esplicitamente utilizzando la parodia e lo scherno, come si vede in videogiochi come questo. È diverso il discorso sull’IA, che mostra un fronte molto più sfaccettato. Da un lato, c’è chi ripudia l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale e lo combatte attivamente, schierandosi in difesa della creatività artistica individuale. Dall’altro c’è chi vede l’IA come un facilitatore che darà modo a un maggior numero di persone di realizzare il proprio videogioco. Grazie all’IA è infatti possibile realizzare asset grafici e sonori, tradurre testi e anche farsi aiutare con la programmazione (banalmente, chiedendo a ChatGPT come ottenere un determinato risultato con un linguaggio di programmazione). Siamo davanti a un altro momento di disruptive technology e low barrier of entry, ancor più forte rispetto a quel che si è visto in precedenza, con tutti i suoi pro e i suoi contro. A meno che non vengano fermati per questioni giuridiche, ma sarebbe un intervento esterno alle logiche del settore.
Per concludere, non è mai stato così facile realizzare un videogioco. Quel che risulta molto meno facile è realizzare un videogioco di successo.
Letture consigliate
Anthropy A. (2012): Rise of the Videogame Zinesters: How Freaks, Normals, Amateurs, Artists, Dreamers, Drop-outs, Queers, Housewives, and People Like You Are Taking Back an Art Form
Cugliandro C., Lupetti M. (2021): L’impatto di Steam sui videogiochi indipendenti, in L. Papale, F. Toniolo (a cura di), Valve Corporation. Videogiochi, visioni e virtuosismi di un’azienda rivoluzionaria, Biblion, Milano 2021, pp. 171-183.
Diver M. (2016): Indie Gaming. The Complete Introduction to Indie Gaming, London, LOM Art.
Garda M.B., Grabarczyk P. (2016), Is Every Indie Game Independent? Towards the Concept of Independent Game, in “Game Studies. The International Journal of Computer Game Research”, 16, 1.
Ruffino P. (2013): Narratives of independent production in video game culture, in “Loading... The Journal of the Canadian Game Studies Association”, 7, 11, pp. 106-121.
Ruffino P. (2021): Independent Videogames. Cultures, Networks, Techniques and Politics, New York – London, Routledge.
Sheffield B. (2011): Declaration Of Independence. What Is An Indie Today? Does The Term Even Matter Anymore?, «GDM. Game Developer Magazine», february 2011, p. 2.
Suvilay B. (2018): Indie Games. Histoire, artwork, sound design des jeux video indépendants, Paris, Bragelonne.
Wilson J. (2005): Indie Rocks! Mapping Independent Video Game Design, «Media International Australia», 115, 1, pp. 109–122.
Pubblicato il: 19/11/2024
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