WREN BRIER, LA CREATRICE DI UNPACKING

Unpacking si è manifestato sugli store digitali a novembre 2021, dopo circa tre anni di sviluppo durante i quali era già salito agli onori della cronaca grazie ad alcuni post sui social diventati virali.

Raro caso di gioco dalla personalità veramente unica, mi ha fatto subito innamorare e ci ho giocato con gran gusto godendomelo assieme a mia figlia, che per altro a distanza di anni ancora ogni tanto chiede di rimetterci mano per riordinare stanze e mostrarlo alle amiche. 

Per questo motivo, quando ne ho avuto occasione, mi sono lanciato sulla possibilità di incontrare la direttrice creativa Wren Brier, e farmi raccontare la sua storia e qualche aneddoto sullo sviluppo del gioco. E farle registrare un video di saluti per mia figlia, che fa sempre scena.

Brier è sempre stata interessata ai videogiochi: “Avevamo un vecchio computer, un Pentium qualcosa, e lo usavo per giocare. Ricordo che a sei anni provai a giocare a Wolfenstein senza capirci nulla ma divertendomi comunque un sacco. A otto anni arrivò il Nintendo 64 e lì mi innamorai davvero dei videogiochi. Prima con Mario 64 e poi innamorandomi definitivamente con Banjo & Kazooie.” Il platform game di Rare fu il primo vero e proprio colpo di fulmine videoludico per Wren, che ci si appassionò in maniera spasmodica, andando a trovare ogni singolo, minuscolo segreto. E a quel punto, divenne una giocatrice fedelissima per la vita alle console Nintendo. Ma, aggiunge, “a me piacciono tanti generi di gioco diversi. La gente vede le cose su cui ho lavorato e dà per scontato che mi piaccia solo un determinato genere di cose ma, per quanto mi piacciano, amo anche The Binding of Isaac, un gioco particolarmente stressante. Ho amato un sacco Metroid Dread, anche se mi ha fatto urlare allo schermo più di una volta. E di recente ho trovato delizioso Tunic. Trovo bellissimo che si possa avere una così grande varietà di esperienze, dai giochi più tranquilli e rilassanti a roba più scatenata e stressante.”

Per quanto riguarda la carriera professionale, ci è voluto un po’ per arrivare ai videogiochi: “Sulle prime pensavo che avrei lavorato nel cinema d’animazione. Ho frequentato l’università con quell’obiettivo in testa ma seguendo un corso dedicato all’intrattenimento interattivo, quindi ai videogiochi.” Esprimendo un pensiero comune a tanti sviluppatori con cui ho avuto modo di chiacchierare negli anni, Wren mi spiega che non sapeva nemmeno che lavorare nei videogiochi fosse un’opzione. Ma messa di fronte all’evidenza dei fatti, si convinse a provarci, pensando che l’animazione potesse costituire un buon punto d’ingresso.

Resasi però conto di non avere la pazienza necessaria ad occuparsi di animazioni, iniziò a prendere in considerazioni altri ruoli. Purtroppo, la tempistica non aiutava: “Dopo la laurea, non era un periodo ideale per cominciare, a causa della crisi economica in Australia e dell’esplosione del fenomeno dell’outsourcing.” Oltre alla difficoltà nel trovare un lavoro, Brier dovette confrontarsi anche con la pressione da parte dei genitori, che (a proposito di storie frequenti nel settore) temevano si stesse infilando in un settore senza grosse prospettive. “Poi, però, ho trovato un posto come general artist a Hafbrick Studios, a Brisbane, i creatori di Jetpack Joyride e Fruit Ninja. Io sono arrivata dopo l’uscita di quei due successoni, lavoravo nel team dedicato alle live ops, e ho lavorato lì per due anni e mezzo, soprattutto su Jetpack Joyride.” 

Durante quel periodo, Brier ebbe l’occasione di lavorare su giochi centrati sull’approccio visivo in pixel art e familiarizzare quindi con le specificità di quell’estetica. Ed è infatti uno stile che ha potuto riprendere e applicare al suo primo progetto da sviluppatrice indipendente, intrapreso perché all’interno di uno studio come Halfbrick non sentiva di avere i margini di crescita personale che cercava. Ma come è stato concepito Unpacking?L’idea è nata quando il mio partner (Tim Dawson) ha traslocato per venire a vivere con me. L’ho aiutato a impacchettare tutto a casa sua, poi abbiamo spacchettato da me e ci siamo resi conto che era un’attività per certi versi molto giocosa. Prendi cose da una scatola e la svuoti, sbloccando la scatola che si trova sotto, che è un tipo di progressione molto da videogioco. E poi stavamo impilando oggetti sugli scaffali in stile Tetris, con la sensazione di stare risolvendo un puzzle. E ancora, sei lì che completi set di vestiti mano a mano che svuoti le scatole. Un sacco di azioni e di termini che hanno proprio il sapore dei videogiochi. Ci è sembrato ovvio: poteva essere un videogioco.”

Inizialmente, l’idea era solo quella di mettere assieme una sorta di puzzle game zen, ma poi, passando in rassegna oggetti, vestiti, soprammobili, i due si sono resi di quanto quel che ti porti o non porti dietro durante un trasloco possa raccontare chi sei come persona. Di fatto, mi spiega, il contenuto degli scatoloni fa narrazione ambientale esattamente come quello che si trova in giro nelle ambientazioni dei videogiochi.

“È buffo, il mio partner, soprattutto, ha la testa veramente focalizzata sui videogiochi, li vede dappertutto. Parliamo spesso filtrando le cose attraverso un’ottica da videogioco. E quindi fare qualcosa di banale come svuotare scatole, se visto in quella maniera, può diventare un gioco, nel momento in cui vi inserisci i verbi dei videogiochi. E poi, più avanti, abbiamo ragionato su come raccontare la storia di un personaggio attraverso vari traslochi nel corso del tempo.” Per un po’, Brier aveva chiare diverse svolte narrative ma non sapeva come concludere il racconto. L’idea di inquadrare Unpacking come storia generazionale è arrivata da Tim. “E mi è sembrata subito l’idea giusta.” 

In pratica, la preproduzione di Unpacking si è svolta attraverso l’analisi di un trasloco reale e a quel punto, prima ancora di iniziare davvero lo sviluppo, Wren e Tim avevano già ben chiara in testa l’intera struttura del gioco. Ma ovviamente mettere assieme una fra le più belle sorprese apparse sulla scena indie negli ultimi anni non è stato così semplice e immediato. Alla base del gioco c’è una frizione affascinante tra l’intenzionalità del giocatore e quella del narratore. Quando apri quegli scatoloni cliccando in giro, è inevitabile avere l’istinto di posizionare gli oggetti come lo faresti nella vita reale, ma a un certo punto ti rendi conto che alcune scelte sono guidate dalla narrazione o dalla caratterizzazione forzata degli ambienti, e magari vanno in contrasto con le tue idee. Come trovare un equilibrio fra queste due forze che si scontravano “Costituiva un grosso interrogativo per noi. Avevamo dei pilastri di design, principi guida che determinano il tono e la direzione del gioco per guidarne lo sviluppo. Per noi erano contemplazione, scoperta ed espressione. La parte di contemplazione e scoperta è quella per cui scopri cose sul personaggio e capisci dove vorrebbe mettere le sue cose, che va in conflitto con la tua espressione personale e il desiderio di piazzarle dove ti pare. Ma ci siamo resi conto che era un bel conflitto, alla gente piaceva mettersi nei panni del personaggio e diventare una sorta di ibrido. Alcune persone giocavano più di ruolo e altre se ne fregavano di certe passioni del personaggio e nascondevano le cose nell’armadio. Ma in linea generale abbiamo visto che ai giocatori piaceva cercare di comprendere la mentalità del personaggio e magari poi aggiungerci qualcosa di proprio.

Alcuni fra i momenti migliori del gioco nascono proprio da questa frizione e nel chiacchierarne è inevitabile pensare a quel passaggio in cui non sai dove andare ad appendere la laurea incorniciata. Confesso a Wren che quel momento mi ha fatto riflettere e ripensare alle mie prime esperienze di coabitazione, quando a non lasciare spazio per la laurea ero proprio io. Non che non me ne fossi mai reso conto prima, ma rivivere quel tipo di sensazione attraverso lo sguardo di chi subisce quella cosa è stato rivelatorio. “Questa cosa me l’hanno detta diverse persone,” mi ha confessato Wren. “Ed è veramente bello sapere che ci sono persone che grazie al nostro gioco hanno rivalutato loro azioni passate e deciso di provare a migliorarsi. È una cosa che è nata ragionando sulle meccaniche. Volevamo raccontare di una relazione sentimentale che non funzionava, mostrare come non stessero poi così bene assieme attraverso la gestione dell’appartamento e l’idea di lui che non le lascia lo spazio per le sue cose, anche per una così importante.” Quella trovata, mi ha spiegato Brier, ha costituito anche un modo per insegnare al giocatore le meccaniche in maniera graduale: “Nel livello precedente, hai un appartamento con due coinquilini in cui non puoi spostare le cose degli altri. A quel punto, il giocatore potrebbe pensare che sarà così anche nel livello successivo. Allora, nel livello della coabitazione con partner “difficile”, abbiamo riempito gli spazi in maniera esagerata, per costringere il giocatore a spostare gli oggetti per far spazio per i suoi.

Unpacking ha colpito il settore con un successo oltre le aspettative. Il gioco è diventato velocemente virale ed è stato molto apprezzato da critica e pubblico, vincendo diversi premi e finendo ospitato sul palco della Game Developers Conference con svariati talk per due anni consecutivi. Per Brier e Tim questa ondata di fama improvvisa è stata veramente surreale. Ritrovarsi con davanti gente che ti fissa perché ti conosce in quanto creatrice di un videogioco costituisce un cambio di paradigma significativo per la tua vita. “È una cosa fuori di testa, è bellissimo e onestamente non me lo sarei mai aspettato e di certo non mi sarei mai aspettata di vincere ai BAFTA… Io, poi, che non ho il minimo background in ambito narrativo, o comunque nessun genere di preparazione formale, e non ho esperienze precedenti di scrittura. Sono passata improvvisamente da non essere una narrative designer ad essere una narrative designer premiata ai BAFTA. Diciamo che non so se sarò mai in grado di ripetermi,” mi dice ridacchiando. 

Il premio per la miglior narrazione ai BAFTA è stato interessante e significativo anche perché è la prima (e al momento unica) volta che si è visto riconosciuto in quel contesto un gioco che affronta la narrazione esclusivamente attraverso le meccaniche, senza affidarsi mai a cutscene o comunque a strutture narrative più tradizionali. Si tratta di una tendenza già in essere da qualche tempo nel settore, ma che è, penso, bello iniziare a vedere anche in ambiti meno specialistici. Brier concorda con entusiasmo, riconoscendo che la storia di Unpacking è molto semplice ed evidentemente i suoi pregi narrativi stanno altrove. “È bello,” aggiunge, “vedere che questo genere di design narrativo venga apprezzato, specie ai BAFTA, dove eravamo messi a confronto con giochi dalla storia complessa, raccontata in modo spettacolare e tecnicamente all’avanguardia. Personalmente credo che i videogiochi abbiano ancora un potenziale enorme di cose che si possono fare e che dobbiamo ancora esplorare, quindi è bello far parte di questo movimento per provare ad esplorarle.”

Ma Unpacking si è in qualche modo infilato anche in un altro filone, quello dei cosiddetti “zen game”, che rifuggono volontariamente dallo stress, dalle meccaniche tese e basate sull’azione, sul rischio, sul combattimento. Ho chiesto a Brier a cosa pensa possa essere dovuto questo bisogno di giochi non stressanti e mi ha proposto due motivi: “Uno è l’abbondanza di giochi stressanti, in cui sei costantemente attivo e sotto pressione. E quando c’è un’abbondanza di qualcosa, è normale voler provare ad esplorarne l’opposto. E poi penso che il mondo in cui viviamo sia parecchio stressante, spaventoso. Personalmente sono molto preoccupata per il futuro del pianeta e sicuramente lo sono anche molte altre persone. Pur senza tirare in mezzo il cambiamento climatico, anche solo i social media che ti fanno entrare costantemente in contatto con molto più stress di quanto sei probabilmente in grado di assorbire, quindi è bello avere delle esperienze piccole e tranquille in cui rifugiarsi. “ 

Stiamo giungendo al termine della nostra chiacchierata e chiedo a Wren se si aspettasse dai giocatori il genere di risposta emotiva che Unpacking ha saputo generare. Mi risponde di sì senza la minima esitazione: “Che si tratti di grafica, disegni, videogiochi, quando creo qualcosa, il mio obiettivo è creare connessioni con le persone. Spero sempre che quel che faccio tocchi in qualche modo chi lo riceve, a prescindere che poi venga o meno a dirmelo. È il mio modo di lasciare un segno.”

Pubblicato il: 09/12/2024

Abbonati al Patreon di FinalRound

Il tuo supporto serve per fare in modo che il sito resti senza pubblicità e garantisca un compenso etico ai collaboratori

3 commenti

Bravi ragazzi. Non commento mai ma questo formato di interviste è il mio preferito. Complimenti!!

Giocato, molto piacevole e a tratti emozionante, mentre percorri le varie fasi della vita della protagonista.

info@finalround.it

Privacy Policy
Cookie Policy

FinalRound.it © 2022
RoundTwo S.r.l. Partita Iva: 03905980128