DISASTER REPORT
CATASTROFE INTERATTIVA
Non so quanti se lo ricordano, ma c’è stato un periodo preciso nella storia della televisione italiana in cui l’inizio dell’estate coincideva con la messa in onda di un numero quasi incalcolabile di film catastrofici. I cosiddetti disaster movie hanno colonizzato i palinsesti estivi, occupando i tubi catodici di tutto il paese con le loro assurde storie di terremoti giganteschi e diluvi universali scatenati sulle città di mezza America. Deep Impact, Towering Inferno, Twister, Deep Impact, The Day After Tomorrow, Armageddon…la lista è davvero lunghissima e comprende al proprio interno una quantità incalcolabile di possibili catastrofi naturali raccontate in tantissimi modi differenti tra loro. Piccolo trivia inutile ma simpatico: tecnicamente parlando anche Titanic appartiene alla stessa categoria.
Nonostante si tratti in larga parte di tremende produzioni a basso costo e dalle premesse completamente fuori di testa (pensate a quel gioiello del trash che risponde al nome di Snakes on a Plane per esempio) conservo un ricordo insospettabilmente piacevole di quelle serate. Sono parte integrante della mia infanzia, un piccolo frammento della spensieratezza di quegli anni che forse non riavrò mai più indietro.
Ci ho messo anni prima di rendermene davvero conto, ma quello dei disastri naturali è un tema da cui i videogiochi si sono sempre tenuti stranamente alla larga. Succede spesso di vederli accadere sullo sfondo di titoli di stampo bellico (penso a Battlefield 2042, tanto per citarne uno), ma l’industria non ha praticamente mai avuto la giusta motivazione per investire con convinzione su titoli che rendessero le catastrofi vere e proprie protagoniste delle loro storie.
Il discorso è diverso per quanto concerne infezioni e pandemie, ma quelle sono utilizzate principalmente come gancio da un certo tipo di Horror per mettere in scena situazioni differenti.
Ora immaginate la sorpresa nei miei occhi (io che da bambino ero così ossessionato da Twister da aver comprato un modellino in scala del pick up che compare nel film) di fronte alla copertina di Disaster Report. Sono andato in brodo di giuggiole.
Questa è Criptidi, l’antro di Final Round dedicato a tutti quei videogiochi oscuri e ingiustamente dimenticati che meritano una seconda opportunità.
Ad essere sincero, in realtà, il mio primo incontro con Disaster Report è stato con Kyoei Toshi, un videogioco pubblicato esclusivamente in Giappone che potremmo definire una sorta di strano ibrido tra spin-off ed erede spirituale della serie, in cui anziché mettersi in salvo da terremoti o tsunami bisogna cercare di sopravvivere in una città diventata teatro di una lunga battaglia tra strani mostri giganteschi malvagi, kaiju e mecha schierati dalla parte dei buoni. Il twist è che quei kaiju e quei mecha non sono mostri qualunque, ma vere e proprie icone di serie leggendarie come Ultraman, Godzilla, Gamera, Evangelion e Patlabor. Lo so, meriterebbe una puntata di Criptidi dedicata, però purtroppo non esiste una traduzione amatoriale del gioco, quindi vi tocca aspettare che qualcuno ne pubblichi una o che io impari il giapponese.
Torniamo, però, alla serie madre, in particolare al primo capitolo. Disaster Report nasce da un’idea di Kazuma Kujo, storico sviluppatore di SNK e Irem (si è fatto le ossa lavorando a videogiochi del calibro di In The Hunt, Metal Slug e R-Type). Nascere e crescere in Giappone significa avere un rapporto molto stretto con terremoti e tsunami, si tratta infatti di eventi naturali con cui il paese, essendo una delle zone più sismiche al mondo, ha a che fare da sempre. Dalla leggenda di Namazu, gigantesco pesce gatto che nei miti di fondazione del Giappone si dice sorregga sul proprio dorso le isole dell’arcipelago e che scateni un terremoto ogni volta che si agita nelle profondità marine, fino alla diffusissima credenza secondo cui presto il paese verrà colpito dal Big One, un terremoto così potente che potrebbe addirittura far inabissare le quattro isole maggiori, il Giappone ha imparato a convivere con i terremoti molto presto e in maniera più intima di quanto non possa sembrare dall'esterno.
Tra le numerosissime opere dedicate all’argomento c’è un romanzo di Sakyo Komatsu, Nippon Chinbotsu, che è diventato famosissimo negli anni ‘70. Venne trasposto per il cinema nel 1973 (più recentemente quel piccolo geniaccio di Masaaki Yuasa ha curato Japan Sinks 2020, nuovo adattamento animato), e fu proprio quella trasposizione per il grande schermo a far scattare qualcosa nella testa di Kazuma Kujo. Kujo è uno di quegli sviluppatori a cui non è mai piaciuto particolarmente esporsi e parlare, è un tipo elusivo a cui piace lavorare tenendosi a debita distanza dalle luci della ribalta, ma quando si riesce a chiedergli qualcosa su Disaster Report è impossibile non notare il suo amore per la sua creazione.
Si tratta a tutti gli effetti di un survival game quasi ante-litteram, che mette il giocatore nei panni di Keith (o Masayuki, ma questo ve lo spiego più avanti), un giornalista impegnato a sopravvivere durante uno sciame sismico che si abbatte su Capital City, una gigantesca città situata su un’isola artificiale nel bel mezzo dell’oceano. Quando il primo terremoto si abbatte sull’isola la stravolge, polverizzando istantaneamente palazzi, strade e abitazioni civili senza fare distinzioni di alcun genere. Il governo tenta di mettere in salvo più persone possibili, ma c’è un problema: l’isola sembra essere sul punto di inabissarsi. La prima scossa sorprende Keith mentre si trova sul treno che lo sta portando in città proprio nel momento in cui si trova sul ponte che collega l’isola alla terraferma. È ovviamente una situazione disastrosa, perché il treno deraglia uccidendo un sacco di persone e obbligando Keith a dover raggiungere la città a piedi mentre il ponte ha cominciato lentamente ma ostinatamente a sbriciolarsi intorno a lui.
Seguono ore in cui si è chiamati solamente a trovare il modo di sopravvivere mentre il mondo tutto attorno cade letteralmente in pezzi. Nonostante quello di Disaster Report non sia un engine particolarmente performante (anzi, tutto il contrario), ammetto che fa ancora un certo effetto trovarsi ai piedi dei piloni dell’autostrada sopraelevata quando lo sciame sismico scuote le fondamenta di Capital City.
In Disaster Report si può infatti venire uccisi da qualsiasi cosa: può essere per il crollo di un palazzo, per un incendio divampato senza preavviso, per i detriti sparpagliati in giro dalle scosse più violente o per il livello dell’acqua che si alza costantemente inghiottendo sempre più cemento. La verità è che all’epoca non esisteva alcun videogioco che si impegnasse così tanto nel raccontare una storia di sopravvivenza urbana con così tanta creatività e che cercasse di essere il più fedele possibile a quelli che sono alcuni degli scenari spaventosamente più probabili in caso di disastro naturale.
Dove gli altri costruivano città sempre più grandi per permettere alle persone di “viverle” tramite le console, Disaster Report prende una di quelle città e la trasforma nell’inferno in terra per raccontarne i lati più nascosti e pericolosi.
Disaster Report è orgogliosamente diverso, e si vede.
È anche orgogliosamente giapponese. come dicevo poco fa infatti si tratta di un videogioco profondamente legato alla cultura dei cataclismi del Giappone, nato da una lunga serie di esperienze e ansie comuni e diffuse in tutto il paese. È anche per questo che alterna momenti in cui cerca di essere più fedele possibile alla realtà a momenti in cui non si prende neanche lontanamente sul serio. Penso, per esempio, alla sezione in cui Keith si ritrova a scappare in bicicletta con una donzella seduta sul portapacchi mentre attorno a lui i palazzi crollano facendo piovere dal cielo detriti e container. Questo è uno dei motivi che trovo sinceramente esilarante la altrimenti criminale localizzazione occidentale del gioco: AgeTec l’ha importato come Disaster Report in America e SOS: The Final Escape in Europa, ma ha soprattutto cambiato forzatamente la location del gioco spostandola negli USA. Come? Beh, semplice, ha cambiato i nomi della città e dei personaggi (per questo ho parlato di Masayuki poco fa) ma, soprattutto, ha reso tutti i personaggi principali… biondi. Misteri della localizzazione dell’epoca, ma la trovo una scelta a tratti esilarante, perché è chiarissimo che il gioco sia ambientato in Giappone, visti i conbini, i mezzi pubblici, i veicoli e l’impostazione generale della città che ricorda da vicino le metropoli asiatiche e di sicuro non i grandi centri abitati statunitensi.
Insomma, è un titolo che ci prova fino in fondo, dimostrando tra le altre cose una cura davvero invidiabile per certi dettagli (per esempio se si indossano degli occhiali da sole e si attiva la visuale in prima persona l’immagine si scurisce e viene filtrata dal colore delle lenti equipaggiate). I controlli sono legnosissimi, il frame rate è spaventosamente basso in certe sezioni e spesso le animazioni sono estremamente ingessate, però è un videogioco con delle idee molto chiare e molto affascinanti. Io ho sempre apprezzato moltissimo il fatto che non ci sia una colonna sonora perché rende il tutto estremamente più realistico, al punto che il rombo dei terremoti improvvisi fa effettivamente fare dei piccoli salti sulla sedia. Amo molto anche il fatto che Irem abbia cercato di stratificare la narrativa, inserendo una motivazione molto "umana" tra le cause dell'apocalisse di Capital City. Ebbene sì: anche Disaster Report entra infatti di diritto nella schiera di quei videogiochi in cui il vero cattivo è sempre e solo il capitale.
Kazuma Kujo si è poi spinto oltre con i capitoli successivi, migliorando la formula e spingendosi fino ad inserire delle vere guide di sopravvivenza scritte da esperti del settore che ha poi sparpagliato come collezionabili in giro per il terzo capitolo. Ancora una volta: Disaster Report è giapponese fino al midollo, lo è sempre stato e sempre lo sarà.
È… figo, e funziona, anche se di base è un videogioco senza budget e con degli evidentissimi limiti, oltre che una scrittura super sopra le righe che rende l’esperienza memorabile per certe sue esagerazioni. Anzi, arrivo a dire che secondo me funziona meglio proprio in virtù delle sue evidenti limitazioni, perché se ci fossero stati i soldi per rendere il gioco più realistico e bombastico avrebbe finito per perdere gran parte della sua anima.
Esattamente come i film che hanno accompagnato le mie estati per tanti anni durante la mia infanzia e a cui vorrò bene per sempre. Come ne vorrò a Disaster Report.
Pubblicato il: 10/12/2024
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