INCONTRO CON BRIAN FARGO

Uno fra i padri fondatori dei CRPG

Quello di Brian Fargo è un nome fondamentale nella storia dei giochi di ruolo per PC e, tutto sommato, in quella dei videogiochi occidentali in senso più ampio. Attivo fin dai primi anni Ottanta, ha creato una serie importantissima di quel decennio come The Bard’s Tale e ha fondato Interplay, uno fra i publisher dominanti degli anni Novanta, a cui dobbiamo pietre miliari come Baldur’s Gate, Fallout, Torment e anche tantissimi altri grandi titoli anche al di fuori del suo genere preferito. Il gioco di ruolo occidentale come lo conosciamo oggi, insomma, in un modo o nell’altro deve parecchio al lavoro di Fargo e delle persone con cui negli anni ha scelto di collaborare. Oggi il suo studio inXile Entertainment, diventato interno a Microsoft nel 2018, è al lavoro su Clockwork Revolution, di cui ancora conosciamo poco. In attesa di scoprirne di più, vi racconto la lunga chiacchierata che ci siamo fatti quando l’ho incontrato qualche tempo fa...

Il viaggio di Brian Fargo nel mondo dei videogiochi ha avuto inizio quando era ancora piccolissimo e i suoi genitori gli comprarono un Magnavox Odyssey: “Piazzavi dei fogli di poliesteri sullo schermo della TV, che restavano appiccicati a causa dell'elettricità statica e ti davano un fondale. Al di là di quello, erano solo due palline bianche che si muovevano in giro. Se era un gioco di basket, piazzavi sullo schermo il campo da basket.” Ovviamente non mancarono anche le esperienze in sala giochi, fra Asteroids, Dragon’s Lair e “un gioco di football a cui si giocava usando la trackball”. I videogiochi divennero immediatamente una passione, ma la scintilla creativa esplose esattamente come per tanti altri sviluppatori americani che hanno fatto la storia del settore: con l’acquisto di un Apple II. 

“Fu un cambio di paradigma. Fino a quel momento per me era sostanzialmente magia, apparivano e non avevo idea di come venissero creati. Grazie all'Apple II mi resi conto di come funzionavano le cose e iniziai anche ad approcciare giochi più sofisticati. Ricordo un vecchio wargame di SSI, le avventure testuali di Scott Adams, le avventure grafiche di Sierra e ovviamente Wizardry. L'accesso a un computer cambiò tutto, me ne innamorai subito.”

Fargo iniziò a sviluppare videogiochi da adolescente, quando frequentava le scuole superiori e già aveva chiaro in testa il desiderio di lavorare nell’informatica. Certo, l’idea di potersi guadagnare da vivere sviluppando videogiochi non era ancora una cosa concreta e del resto il settore era un brodo primordiale tutto da definirsi. Però il fuoco della passione era ormai acceso: “Dopo le lezioni, mi infilavo di nascosto nelle aule per usare il PDP-11 della scuola. Insomma, era quello che volevo fare, ma diciamo che io mi considero parte della seconda generazione di sviluppatori di software. La prima generazione dei creatori di software e hardware è quella di gente come Bill Gates o Wozniak e Jobs, che erano i miei idoli. Per questo io mi considero di una generazione successiva.”

Gli suggerisco che lui appartiene alla generazione che ha messo in piedi il mercato dei videogiochi e in questo senso la si può considerare come la prima, e non respinge questa mia idea. Il primo videogioco concreto sviluppato dal Fargo ancora studente fu Labyrinth of Martagon, creato assieme al compagno di studi Michael Cranford, che nel 2018, in un talk alla GDC sulla creazione di The Bard’s Tale, definì Fargo una creatura bizzarra, un atleta popolare a scuola ma anche un nerd, che per questo faceva da ponte fra le due “comunità”. Quando menziono questa cosa a Brian, mi risponde ridendo che è vero: “Giocavo a football ed ero campione di lega nei 100 e 200 metri, mi allenavo per le Olimpiadi ma nel weekend giocavo a Dungeons & Dragons fino alle tre di notte. Diciamo che avevo una grande varietà di interessi e amicizie molto diverse. Ma alla fine la cosa a cui mi appassionai maggiormente furono senza dubbio i videogiochi.” 

Il primo titolo commerciale di Fargo fu il gioco di ruolo The Demon’s Forge, un dungeon crawler in prima persona dalla grafica molto essenziale, che nella sua semplicità ricorda quella dei primi giochi pubblicati da Sierra. Fargo lo sviluppò da studente e lo vendette di persona, infilandone le copie in bustine di plastica chiuse a mano.  

“Così si faceva all’epoca.”

Un paio di anni dopo, Fargo concluse la sua prima esperienza lavorativa nel settore, che si era svolta presso Boone Corporation. Convinto di poter fare di meglio rispetto a un’azienda finita in bancarotta, si unì a Rebecca Heineman, Jay Patel e Troy Worrell, anche loro “superstiti” di Boone Corporation, e col supporto economico di Chris Wells fondò Interplay. “Inizialmente facemmo molto lavoro su commissione: qualche avventura per Activision, alcune cose per l’esercito, conversioni di giochi creati da altri… qualsiasi cosa pagasse le bollette. Il mio primo vero successo commerciale arrivò quando ebbi l’occasione di lavorare con Michael Cranford”. Il suo vecchio amico e compagno di scuola si era laureato ed era poi andato a lavorare come programmatore presso Human Engineered Software. Ma Fargo lo convinse a unirsi alla sua azienda. 

“Ai tempi, giocavamo un sacco a Dungeons & Dragons e amavamo Wizardry, quindi decidemmo di fare il nostro Wizardry… ma a colori. E pensammo di svilupparlo per Commodore 64, perché Wizardry era stato scritto in Pascal per Apple II e il Commodore 64 non era in grado di gestire quel gioco, in quel momento. Quindi, insomma, la nostra idea fu di creare la nostra versione di D&D, in stile Wizardry, su Commodore 64. E ottenemmo un grosso successo!”

The Bard’s Tale venne pubblicato da Electronic Arts e riscosse un successo enorme, generando una trilogia. Interplay si avviò quindi a diventare un nome fondamentale del settore e continuò a sviluppare giochi innovativi e di successo, come per esempio Wasteland, che oggi potremmo considerare una sorta di proto-Fallout. Fargo, però, era insoddisfatto della partnership con EA, perché a fronte del successo riscosso dai giochi, in banca arrivavano relativamente pochi soldi: “Andai a parlare con Electronic Arts del fatto che non potevo certo ottenere risultati migliori rispetto a piazzare un gioco al primo posto in classifica di vendite e quindi, se volevo crescere, avevo bisogno di royalty più alte. All’epoca, gli studi che sviluppavano videogiochi erano ancora molto piccoli, composti anche solo da una o due persone. Archon venne sviluppato da un team composto da marito e moglie. Il mio amico Eric Hammond sviluppò da solo One on One: Dr. J vs. Larry Bird. E quindi, quando vendette qualche centinaio di migliaia di copie, guadagnò uno sacco di soldi. Io dovevo pagare il personale, l’affitto degli uffici, le assicurazioni sanitarie. Stipendiavo degli scrittori, avevo team decisamente più grossi. I progetti erano grossi e ambiziosi, non li poteva sviluppare una persona da sola. Quindi, a parità di copie vendute, si facevano molti meno soldi.”

Electronic Arts respinse la richiesta e Fargo si rese conto di non avere scelta: “Avevo un po’ di soldi da parte e decisi di investirli nello sviluppo di un gioco, pagando quindi per la produzione, il marketing e un 20% sulla distribuzione. Così facendo, invece di guadagnare 3 dollari per copia venduta, ero passato a 20 dollari per copia venduta. C’è una bella differenza. Però, certo, se non avessimo venduto, se avessimo commesso un errore, saremmo andati gambe all’aria immediatamente. 

Per fortuna Battle Chess vendette molto bene.

E a quel punto Interplay partì per la stratosfera, diventando uno fra i publisher dominanti degli anni Novanta e diversificando sempre più il suo portfolio di giochi per provare ad aggredire tutti i generi possibili. “Col senno di poi,” ammette Fargo sorridendo, “forse esagerammo.” 

Durante quegli anni di sperimentazioni e idee folli, a un certo punto Interplay pubblicò perfino due videogiochi di Mario con licenza ufficiale concessa da Nintendo: “Fu una mia idea! Oggi sarebbe sostanzialmente impossibile, ma all'epoca c'era davvero modo di tentare strade creative e rischiose. Io volevo creare tantissimi giochi di ruolo, eravamo pieni di idee, ma servivano soldi, quindi cercavo sempre nuovi modi per tenere a galla l'azienda.” E poi era bello sperimentare in ambiti diversi da quello che costituiva il focus principale di Fargo. In quel periodo il settore dei software educativi stava esplodendo e fra i dominatori del segmento c’era Mavis Beacon Teaches Typing, un programma pensato per insegnare a scrivere con la tastiera. “Venni a sapere che circa metà dell’utenza era composta da bambini e mi chiesi quale potesse essere la miglior licenza al mondo per un software di quel tipo. Approcciai Nintendo e chiesi di poter usare Mario. Specificai che non volevo sviluppare un gioco, anche perché sapevo che non me l’avrebbero permesso, ma proposi di creare un programma per insegnare ai bambini a scrivere con la tastiera. Ne furono entusiasti.”

“Ricordo che volevamo rappresentare il giocatore come membro di una squadra e volevamo comunicare la natura tattica del gioco, per questo scegliemmo quella prospettiva dall’alto che mostrava gli avventurieri in posa plastica, i ranger contro altra gente.”

Mario Teaches Typing uscì nel 1992 e riscosse un grosso successo. Si tratta fra l’altro a modo suo di una pietra miliare, dato che è il gioco in cui per la prima volta nella storia venne data una voce a Mario, all’epoca doppiato da Ronald B. Ruben. E la riedizione su CD-ROM di due anni dopo segnò l’esordio di Charles Martinet, che sarebbe poi stato la voce di Mario (e svariati altri personaggi) per quasi trent’anni. Visto l’esito ottimo dell’operazione, la partnership proseguì con Mario’s Game Gallery. Poi, però, un’altra azienda (Fargo non ricorda – o non vuole ricordare – quale) pubblicò un gioco di Mario che Shigeru Miyamoto ritenne orribile e “Fu la fine. In Nintendo decisero di non dare più la licenza di Mario a sviluppatori esterni, noi inclusi, anche se i nostri titoli gli erano piaciuti molto. Rimango comunque molto orgoglioso di quelle due produzioni. Ho incontrato tanti bambini e genitori che mi hanno detto di aver imparato a usare la tastiera grazie al nostro software.” 

Ben più fruttuoso fu lo sfruttamento della licenza di Star Trek, tramite la quale Interplay pubblicò otto giochi (più conversioni e riedizioni) nell’arco di un decennio. Fra quelli ricordati con più affetto ci sono le due avventure punta e clicca, 25th Anniversary e Judgment Rites: “All'epoca, le avventure grafiche avevano ancora le interfacce testuali o quelle punta e clicca con le parole da selezionare. Noi ideammo un'interfaccia completamente grafica, che era una novità assoluta, con quell'omino dorato al centro.” Sulle prime, quell’innovazione venne accolta con un certo scetticismo ma sulla distanza finì per diventare uno standard adottato anche dai principali attori del settore, come Lucasarts e Sierra. “La cosa buffa è che a un certo punto da Paramount ci contattarono per chiederci come mai ci fosse un uomo nudo nell'interfaccia. Erano arrabbiatissimi e cercarono di costringerci a toglierlo dal seguito. Non riuscivano a capacitarsene, si chiedevano perché mai mettere un uomo nudo in un gioco di Star Trek. Ma noi mica l'avevamo pensata in quel modo! Comunque alla fine l'avemmo vinta.”

In quegli anni, il nome di Fargo appare accreditato come produttore esecutivo fra i riconoscimenti di praticamente tutti i giochi pubblicati da Interplay, ma scorrendo l’elenco noto che su Star Trek Starfleet Academy figura come director. Gli ho chiesto se ricordi le circostanze di questa cosa e mi ha spiegato che “all'epoca l'assegnazione dei titoli era... malleabile. E il significato stesso della carica di produttore o produttore esecutivo cambiava in continuazione. Non c'era grande coerenza. Il punto, però, è che io mettevo le mani su tutti i giochi. Se lavoravi nella mia azienda, dovevi aspettarti di vedermi largamente coinvolto in tutto quello che succedeva. Magari ero meno coinvolto se si trattava di un seguito molto incentrato sul riutilizzo dei componenti, con la stessa interfaccia, gli stessi asset, lo stesso universo. In casi del genere, davo fiducia al team.  

Intendiamoci: do sempre fiducia al team, ma sulle cose nuove, tendo a mettere parecchio il naso in quello che succede.

La Interplay di fine anni Novanta era ormai una potenza del settore, che lavorando con studi pazzeschi come Black Isle, Shiny Entertainment e BioWare pubblicò pietre miliari e giochi interessantissimi come Fallout, Baldur’s Gate, Sacrifice, Giants, MDK, Torment, Icewind Dale. Mentre faccio l’elenco dei gioconi di quegli anni, Fargo non si trattiene dall’interrompermi per concedersi un pizzico di comprensibile orgoglio: “Guarda, lo dico senza volermi vantare ma perché ne sono proprio convinto: eravamo fra i publisher più innovativi e creativi sulla piazza.” E non ha torto: Interplay ridefinì il genere dei giochi di ruolo e ancora oggi, quando si parla di RPG vecchio stile, dei classici, raramente ci si riferisce ai titoli degli anni Ottanta, si tende piuttosto a parlare dei loro giochi. Ed è interessante perché quei franchise hanno in larga misura generato la scena attuale. Da Black Isle è nata Obsidian, BioWare è andata avanti a lavorare nel genere, Baldur’s Gate è appena tornato, Fallout è sempre sulla cresta dell’onda… è tutta roba che è sopravvissuta alla caduta di Interplay. 

Chiedo se questo costituisca per Fargo un mix agrodolce, che unisce l’orgoglio per il lavoro fatto e l’amarezza per come sono andate a finire le cose, con la sua uscita da Interplay e il successivo declino dell’azienda, ma lui sembra averla presa con filosofia: “Non mi interessa. Mi diverto. Mi diverto a sviluppare videogiochi. Guardo avanti e lascio che siano i miei giochi a parlare per me. Lascerò che sia così anche con Clockwork Revolution, che è il mio prossimo gioco.” 

Detto questo, la fine amara fatta da Interplay non era inevitabile. Fargo mi racconta che nel momento di maggiore difficoltà aveva trovato un compratore in Li Ka-shing, “l’uomo più ricco di Hong Kong”, e in particolare nel figlio Richard Li, che era intenzionato ad acquistare Interplay. Ma Titus, che in quel momento era la proprietaria, chiese troppi soldi e l’affare saltò. A quel punto, i dirigenti di Titus “dissero che avrebbero portato avanti un’acquisizione ostile, ma io dissi loro che non c’era bisogno di essere ostili, prendetevi le chiavi, divertitevi. Parliamoci chiaro: a quel punto passavo il mio tempo occupandomi degli azionisti, gestendo questioni corporative, pensando solo al denaro… mi stava ammazzando. Ne avevo avuto abbastanza.”  

Fargo mi racconta anche un aneddoto forse poco noto sul destino di una certa qual serie creata da Interplay, che nel nuovo millennio sarebbe diventata un colosso per un altro publisher: “Interplay aveva dato Fallout a Bethesda, ma era solo un contratto di licenza, con una royalty da pagare a Interplay.” Fargo se ne era già andato ma era ancora in contatto con i suoi ex impiegati, che gli chiesero aiuto perché “Non li pagavano, avevano arretrati di ferie, malattia, vacanze, qualsiasi cosa. Ma io ormai me n’ero andato, non potevo farci niente. Controllavo le dichiarazioni fiscali e non c’era nulla, ma i soldi entravano, quindi qualcuno si stava intascando qualcosa.” Fargo si rivolse ai tre creditori che stavano agendo contro l’azienda sul piano legale e propose loro di prendersi in carico il debito, promettendone il pagamento in cambio di una percentuale. A quel punto andò in tribunale a chiedere la procedura di bancarotta per Interplay, che aveva come unica via d’uscita il pagamento di tutti i debiti e degli stipendi: “Per farlo, servivano tre milioni di dollari. E da dove arrivarono? Da Bethesda. Quindi, il motivo per cui Bethesda acquisì i diritti di Fallout fu quella mia azione legale.”

Nel frattempo, però, Fargo non aveva la minima intenzione di smettere e decise di fondare una nuova azienda, inXile Entertainment, che sarebbe stata fortemente caratterizzata da numerosi ritorni al passato. Il The Bard’s Tale originale “aveva lanciato la nostra carriera e quindi pensai che intitolare il primo gioco di inXile come quello che era stato il primo gioco di Interplay sarebbe stata una cosa carina.” Questa cosa fu possibile grazie al funzionamento delle leggi sui marchi registrati: se non li usi, li perdi. Che poi è il motivo per cui talvolta escono film orribili e improbabili prodotti in fretta e furia solo per conservare i diritti su una IP. Ecco, mi racconta Fargo, “Electronic Arts non stava facendo nulla con The Bard's Tale da un sacco di anni, così io decisi di richiedere il marchio e lo ottenni. Non apprezzarono particolarmente la cosa, ma insomma, non ci stavano facendo nulla! E comunque poi gli è passata. Adesso, purtroppo, è molto più difficile che accada qualcosa del genere, che un marchio inutilizzato torni al suo creatore, perché tutto è disponibile in digitale e basta che un gioco sia acquistabile in un negozio online perché il marchio risulti utilizzato. Quindi, insomma, ho colto un'occasione unica.”

Quel reboot di The Bard’s Tale su PlayStation 2 costituì anche un’occasione per confrontarsi con l’evoluzione del settore e ragionare su come portare meccaniche e generi classici alle nuove generazioni. Fargo decise di abbandonare la struttura da RPG vecchia scuola e seguire invece il cammino tracciato da Baldur’s Gate: Dark Alliance, virando quindi sul gioco d’azione. Commise però un errore, pensando che “nel 2004 nessuno avesse più voglia di stare dietro alla microgestione dell’equipaggiamento e del loot: trovare magari una spada peggiore di quella che già avevi, tenerla a occupare spazio nell’inventario, doverla riportare al villaggio per venderla a un mercante…” Nel gioco venne quindi implementato un sistema per cui, se trovavi equipaggiamento peggiore del tuo, si tramutava istantaneamente in oro. E i fan lo odiarono. “Volevano la microgestione!” 

Il periodo a cavallo del cambio di millennio non fu semplice per parecchi sviluppatori storici, con diversi studi e publisher un tempo dominanti che sparirono nel giro di qualche anno. Fu una transizione difficile e lo stesso Fargo ammette che “Abbiamo avuto i nostri momenti di difficoltà, non è stato semplice.” Negli anni successivi a The Bard’s Tale ci furono molti piccoli lavori su commissione ma poi, nel 2011, arrivò una grossa produzione per conto di Bethesda, che tra l’altrò mi offrì la prima occasione di incontrare Fargo durante un evento stampa di presentazione. Hunted: The Demon’s Forge era un altro gioco d’azione dagli elementi ruolistici che andò a recuperare il titolo del primissimo gioco commerciale mai pubblicato da Fargo. “Va detto che il titolo non sarebbe dovuto essere quello,” mi ha spiegato Brian. “Era un titolo di lavorazione, gliel'avevo messo così, per divertimento. Poi, però, si stava avvicinando il momento del lancio e avevamo ancora quel titolo. Mi proposero di chiamarlo Hunted. Ma nel gioco non c'era nessuno che veniva cacciato e non c'erano demoni! Eppure, alla fine venne deciso di tenerlo” ammette ridendo. Insomma, in questo caso l’omaggio fu molto meno intenzionale che con The Bard’s Tale.

Negli anni immediatamente successivi, lo scenario del settore cambiò in maniera piuttosto radicale, offrendo una boccata d’ossigeno a Fargo e diversi altri studi storici (per esempio Revolution Software o System 3) che erano in qualche modo riusciti a navigare le acque tempestose di fine anni Novanta. La distribuzione digitale, l’autopubblicazione alla portata di tutti, il crowdfunding, l’esplosione della scena indie permisero a tanti sviluppatori di tornare alle proprie radici e riportare in auge generi come le avventure punta e clicca o gli RPG isometrici, che stavano sparendo. E in un certo senso Fargo rilanciò la sua carriera e la sua azienda tornando a fare quello che faceva venti o trent’anni prima... 

“Non che non ci avessi già provato,” mi risponde, “è che nessuno voleva supportare o pubblicare quei giochi. A un certo punto, avevo la licenza di Wasteland, stavo lavorando con Jason Anderson e avevo pure trovato un accordo per collaborare con Leonard Boyarski e Tim Cain. Era fantastico! Ma niente, nessuno voleva supportarci. Tim e Leonard finirono a fare altro, ma ho ancora il documento di design che avevamo messo assieme. Erano pronti a lavorare con noi su un seguito di Wasteland!” Fargo tentò tutte le strade possibili proponendosi ai publisher, dicendo e ribadendo che non era un novellino, era un publisher veterano che aveva lavorato sui primi due Fallout “E stiamo parlando del periodo in cui Fallout 3 era fuori e vendeva un gozziliardo di copie. Eravamo certi che avrebbe funzionato. Ma niente, nessuno era interessato.”

Di fronte a questa situazione desolante, Fargo decise di rivolgersi ai fan tramite il crowdfunding, spiegando esplicitamente che “sì, era un seguito di Wasteland, ma in fondo era anche un po’ il Fallout 3 che non avevamo mai avuto occasione di creare.” Se non ci fosse stata una risposta concreta da parte degli appassionati, sarebbe finito tutto lì e “probabilmente non avremmo visto Divinity, Baldur’s Gate III, i vari giochi di Obsidian, perché chi li avrebbe pubblicati? I publisher avrebbero ritenuto di avere la prova che nessuno era interessato a quei giochi. E invece è andata bene, abbiamo raccolto tre milioni di dollari dai nostri fan per sviluppare Wasteland 2. Ed è stato fantastico vedere quanto desiderio c’era ancora per questo genere di giochi.”

Fargo ricorda il momento in cui la campagna di raccolta fondi raggiunse l’obiettivo come uno fra i punti più alti della sua carriera, perché costituiva un riconoscimento per tutto quello che aveva fatto e allo stesso tempo un segnale di fiducia. E anche perché “quando lavori con un publisher, è sostanzialmente la situazione opposta: hai dei contratti che sono punitivi di natura, basta un errore e possono portarti in tribunale fino alla fine dei tempi. Per fare un esempio, se qualcuno fa causa all’intero settore per un brevetto, il publisher può reagire facendo causa a te. Sono contratti duri. E invece, ci rivolgiamo ai fan e loro ci danno tre milioni di dollari, anticipati, fidandosi di noi. È stato meraviglioso.” 

Grazie al successo di Wasteland 2, inXile Etertainment trovò finalmente il suo ritmo e soprattutto un segmento di mercato in cui poteva muoversi agevolmente. Negli anni successivi Fargo continuò a ripescare nel suo passato da sviluppatore e publisher, producendo Torment: Tides of Numenera, The Bard’s Tale IV e anche Wasteland 3. E proprio quando quest’ultimo stava per uscire, annunciò il suo ritiro. Come mai? “Beh, non mi stavo divertendo più. Se sei una persona creativa, ci sono due cose che vuoi fare. Vuoi creare i giochi che ti interessano e vuoi farlo come dici tu. Io ho il mio modo di lavorare ed è un approccio che non è semplice coniugare con un contratto, con delle milestone, perché non è il modo in cui organizzo le cose. Il mio è un procedimento fluido. E quindi, se non ho più modo di fare il gioco che voglio fare e nel modo in cui voglio farlo, forse è ora di smettere. Ho avuto una bella carriera, mi sono divertito… “

Solo che poi, a fine 2018, è arrivata Microsoft: “Mi hanno detto che volevano che continuassi a fare quello che stavo facendo e che mi avrebbero lasciato fare… Come potevo dire di no?” Ho chiesto a Fargo se avesse qualche dubbio sull’acquisizione, visto come spesso vanno a finire situazioni di questo tipo e vista anche la sua esperienza con la fine di Interplay. “Assolutamente no,” mi ha risposto. “Guarda, io ho a che fare con Matt Booty, Phil Spencer e gli altri… e sanno quello che fanno. Hanno una buona comprensione del processo creativo, del fatto che gli studi indipendenti hanno bisogno di autonomia e del modo in cui facciamo le cose. Si fidano di noi e, al massimo, siamo noi che non dobbiamo perdere quella fiducia.” Secondo Fargo, quello che talvolta accade è che gli studi vengono acquisiti, non generano più i risultati sperati ed è a quel punto che la faccenda prende una brutta piega: “Studi che da indipendenti funzionavano perché lottavano per sopravvivere, erano costretti a rispettare le scadenze e ad essere strutturati e disciplinati. ma nel momento in cui li liberi da quella situazione, dai loro maggiore tranquillità e sicurezza economica, al punto che non hanno più bisogno di lavorare, lasciandoli però liberi di autogestirsi. In teoria stai facendo una cosa buona ma in pratica finisci per creare una situazione in cui sono destinati a fallire. Non lo puoi sapere prima. Nel mio caso, io non avevo bisogno di lavorare già prima, quindi certamente per me quello non è un problema. E ho un lungo passato da publisher, quindi so come gestire lo studio. Insomma, quelle variabili non ci toccano. E per farla breve, mi hanno detto tutte le cose giuste, io ci ho creduto, e hanno proseguito a comportarsi esattamente come avevano promesso.”

NB: Questa intervista è stata condotta prima che Microsoft annunciasse le chiusure di alcuni fra gli studi acquisiti negli ultimi anni e non c’è quindi stato modo di parlarne con Fargo.

Ma come è nato Clockwork Revolution e come si è configurato il rapporto con Microsoft? Fargo mi ha assicurato che non gli sono arrivate direttive di alcun tipo ed è stato lui a proporre l’idea di un gioco steampunk, che moriva dalla voglia di sviluppare da un pezzo: “Arcanum è un gioco di culto e io conosco Chad Moore e Jason Anderson, hanno già lavorato con me. Volevo collaborare di nuovo con loro per creare un gioco che fosse un po' Arcanum, un po' Wasteland, quantomeno sul piano delle idee. Sono andato da Matt Booty e ho iniziato a spiegare il progetto... Mi ha praticamente interrotto dicendo ‘Non mi interessa, mi fido di te’.” Per Fargo, che ha passato una vita intera a fare pitch, era una situazione completamente folle. Si era preparato tutta una presentazione e nessuno voleva ascoltarlo. Alla fine, in un secondo tempo, li ha costretti a sorbirsi la presentazione e loro gli hanno risposto con un semplice OK, aggiungendo di non voler fare commenti per non rischiare di influenzarlo e far cambiare il progetto

“Insomma, ho davvero solo cose positive da dire sulla mia esperienza di lavoro con Microsoft.”

In chiusura della lunga chiacchierata, mi sono ritrovato a parlare brevemente con Fargo dello scenario attuale dei videogiochi, dei titoli che apprezza e di cosa secondo lui si possa considerare un gioco di ruolo. Grande appassionato dei cinematic platformer come Limbo, Inside e Little Nightmares, Fargo nutre però un’ammirazione enorme nei confronti di Red Dead Redemption 2, a cui dice di aver giocato dall’inizio alla fine, “che è una cosa che ormai faccio di rado, con giochi di quelle dimensioni. L'ho adorato.” Ma soprattutto, Fargo ci tiene a precisare una cosa che probabilmente farà inorridire i puristi dei dadi a venti facce: per lui Red Dead Redemption è un gioco di ruolo. Questa sua convinzione mi fa venire in mente certe discussioni di tanti anni fa, quando c'era chi mi diceva che Deus Ex non era un RPG perché c'era troppa azione. Ma per come la vedevo io, il punto di un RPG è interpretare un ruolo e fare le tue scelte, cosa che fai tantissimo in Deus Ex. E per me il tratto distintivo di un RPG è quello, non le statistiche e i tiri di dado… “Assolutamente,” mi risponde Brian. “E un’altra cosa che fai in un RPG è far crescere il tuo personaggio ottenendo cose, facendo esperienza, accumulando soldi, dipende dal sistema. Ma si tratta di una cosa che prescinde dalla tua abilità manuale con il controller. Ora, lo fanno anche altri giochi, succede in Tiger Woods, ma quello non è un RPG. Nel momento in cui racconti una storia e c’è un forte livello di reattività sulle piccole cose… In Red Dead Redemption non puoi determinare dove andrà a finire la storia, è vero, ma esistono tanti RPG dallo sviluppo lineare. Francamente, credo che vivere completamente immerso in quel mondo sia stata una fra le migliori esperienze da RPG della mia vita: interpretavo un personaggio, lo vestivo, facevo il 90% delle cose che si fanno in un gioco di ruolo classico.”

Pubblicato il: 31/12/2024

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