IL VISIONARIO ASSOLUTO

L’arte di Hieronymus Bosch e Metaphor: ReFantazio

«Di cosa sognava Bosch? Della Passione di Cristo, del male, della stupidità dei soldati, della vanità e caducità del mondo terreno, dell’inferno con i suoi strumenti di tortura, della tentazione, alla quale anche i santi riuscivano a stento a resistere» 

Max Jakob Friedländer

Scarabocchiare i margini dei libri scolastici non è un’invenzione dell’altro ieri. Nel lontano XIII secolo, il giurista bolognese Odofredo riportava un episodio spassoso (non per il disperato papà coinvolto) e incredibilmente umano: «Disse il padre al figlio [...] ‘Vai a Parigi o a Bologna [per studiare in università, N.d.A.] e ti manderò ogni anno cento libbre’. Ecco cosa fece: andò a Parigi e si fece riempire i libri di scemenze». Nell’originale latino, l’espressione utilizzata è spettacolare: «fecit libros suos babuinare». La mia traduzione con “scemenze” è un vero e proprio tradimento della pregnanza del verbo impiegato dal mio collega giurista parecchi secoli fa. Se di Odofredo ormai non rimane neppure la polvere, di certo non è andato perduto il suo sottile senso dell’umorismo: la sua breve storia tradisce uno sguardo divertito sul mondo universitario dell’epoca, ai suoi albori, e sulla tendenza della mente umana a divagare e a lasciare andare la penna – un vezzo che spero non si perda in questo mondo fatto di Instagram e smartphone. 

Capitava anche ai monaci amanuensi di perdere la loro proverbiale pazienza e mettersi a disegnare scarabocchi bizzarri sui margini dei loro splendidi manoscritti miniati. Pochi giorni fa, sono stata al Museo del Louvre di Parigi per visitare Figures du Fou. Du Moyen Âge aux Romantiques, mostra temporanea (potete godervela fino al 3 febbraio 2025) dedicata alla figura del folle e alla sua rappresentazione nella storia dell’arte. Tra antiche carte dei tarocchi con la figura del Matto, ma anche dipinti di Théodore Géricault dedicati alle monomanie e danze macabre in tutte le salse, una piccola sezione è stata dedicata anche ai marginalia più strampalati: davanti agli occhi dei visitatori erano in esposizione pagine di splendidi manoscritti “abbelliti” con culetti che scoreggiano fiori, coniglietti armati di tutto punto e scimmie che suonano strumenti musicali. Nulla di nuovo per gli appassionati del videogioco Inkulinati, uscito dall’accesso anticipato all’inizio di quest’anno. Recuperatelo a tutti i costi, anche soltanto per godervi la meraviglia dei marginalia che si scontrano tra le pieghe dei tomi medievali.

I marginalia sono qualificati come una forma d’arte “bassa”, sorta spontaneamente dall’immaginazione degli artisti. Per definire le figure più strampalate e grottesche (che probabilmente riempivano i libri del figlio di papà sfaticato di cui ci ha raccontato Odofredo) si usa il termine francese drôlerie. A lungo ignorate dagli studiosi per la loro natura spesso oscena, sono state finalmente oggetto di attenzione sistematica a partire dalla metà del Novecento. In realtà, esiste un artista che ha fatto proprio l’immaginario delle drôlerie e – come ricorda Stefan Fischer nel monumentale Hieronymus Bosch. L’opera completa (Taschen, 2016) – riuscì a trasferirla con grande successo dai luoghi marginali della miniatura, dell’architettura ornamentale e della xilografia alla pittura su tavola. E, con ogni probabilità, fu anche il primo a farlo: molti temi di Bosch non trovano esempi nella tradizione figurativa dell’epoca, e sono documentabili solo nella letteratura. I The Game Awards di quest’anno hanno dimostrato che l’arte di Hieronymus Bosch continua a stupire, visto e considerato che Metaphor ReFantazio si è aggiudicato l’ambito premio per la Best Art Direction – e i nemici visivamente più ispirati del videogioco di Atlus sono tratti proprio dai dipinti dell’artista neerlandese.

Ma chi era Hieronymus Bosch?

È difficilissimo dirlo: di lui abbiamo pochissime notizie, molte delle quali tratte da atti notarili. Bosch trascorse gran parte della sua vita (o forse tutta, chissà) nella sua città natale, chiamata ‘s-Hertogenbosch. Il suo vero nome era Jheronimus van Aken. La sua era una famiglia di artisti di talento: il nonno di Bosch fu il pittore più importante della città nella prima metà del Quattrocento. A questo punto, mio padre userebbe un modo di dire molisano: «figlio di gatto, sorcio acchiappa», a testimoniare che il talento può essere ereditato (non so se crederci...). Sembra essere il caso di Hieronymus Bosch, quarto dei cinque figli di Antonius, il terzo nato dal matrimonio dell’uomo con Aleid van der Mynnen. Il primissimo documento in cui compare il nome di Bosch risale al 5 aprile 1474 e contiene l’assenso suo, di suo padre e dei suoi fratelli all’affitto di un terreno da parte della sorella Katharina. In quel momento, Bosch aveva di certo almeno diciotto anni di età, e per questo si è proposta una data tra il 1450 e il 1456 per la sua nascita. In un altro documento del 1475-1476, il pittore figura come collaboratore nella bottega paterna. Sei anni dopo, il 15 giugno 1581, in un atto Hieronymus Bosch risulta essere già sposato con Alied van der Mervenne, figlia di un ricco commerciante; nella sua cospicua dote era inclusa una casa nella piazza del mercato vicino al municipio cittadino di ‘s-Hertogenbosch, di cui restano i muri laterali e una cantina al civico 61. Le prime testimonianze dell’attività artistica del pittore risalgono a quando lui aveva certamente più di trent’anni: la prima delle opere di Bosch giunte fino a noi è la Crocifissione con santi e donatore, risalente alla fine degli anni Ottanta del Quattrocento, secondo gli studi più accreditati. Da questo punto in poi, a parlare per lui sono soltanto i suoi quadri e atti occasionali con cui vengono registrate le commesse, provenienti anche da ambienti molto prestigiosi: nel settembre del 1504, a Bosch venne versata la somma di trentasei lire come acconto per «un grande quadro di nove piedi di altezza e undici piedi di lunghezza che dovrà raffigurare il Giudizio di Dio», come riportato nel documento conservato presso gli archivi di Lille. Committente è Filippo d’Asburgo, detto il Bello, re di Castiglia con l’appellativo di Filippo I, e il «grande quadro» sarebbe il Giudizio Universale (che vedremo a breve). Quadro dopo quadro, il tempo passò, e Bosch morì di colera nel 1516. I suoi funerali vennero celebrati in forma solenne il 9 agosto di quell’anno. L’impatto incalcolabile di Hieronymus Bosch sulla storia dell’arte era appena incominciato.

A questo punto, ritengo doveroso avvertirvi che seguiranno spoiler sulla trama di Metaphor: ReFantazio, che ha il bello di far iniziare l’avventura del protagonista in medias res, senza troppo svelare sul mondo di gioco sulle prime. Proprio per questo, a mio avviso è meglio addentrarsi per diverse decine di ore nell’universo di Atlus prima di rovinarsi la sorpresa con le parole che seguono; se volete una spinta in più, trovate qui la recensione di Metaphor ReFantazio firmata da Andrea. 

Gli eventi di Metaphor ReFantazio sono ambientati nel Regno di Euchronia, la cui pace è turbata da un lato dall’omicidio del re, dall’altro dalle scorribande di abomini provenienti da chissà dove. Sono chiamati “umani”. A quanto sembra, gli avvistamenti degli umani avvengono più o meno da sempre, ma in anni recenti stanno diventando sempre più frequenti. I corpi degli umani contengono immense quantità di Magla, una forza magica che conferisce loro capacità straordinarie. Non tutti gli umani sono bestie feroci prive di discernimento: spesso capita di incontrare nei dungeon degli Homo Tenta (per capirci, i dentoni parlanti) che forniscono suggerimenti al protagonista su tecniche di combattimento e di esplorazione. Con il proseguire della narrazione, si viene a scoprire che l’antagonista, Louis Charadrius, ha fatto uso di una magia per trasformare inermi cittadini del regno in umani, evocandoli per distruggere interi villaggi, per poi sconfiggerli, così raccogliendo consenso popolare. Il piano di Louis è in realtà ancora più articolato di così, e viene a svelarsi soltanto nel finale. Quel che conta, per ora, è che gran parte degli umani sono tratti, spesso molto fedelmente, dai quadri di Hieronymus Bosch, come ho potuto constatare tramite un esame dell’opera omnia del pittore. Chi conosce Bosch sa quanta santa pazienza ci vuole per esaminare tutti i suoi mostriciattoli, ma cosa non si fa per la scienza... A beneficio di (si spera!) futuri studi sull’argomento e seguendo il probabile ordine cronologico delle opere del pittore neerlandese, ecco indicati i nomi degli umani di Metaphor: ReFantazio e gli estremi dei dipinti in cui ho rintracciato le figure che li hanno ispirati:

  • Homo Fulquilo: San Giovanni a Patmos, anta interna destra, dopo il 1488, olio su tavola, Berlino, Staatliche Museen 
  • Homo Pento: La Tentazione di Sant’Antonio, anta interna destra, ca. 1502, olio su tavola, Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga 
  • Homo Gorleo, Homo Casco, Homo Flaemo, Homo Avades: Trittico delle delizie, ca. 1503, olio su tavola, Madrid, Museo Nacional del Prado 
  • Homo Oppo, Homo Stormmu: Il Giudizio Universale, pannello centrale, ca. 1506, olio e tempera su tavola, Vienna, Akademie dei bildenden Künste 
  • Homo Fios: Il carro del fieno, pannello centrale, olio su tavola, ca. 1510-1515, olio su tavola, Madrid, Museo Nacional del Prado

Alcune precisazioni, prima di passare all’analisi delle opere:


  • Homo Gorleo è certamente ispirato alla figura con più braccia e gambe, contornata da mele e con un gufo al posto della testa, visibile nel pannello centrale del Trittico delle delizie in basso a destra; tuttavia, segnalo che ha subito un re-design significativo rispetto all’originale di Bosch
  • Meno ingente – ma comunque da segnalare – l’intervento di Atlus per quanto riguarda Homo Stormmu, ispirato alla figura accovacciata nella parte inferiore del pannello centrale de Il Giudizio Universale. Nel dipinto, il mostriciattolo salta in padella i resti di un essere umano smembrato, e non le ben più innocue due uova inserite da Atlus. Facile scovare la fonte d’ispirazione del team per questa sostituzione: tra la padella e i piedi del mostro dipinto da Bosch si trovano proprio due uova! 
  • Nella lista di cui sopra, ho raggruppato gli umani a seconda del quadro da cui sono stati tratti: in questo modo, si capisce già da un primo sguardo che i dipinti presi come riferimento da Atlus sono cinque. Il catalogo dell’opera di Hieronymus Bosch è tormentato e costellato da dubbi; ormai si tende a non includere più le opere documentate negli inventari del XVI e XVII secolo perché la loro attribuzione è assai controversa. Si è fatto riferimento all’opera omnia di Bosch curata da Fischer e sopra citata, in cui sono inclusi venti dipinti e dodici disegni. 
  • Riguardo a questi ultimi, si precisa che l’uomo-albero dell’anta interna destra del Trittico delle delizie è raffigurato anche in un finissimo disegno databile intorno al 1503-1506, realizzato a penna con inchiostro marrone su carta. Qui l’uomo-albero è raffigurato in un sereno paesaggio naturale, circondato da uccelli e altri animali. Mancano del tutto i riferimenti infernali presenti, invece, nell’anta interna destra del Trittico delle delizie. 
  • Infine, ho deciso di non inserire nella lista Homo Jaluzo. Il boss è certamente ispirato alle teste umane dotate di piedi che si vedono in vari dipinti di Hieronymus Bosch (vd. ad esempio, nella parte bassa a sinistra del pannello centrale de Il Giudizio Universale), ma le somiglianze si fermano qui e sono ben meno consistenti rispetto a quelle di Homo Gorleo rispetto all’uomo-gufo-uovo del Trittico delle delizie. Mi limito a menzionarlo qui.

Iniziamo questo viaggio con l’anta d’altare interna destra che raffigura San Giovanni a Patmos, di datazione incerta, ma di certo successiva al 1488. San Giovanni è impegnato nella stesura dell’Apocalisse, alza lo sguardo e vede davanti a sé quella che è identificata come “donna dell’Apocalisse”: la Madonna. La figura che ha ispirato Homo Fulquilo altri non è se non il diavolo, desideroso di impossessarsi del principale strumento di lavoro di San Giovanni: la sua penna. Come riportato dal folklorista tedesco Lutz Röhrich, il diavolo di Bosch traduce in immagine il detto olandese “avere le braccia corte”, ossia non riuscire a realizzare le proprie intenzioni. Zampe e coda appartengono al geco, animale notturno, connotato in maniera negativa in quanto rifugge la luce del giorno e, dunque, di Dio; gli occhialetti sono simbolo di desiderio.

Siamo lontani dalle raffigurazioni classiche del demonio, con piedi da capra, pelo e corna: il diavolo di Hieronymus Bosch è reso come un ibrido di parti di animale allusive a determinati peccati. Questo dipinto non è tra i più famosi del pittore neerlandese, tanto che nessuna delle testate che hanno dedicato approfondimenti a Metaphor ReFantazio, agli umani e all’arte di Bosch ha dedicato attenzione a questo quadro, ritenendo che Homo Fulquilo fosse semplicemente “ispirato” a elementi provenienti da tavole più famose.

È il turno del prossimo dipinto, ben più celebre: il trittico de La Tentazione di Sant’Antonio. Come constatato da Stefan Fischer, si tratta del primo dei grandi trittici in cui le drôleries sono impiegate con tanta abbondanza che la figura principale quasi scompare nella sovrabbondanza degli elementi e figure rappresentate. In effetti, rintracciare il timido e discreto santo eremita nei tre pannelli di Bosch è un’impresa quasi comica: se nell’anta interna destra riusciamo a scovarlo quasi subito mentre è seduto in meditazione su una roccia con un’aria un po’ seccata, nell’anta interna sinistra l’abate è quasi nascosto dai monaci che lo sostengono e lo trasportano aiutati da un garzone (forse un autoritratto di Bosch). Nel pannello centrale, il più grande, pieno fino all’inverosimile di figure mostruose, le cose si fanno drammaticamente difficili. Con un po’ di sforzo, si può trovare Antonio in ginocchio sulle fondamenta di una torre fortificata ormai in rovina, abitata da animali di ogni tipo. Il suo sguardo, a mio avviso dolcissimo, è rivolto verso l’osservatore; lo è anche quello del sornione uomo-maiale che, a sinistra dell’eremita, partecipa a una parodia della santa messa inscenata dal diavolo. Va bene, ma dov’è l’Homo Pento, unico umano di Metaphor ReFantazio presente in questo dipinto? Eccolo là, in basso a destra nell’anta interna destra, con il suo volto privo di lineamenti trafitto da una spada, le gambe corte, la lunga coda e uno svolazzante mantello rosso dal taglio bizzarro.

Come detto poco fa, La Tentazione di Sant’Antonio è la prima esplosione a noi giunta di ciò che ha reso Hieronymus Bosch immortale: la sua attenzione maniacale alla rappresentazione di figure mostruose e in larga parte mai viste, alcune delle quali ricorrono nei suoi dipinti e disegni. Il mondo marginale delle drôlerie si unisce a quello religioso in un matrimonio solo apparentemente blasfemo. In realtà, i mostri sono la rappresentazione perfetta delle forze demoniache che assalgono Sant’Antonio nel corso della sua vita eremitica, fatta di stenti e di rinunce. Nel trittico, la narrazione procede da sinistra verso destra: nell’anta interna sinistra vediamo il santo abbracciare la vita di rinunce propria dell’eremitaggio, mentre nel pannello centrale è perseguitato dal demonio; la pace interiore è raggiunta nell’anta interna destra (quella in cui troviamo la figura a cui si è ispirata Atlus per Homo Pento).

Il germe del disastro è brandito da un mostro beccuto nell’anta interna sinistra: si tratta di una lettera sigillata con su scritto “protio”, abbreviazione di “protestatio” secondo lo storico dell’arte Jean Michel Massing. È un atto formale di accusa verso Antonio portato dai demoni calunniatori e diffamatori, che desiderano arrivare a una resa dei conti con l’eremita per i suoi peccati di gioventù. La narrazione culmina nel pannello centrale, in cui Antonio mantiene la calma pregando e benedicendo l’osservatore con la mano. Intorno a lui, oltre alla messa blasfema, troviamo una torma di diavoli che rappresentano l’ira e altri vizi capitali, oltre a una città in fiamme sullo sfondo e a delle mirabolanti navi che solcano il cielo. L’attenzione dell’osservatore è continuamente deviata dalla sovrabbondanza di diavoli bizzarri raffigurati da Bosch, ma guardando bene ci si accorge che il volto di Antonio è il centro perfetto del dipinto: è il suo sguardo dolce e determinato a costituire il fulcro della composizione. Nell’anta interna destra, in cui Sant’Antonio ha ormai superato la prova, notiamo che il numero di demoni è diminuito, ma questi non sono scomparsi del tutto. Il santo non si lascia turbare dal male del mondo e dalle tentazioni (vi è qui un fitto reticolo di richiami al sesso femminile e al desiderio sessuale più in generale), ma si limita a lanciare uno sguardo agli esseri che lo circondano, senza chiudere la Bibbia che tiene tra le mani. José de Sigüenza, monaco, tra i primi commentatori dell’opera di Bosch nella sua Historia de la Orden de San Jerónimo (1605), commenta così il trittico: la pittura mostra da un lato «il santo principe degli eremiti in religiosa e serena contemplazione con il volto disteso e l’anima piena di pace», dall’altro «le innumerevoli fantasie e creature mostruose cui il nemico dà origine per confondere, inquietare e intorbidare questa anima gradita a Dio e il suo imperturbabile amore. A questo scopo [Bosch, N.d.A.] evoca animali, bestie feroci, chimere, mostri, conflagrazioni, morte, urla, intimidazioni, vipere, leoni, draghi e spaventosi uccelli con una ricchezza e una varietà tali che ammiriamo la sua abilità nell’essere riuscito a dar forma a tutte queste idee».

Lasciamo Homo Pento – che ha fallito nel suo tentativo di turbare l’integerrimo Sant’Antonio – e avviamoci alla scoperta del dipinto successivo. Si tratta dell’opera senz’altro più celebre di Hieronymus Bosch, ossia il Trittico delle Delizie. Non sorprende che sia quella più “saccheggiata” da Atlus per Metaphor ReFantazio: ben quattro umani sono tratti dalla tavola centrale (raffigurante il Giardino delle delizie) e dall’anta interna destra (raffigurante l’Inferno). Comprensibile il fatto che è stata ignorata l’anta interna sinistra, con il suo Paradiso terrestre, dato che al suo interno troviamo animali fantastici, Cristo, Adamo ed Eva. Ben più immaginifici il Giardino e l’Inferno: brava, Atlus! Non mi ripeterò per quanto riguarda le considerazioni su Homo Gorleo, mentre segnalo che la figura che ha ispirato Homo Avades è ben visibile nella parte centrale dell’Inferno, sovrastato sulla sinistra da una del tutto identica a Homo Flaemo. Infine, il demone da cui è stato tratto Homo Casco, con un’aria che ho sempre trovato giocosamente dispettosa, è nella parte bassa a destra dell’anta. 

Probabilmente, il Trittico delle delizie venne dipinto nel 1503 in occasione delle nozze di Enrico III di Nassau-Breda: doveva trattarsi di uno speculum nuptiarum, ossia di una guida al buono o cattivo esito dell’alleanza amorosa che è il matrimonio. Ecco, quindi, l’armonia tra Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, con la mano di Eva stretta in quella di Cristo, seguita dal caos di corpi umani nudi (e non solo) nel pannello centrale, dedicato al Giardino delle delizie. Stando al diario del grande Albrecht Dürer, che visitò la residenza del (probabile) committente del quadro nel 1520, il palazzo del signore ospitava un meteorite nel cortile (!) e un letto di enormi dimensioni, in cui potevano stare sdraiate cinquanta persone; anche da questo indizio parte degli interpreti hanno intuito una possibile funzione meramente estetica del Trittico delle delizie, mentre altri restano ancorati alla tesi per cui si tratterebbe di un ammonimento agli sposi sui rischi di un amore non retto dai precetti cristiani.

Nell’anta interna destra sprofondiamo nell’Inferno. La figura femminile concentrata sulla sua immagine riflessa è la controparte negativa di Eva, macchiata dal peccato originale e dalla cacciata dal Paradiso terrestre insieme a Adamo. L’uomo-albero che ha ispirato Homo Avades è il principale punto di riferimento per l’osservatore: di dimensioni considerevoli in rapporto a quelle della composizione e di colore candido, contrapposto allo sfondo scurissimo, simboleggia i peccati di lussuria e di gola. Poco sopra di lui troviamo le due orecchie giganti trafitte da una freccia, con al centro un lungo coltello: Atlus le ha riprese alla lettera per Homo Flaemo. Secondo gli interpreti, si tratterebbe di una rappresentazione degli organi uditivi macchiatisi del peccato di aver ascoltato musica profana; è possibile che il coltello sia lo strumento con cui sono state amputate, con una punizione corporale che trova la sua legittimazione nelle pagine della Bibbia. È impossibile trattare di tutta la complessa simbologia (in parte oscura) di questo incredibile trittico: tra i miei contributi preferiti posso citare Wilhelm Fraenger con il suo Hieronymus Bosch: Il Regno Millenario, recentemente pubblicato in lingua italiana (Abscondita, 2024) e Il linguaggio esoterico di Hieronymus Bosch. Il trittico delle delizie tra iconologia e mistero, di Massimo Centini (Tipheret, 2014).

Proseguiamo verso una quarta testimonianza del genio del pittore neerlandese: il trittico de Il Giudizio Universale. Qui troviamo la figura che ha ispirato Homo Stormmu (nel pannello centrale, in basso, leggermente a sinistra) e il gemello perfetto di Homo Oppo, con la sua faccina dall’aria perplessa contenuta in un guscio d’uovo trafitto da una freccia. Nell’anta interna sinistra tornano Cristo, Adamo ed Eva, con la narrazione che parte dall’estremità inferiore del pannello. Ben presto diavoli e mostri assortiti si prendono il centro della scena, con una regia impeccabile da parte di Bosch, che gioca sapientemente con il mondo della vita (rappresentato dal verde, dominante nell’anta interna sinistra) e il mondo della morte (rappresentato dal marrone, sfondo dell’Inferno). Ancora una volta, la dimensione infernale ha ben più consistenza e peso rispetto a quella del Paradiso, e l’osservatore è severamente ammonito sulle conseguenze del peccato nel giorno in cui tutti saranno sottoposti a giudizio.

È un messaggio fondamentale, tanto che, in genere, nelle chiese medievali la raffigurazione pittorica del Giudizio Universale è inserita nella controfacciata, ossia sulla parete interna della chiesa corrispondente alla facciata principale: è l’ultima immagine che resta impressa nelle retine del fedele all’uscita dalla santa messa, per ricordare le conseguenze disastrose di un comportamento non conforme alle Sacre Scritture. D’altronde, cosa c’è di più potente della memoria fotografica?

Arriviamo all’ultima opera e all’ultimo umano. Un pesce con le gambe, del tutto identico a Homo Fios, corre verso destra nel pannello centrale del trittico del Il carro del fieno. Ci troviamo nella produzione tarda del pittore neerlandese, e rintracciare il significato di questa composizione è molto complicato per noi contemporanei. Nel mezzo (appena a sinistra del pesce con le gambe) troviamo un carretto strabordante di fieno, sovrastato da un cespuglio, tre musicisti, un angelo, un diavolo e altre figure umane. La processione del carretto è seguita a cavallo da un re, un imperatore e un papa. Ma che ci fanno un re, un imperatore e un papa appresso a un carro di fieno trainato da demoni?

Guardando le ante a sinistra e destra, possiamo cercare di intuire lo sviluppo narrativo della vicenda. A sinistra troviamo l’arcangelo Michele che, armato di spada e in una posa minacciosa, scaccia Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre; più in alto, il demonio-serpente scende dall’albero per offrire la mela ai due. Nell’anta di destra, invece, ritroviamo i colori dell’Inferno già visti ne Il Giudizio Universale e nel Trittico delle delizie. Che c’entra, allora, il fieno? Si tratta di un topos affermatosi nel tardo Medioevo per simboleggiare caducità, vanità e smania per l’accumulo delle ricchezze. In una società largamente contadina – come era quella dell’epoca di Hieronymus Bosch – il fieno è testimonianza tangibile di un ricco raccolto. Ecco allora che il re, l’imperatore e il papa seguono il canto seducente del fieno, ossia delle ricchezze terrene. Come ricorda Stefan Fischer, d’altronde, il colore del fieno è quello dell’oro. La satira è accentuata dall’utilizzo del carro, elemento familiare nelle processioni religiose, come ricordano Rose-Marie e Rainer Hagen. La processione del fieno nel pannello centrale porta dritta dritta all’Inferno, rappresentato nell’anta di destra. Non fatico a pensare che il messaggio anticapitalista contenuto in questo trittico potrebbe essere apprezzato da Swen Vincke, dati i suoi discorsi incendiari sulla miopia delle grandi aziende di produzione di videogiochi nella gestione degli investimenti e del personale: nel corso del 2024 abbiamo assistito a fin troppe processioni del fieno nell’industria videoludica. Spero che abbiate ascoltato il suo discorso durante i The Game Awards insieme a noi in diretta, su Twitch o di persona al Cinema Notorious di Sesto San Giovanni. In caso contrario, potete recuperarlo online. Una piccola chicca finale: a metà del pannello centrale, sulla destra, potete trovare un grosso fungo!

Dopo questa lunga analisi, resta una domanda fondamentale: perché Atlus ha inserito in Metaphor: ReFantazio dei mostri tratti dai dipinti di Hieronymus Bosch? Possiamo avanzare delle ipotesi guardando alla natura degli umani di Euchronia e anche alle parole del già citato José de Sigüenza, che nel 1605 scriveva che «Altri provano a dipingere l’uomo per come è fuori, mentre solo lui [Hieronymus Bosch, N.d.A.] ebbe l’audacia di dipingerlo per come è dentro». La magia di Louis Charadrius riesce a trasformare chiunque in un umano, dando sfogo alle pulsioni e alle emozioni negative presenti in ciascuno dei cittadini di Euchronia grazie al potere della Melancolia. Ecco allora che Bosch diviene il canalizzatore perfetto dell’immagine ibrida, chimerica e stravagante del diavolo che è in ciascuno di noi, pronto a uscir fuori e a prendersi il centro della scena. Potrebbe anche darsi che il team di Atlus sia semplicemente appassionato dell’arte del pittore neerlandese; il videogioco non presenta spiegazioni a riguardo, e – cosa che, confesso, non ho affatto gradito – non menziona in alcun modo il nome di Hieronymus Bosch. 

Nel 1953, dopo avere a lungo indagato i possibili significati nascosti nelle opere di uno dei pittori più enigmatici di tutti i tempi, Erwin Panofsky elegantemente ne riconosceva il suo mistero immortale: «Continuerò a pensare che il segreto dei magnifici incubi e delle sue visioni non sia ancora stato svelato», scriveva. «Finora abbiamo aperto alcuni spiragli nella porta di una stanza chiusa, ma a quanto pare la chiave per aprirla non è stata ancora trovata». Chissà se Atlus, in futuro, ci fornirà risposte sul perché ha voluto guardare ai dipinti di Bosch per sviluppare i suoi “umani”. Hieronymus Bosch, dal canto suo, non può più essere interpellato sul suo lavoro da secoli. Forse è meglio così, perché l’incanto e l’enigma dei suoi diavoli rimarranno intatti per sempre.

Pubblicato il: 06/01/2025

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7 commenti

Davvero una bellissima monografia, complimenti a Giulia per la ricerca e l'analisi fatte.

Stupendo tutto: Metaphor, Bosch e l'articolo. Uno degli immaginari più potenti degli ultimi anni

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