TOKYO XTREME RACER
Il miglior racing game a cui non avete mai giocato
La cultura dell’automotive giapponese è costellata di nomi che ne hanno segnato la storia in maniera più o meno diretta. Se doveste ritrovarvi in una discussione con un appassionato state pur certi che prima o poi lo sentirete parlare di Keiichi Tsuchiya, da molti considerato il padre del drifting moderno, di crew leggendarie come i No Good Racing e il Mid Night Club o di elaboratori che si sono distinti negli anni per i loro traguardi pazzeschi nella ricerca della performance a tutti i costi nei loro garage come Mine’s, Spoon Sports e Re Amemiya. Per comprendere le specificità di questa cultura è però importante capire prima un aspetto fondamentale di come si è evoluto il mondo dell’automobilismo giapponese nel corso degli ultimi cinquant’anni. A differenza di quanto successo in occidente sin dall’alba dell’automobile, in cui il motorsport è sempre stata una disciplina professionistica tendenzialmente nobile e strettamente legata all’alta società (quella parte di pubblico che, molto semplicemente, poteva permettersi una carriera nel settore), in Giappone è esistita – ed esiste tutt’ora – una stretta commistione tra il professionismo da pista e la cultura sommersa delle gare clandestine.
Molti piloti e preparatori giapponesi hanno sempre avuto un rapporto molto stretto con il sottobosco illegale dello street racing, perché in tanti arrivarono alla conclusione che per andare forte in pista era prima necessario farsi le ossa sulle strade pubbliche. Tanto per fare un esempio, nel 1987 Keiichi Tsuchiya era un pilota professionista e per anni ha militato in tanti campionati turismo del paese, raggranellando peraltro dei buoni risultati nel corso della sua carriera, eppure divenne una delle personalità più chiacchierate del settore quando pubblicò dei video che lo ritraevano mentre lanciava di traverso la sua toyota AE-86 giù dai passi di montagna in un contesto del tutto illegale (questo arrivò quasi a costargli lo straccio della licenza professionistica, ma questa è un’altra storia).
La storia che voglio raccontarvi oggi ha però un’origine ben precisa. Parlo della Wangan Route, un tratto costiero dell’autostrada di Tokyo che negli anni ‘90 è diventato teatro di alcune tra le imprese illegali più famigerate di sempre. Era il terreno di caccia del Mid Night Club, un “circolo” di gentiluomini che si sfidavano a velocità folli su quel tratto di autostrada per testare le potenzialità delle loro auto. Per capire bene di che genere di imprese sto parlando mi limiterò a dire che il primo criterio per poter aspirare ad entrare a far parte del Mid Night Club era quello di dimostrare di essere in possesso di un mezzo in grado di raggiungere almeno i 300 km/h sulle strade pubbliche.
L’influenza culturale della Wangan Route e di ciò che succedeva sul suo asfalto nel cuore della notte è stata quasi incalcolabile, con esempi pop che vanno da Wangan Midnight – manga e anime dedicati alle corse clandestine della strada costiera poi trasformati in una serie di videogiochi arcade di enorme successo sviluppata da Genki e Namco – fino ad arrivare a Shuto Kōsoku Toraiaru (da noi Megalopolis Expressway Trial), serie di film sul mondo dello street racing illegale banditi sul suolo giapponese, e alle sue rappresentazioni apocrife all’interno di tantissimi videogiochi di successo. Avete presente le varie Clubman Stage Route e Special Stage Route di Gran Turismo? Ecco, vi basti sapere che sono circuiti direttamente ispirati alla cultura della Wangan, che negli anni si espanse fino a toccare altre città dell’arcipelago come è successo con il Kanjo Loop di Osaka dominato dalle Civic dei No Good Racing.
È a tutto questo fermento culturale underground che guarda Genki quando decide di sviluppare quello che per l’azienda all’epoca doveva essere solamente uno spin-off della sua serie Shutoku Battle. Si tratta di una serie nata addirittura su SNES in un momento storico in cui Genki stava cercando di ritagliarsi uno spazio all’interno del mercato giapponese, e divenne discretamente conosciuta tra gli appassionati proprio grazie alla presenza di Keiichi Tsuchiya all’interno dei primi capitoli, non a caso sottotitolati “Drift King”. Con l’arrivo sul mercato di Sega Dreamcast, il game director Shigeo Koyama decise di tentare una strada alternativa rispetto a quella del drifting sui passi di montagna: erano, dopotutto, gli anni in cui le riviste di settore in tutto il mondo facevano di tutto pur di mettere le mani sulle riprese di ciò che accadeva a notte fonda sulle strade di Tokyo, e Genki sapeva di poter estrarre del valore da tutta quella attenzione. Tokyo Xtreme Racer nasce proprio in questo contesto storico e culturale, e approda su Dreamcast nel 1999.
Si tratta di una serie di videogiochi automobilistici tra le più longeve e contemporaneamente oscure che siano mai esistite, almeno per quanto riguarda il mercato occidentale. Se infatti in patria la serie ha avuto sempre un’identità forte e ben riconoscibile, da questa parte dell’oceano è stata purtroppo vittima di una disastrosa gestione dei suoi diritti di publishing, che l’hanno portata a venire pubblicata in maniera del tutto randomica e con titoli sempre diversi tra loro. Qui da noi, infatti, Tokyo Xtreme Racer ha cambiato mille nomi ed è passato per le mani di un’infinità di publisher differenti che vanno da Crave a Konami, passando per Ubisoft e Jaleco, che hanno spesso trattato la licenza con pochissimo rispetto soprattutto in fase di localizzazione.
Toxyo Xtreme Racer (da noi Tokyo Highway Battle) si caricò sulle spalle il non semplice obiettivo di portare a compimento una piccola rivoluzione all’interno del genere dei racing game. La sua caratteristica principale, che poi divenne proprio l’elemento distintivo della serie, era il fatto di approcciarsi al mondo delle corse illegali in maniera tale da imitare più o meno da vicino le dinamiche dei picchiaduro. Il gameplay loop è estremamente semplice: se si decide di affrontare la modalità “storia” del gioco si viene catapultati immediatamente sulla wangan a bordo della propria auto e si viene lasciati liberi di scorrazzare in giro per l’anello d’asfalto che cinge Tokyo. Qui è possibile entrare in contatto con altri piloti clandestini che è possibile sfidare solamente sfanalando quando ci si trova abbastanza vicini a loro, innescando così una delle iconiche SP Battle del gioco. L’HUD si trasforma, facendo comparire sulla parte alta dello schermo due barre della vita esattamente uguali a quelle già viste in ogni singolo picchiaduro esistente all’epoca, e ci si lancia in un inseguimento a velocità folli sulla Wangan. Il pilota in testa ha il compito di seminare chi gli sta dietro, tant’è che più distanza riesce a mettere fra sé e l’inseguitore più velocemente andrà a svuotare la sua barra della vita, che una volta esaurita sancisce la sconfitta e premia il vincitore con una certa quantità di crediti. In qualsiasi momento è poi possibile ritornare al proprio garage per investire quei crediti nel potenziamento della propria auto e ripartire a caccia di altri avversari.
Ciò che rende assuefacente questo sistema all’apparenza estremamente scarno è però il fatto che la Wangan si popola via via di piloti sempre diversi, ognuno appartenente ad una crew da sconfiggere per scalare le gerarchie delle strade. Una volta sconfitti tutti i membri di una crew si viene infatti raggiunti dal loro leader, dando così il via ad una vera e propria bossfight da superare per poter proseguire nella propria rincorsa al vertice. In tutto, il primo Tokyo Xtreme Racer conta ben 141 piloti da battere per poter finire il gioco, tra cui figurano anche avversari direttamente ispirati ai personaggi di Wangan Midnight (ZERO, che guida una Porche 911 Turbo nera e ???, boss finale di ogni capitolo della serie, che guida una Nissan 240Z identica alla Devil Z protagonista del manga di Michiharu Kusunoki). Per alcuni si tratta di un videogioco troppo asciutto nelle sue meccaniche, ed è un pensiero con cui non me la sento di dissentire fino in fondo. Sono anche convinto, però, che quella di Tokyo Xtreme Racer sia una formula perfetta nella sua essenzialità per raccontare il fenomeno culturale della Wangan, che Genki ha sublimato in una forma unica nel suo genere, senza fronzoli e imbellettamenti di sorta.
Tokyo Xtreme Racer 2 (Tokyo Highway Battle 2 in Europa), pubblicato anch’esso su Dreamcast, è una revisione quasi totale del capitolo uscito solamente un anno prima. HUD migliorato, qualità grafica aumentata, parco auto (sempre senza licenza) aumentato a dismisura e nuove meccaniche che vengono inserite all’interno della formula originale rappresentano solo parte dei miglioramenti apportati da Genki al franchise. Aumentano enormemente anche gli avversari e le crew da battere, che in questo capitolo sono addirittura più di 370 grazie all’introduzione dei wanderer, piloti senza affiliazioni ai vari gruppi della Wangan che è possibile incontrare randomicamente in giro per l’autostrada che offrono premi più o meno buoni in caso di vittoria contro di loro. Ci sono però due problemi principali: la distribuzione dei crediti e il nuovo modello di guida. Nella versione occidentale del gioco i premi ottenuti con la vittoria degli inseguimenti sono risicatissimi in relazione al costo delle auto e delle modifiche, e questo impone una quantità di grinding non indifferente per chi vuole completare il gioco. Qui entra in gioco il nuovo modello di guida introdotto da TXR2, che è un mezzo disastro. Le auto sono sottosterzanti e imprecise, quindi schiantarsi contro i muri o il traffico diventa spesso e volentieri quasi inevitabile, il che è particolarmente frustrante perché il secondo capitolo ha apportato una modifica sostanziale alla gestione degli Spirit Points, che ora si riducono drasticamente in caso di incidente anche se ci si trova in testa alla gara.
Tokyo Xtreme Racer 2 è un capitolo importante, perché è quello che ha introdotto tutta una serie di meccaniche che hanno definito in maniera inequivocabile il futuro della serie chiarendone una volta per tutte le potenzialità e la direzione. Ad oggi è però un titolo che forse mi sento di sconsigliare ai nuovi arrivati a causa della sua natura estremamente frustrante e imperfetta. Funzionerebbe anche benissimo, non fosse che sfiorare un muro equivale a rimanere piantati in mezzo alla strada mentre gli avversari con grip infinito spariscono nel buio divorandosi la barra degli SP ogni volta che ne hanno l’occasione
Passa un anno, e nel 2001 Genki abbandona una volta per tutte la nave Dreamcast per approdare sui lidi di PlayStation 2 con quello che è considerato ancora oggi uno dei capitoli migliori in assoluto. Tokyo Xtreme Racer: Zero. È con questa terza iterazione che la denominazione occidentale comincia ad ingarbugliarsi inevitabilmente, dal momento che Crave e Ubisoft lo pubblicano in Europa semplicemente come Tokyo Xtreme Racer (nonostante le grafiche all’interno del gioco facciano riferimento al solo titolo originale). Se leggete online molti fan ne parlano come se fosse una sorta di TXR 2.5, e non è che si sbaglino a dirla tutta: il cuore dell’esperienza è sostanzialmente lo stesso e le modifiche alla formula sono poche. Parliamo principalmente di qualche piccolo ritocco al sistema di elaborazione delle auto, che diventa più semplice in alcuni aspetti, e di poco altro. La novità più importante, però, è quella del suo sistema di guida,, che in questa iterazione raggiunge un livello qualitativo quasi perfetto per quella che è la sua idea di gameplay. Ora le auto stanno in strada e rispondono ai comandi in maniera decisamente più precisa, eliminando di fatto quell’insopportabile sottosterzo che ha portato alla distruzione di più di una manciata di controller ai tempi del secondo capitolo. Menzione d’onore anche per l’incredibile senso di velocità che si prova quando ci si trova sulla Wangan: è uno dei migliori in assoluto per l’epoca e rivaleggia ancora oggi con alcuni dei migliori sulla piazza come Need for Speed: Pro Street e il primo GRID (che a onor del vero sono arrivati dopo e che potrebbero aver preso appunti dalla serie di Genki).
Nell’ultimo periodo ho rimesso le mani su TXR:Zero, un po’ per nostalgia e un po’ per genuina curiosità di scoprire quanto fosse invecchiato rispetto ai miei ricordi preadolescenziali, e ho ritrovato un videogioco assuefacente nella sua estrema semplicità. C’è ancora qualcosa di terapeutico, almeno per me, nel prendermi cura di un’auto per poi lanciarla a 300 km/h nella notte di Tokyo con il solo obiettivo di battere chiunque si trovi davanti ai miei fari. Lo ammetto: mi mancava parecchio. Smanettando un po’ tra i menù del gioco, inoltre, sono rimasto piacevolmente sorpreso dal fatto che Crave, che di cose buone nella sua storia ne ha fatte davvero poche, ha inserito all’interno della versione europea del gioco due contenuti extra sia il trailer del primo Fast and Furious, in uscita a stretto giro dopo la pubblicazione del gioco, che un documentario dedicato al mondo delle corse clandestine tokiensi prodotto appositamente per l’occasione. Due piccole chicche che raccontano alla perfezione quanto la serie di Genki fosse vicina alla sottocultura delle corse illegali del paese e di quanto fosse debitrice nei confronti delle sue storie e delle sue leggende.
A questo punto, Genki decide di tornare alle origini e ripropone al pubblico giapponese Kaido Battle, ovvero la sua serie originale dedicata al mondo del drifting illegale sui passi di montagna. Si tratta a tutti gli effetti di una serie parallela, di uno spin-off di Shutoku Battle che ne eredita molte caratteristiche principali come le SP Battle basandosi però su una cultura e delle dinamiche di guida profondamente differenti. È a tutti gli effetti una serie diversa, che però in occidente venne accorpata a Tokyo Xtreme Racer creando una confusione spaventosa a livello di branding. Il primo capitolo per PS2 uscì solamente in America sotto il nome di Tokyo Xtreme Racer: Drift, mentre Kaido Battle 2: Chain Reaction arrivò solamente in Europa come Kaido Racer.
Kaido Racer: Toge no Densetsu, ufficialmente terzo capitolo della serie, uscì negli USA come Tokyo Xtreme Racer: Drift 2 e da noi come Kaido Racer 2. Insomma, un delirio. Non approfondirò il discorso su questa costola della serie perché il mio obiettivo oggi è un altro; mi limiterò a dirvi che si tratta di una serie di racing game grandiosi per tutti gli appassionati del mondo del drifting.
Nel 2003 Genki pubblica su PS2 Shutoku Battle 01, arrivato solamente negli Stati Uniti con il nome Tokyo Xtreme Racer 3. Si tratta del capitolo più rifinito e probabilmente anche del più divertente da giocare grazie al suo sistema di guida e alle sue nuove meccaniche. Da un lato Genki ha operato una semplificazione di alcune strutture del gioco, rimuovendo la divisione in classi delle auto (che, peraltro, qui sono per la prima volta tutte su licenza ufficiale), mentre dall’altra ha aggiunto la novità importantissima della gestione delle temperature di acqua e olio del proprio mezzo. È infatti possibile che stressando il motore della propria auto a lungo queste temperature si alzino drasticamente, impattando con forza sulle prestazioni generali e portando a svantaggi notevoli in gara. Il gameplay loop, per quanto del tutto simile a quello di sempre, si impreziosisce così di una componente quasi gestionale che trasforma in maniera percepibile il feeling delle gare. Si tratta anche del primo capitolo che cerca di distaccarsi dai rimandi a Wangan Midnight, ormai orfano della popolarità che lo caratterizzava agli albori di TXR; erano dopotutto gli anni della grande apertura dell’occidente alla popolarizzazione dello street racing grazie al successo strepitoso di Fast and Furious e, soprattutto, di Need for Speed Underground, e nel mondo c’era sempre meno spazio per certi prodotti giapponesi.
Una delle migliorie principali introdotte da Genki è il fatto che TXR 3 non si limita alle sole autostrade di Tokyo, includendo per la prima volta sia il Kanjo Loop di Osaka che l’anello esterno a Nagoya, espandendo a dismisura gli orizzonti del gioco e introducendo conseguentemente anche la figura dei boss finali delle varie zone. Le Boss fight, tra l’altro, sono state ripensate in maniera molto intelligente, dal momento che ogni volta che si porta un boss sotto un certo livello di SP questo si ritira chiamando in soccorso dei compagni. Questo trasforma le gare più importanti in delle vere e proprie maratone, dove ogni avversario diventa via via più difficile da battere e che, soprattutto, possono mettere seriamente alla prova anche i giocatori più capaci. È un sistema sfidante ed estremamente divertente, molto apprezzato dai pochi che hanno potuto e voluto mettere le mani su Tokyo Xtreme Racing 3. La solita Crave, che si occupò della localizzazione occidentale del gioco, fece peraltro un errore clamoroso in fase di porting, limitandosi a sostituire la valuta originale in yen con i dollari americani semplicemente dividendo x100 ogni valore monetario del gioco, dimenticandosi però di adattare il valore richiesto dal gioco per far apparire in strada alcuni wanderer. Il risultato di questo errore è che il gioco risulta impossibile da completare del tutto perché uno dei wanderer richiede 100 milioni di crediti in banca per spawnare, ma Crave impose un tetto massimo alle finanze di 99 milioni. È una testimonianza piuttosto chiara di quanto male sia stata trattata l’IP da chi si è occupata dei suoi diritti al di fuori del Giappone.
Passano due anni, in cui Genki pubblica Kaido Battle 2 e Racing Battle: C1 Grand Prix, un titolo dedicato al motorsport professionistico più in linea con Gran Turismo pubblicato solamente in Giappone (che ha beneficiato recentemente di una traduzione amatoriale in inglese). Nel 2005 è il turno di Shutoku Battle per PSP, pubblicato in occidente da Konami come Street Supremacy. Si tratta di una piccola rivoluzione basata su un innovativo sistema di divisione in zone di influenza della Wangan. Ancora una volta Genki anticipa il mercato, strutturando un sistema poi ripreso da altri franchise, nello specifico si tratta di un’intuizione di cui ha largamente beneficiato Need for Speed Carbon solamente un anno più tardi. È un sistema semplice ma intrigante: ogni zona viene assegnata ad una crew, e ognuna di esse può combattere con quelle che si trovano nelle aree limitrofe per espandere la propria influenza. Una volta scelto il proprio team bisogna battere ogni singolo membro per poter richiamare l’attenzione del leader e sfidarlo; una volta battuto si prende il suo posto e si può cominciare ad amministrare la squadra a proprio piacimento. Una volta che ci si ritrova a capo di un team è infatti possibile scegliere quali zone attaccare per indebolire le crew avversarie, fino a dare il via al takeover, che è un’inedita meccanica di gioco che permette di sfidare un team rivale per scacciarlo da una zona e reclamare quest’ultima come propria.
Battendo le squadre nemiche si può infatti decidere di reclutare tra le proprie fila i membri più forti, costruendo così un team via via più competente. Questo è fondamentale proprio perché durante i takeover si è chiamati a scegliere quattro piloti del proprio team che, controllati dall’IA, sfideranno quattro membri del team che si è deciso di scacciare dalla Wangan. In caso di vittoria è quindi possibile sfidare il leader in un confronto finale e imporre il proprio dominio sulla sua area di competenza. Street Supremacy è un videogioco coraggioso, con cui Genki non si è limitata a riportare su PSP il sistema che ha caratterizzato la serie per tutta la sua vita editoriale ma che ha messo in mostra una certa propensione verso il rischio.
Ho sempre apprezzato questa voglia di mettersi in gioco, e il risultato – almeno in termini qualitativi – ha pagato. Street Supremacy non è in alcun modo un titolo minore: il suo sistema è divertente e permette anche di sperimentare per la prima volta un aspetto “strategico” peculiare per un videogioco di guida. È un peccato che abbia venduto poco e non abbia avuto seguiti, ma l’epoca della fascinazione per corse clandestine stava iniziando a tramontare e quel poco spazio rimasto era occupato da nomi decisamente più altisonanti e accessibili dal grande pubblico.
Il 2006 è un anno cruciale, perché è quello in cui Genki tenta un ultimo disperato assalto al mercato cambiando per l’ennesima volta le carte in tavola. Dopo un lunghissimo periodo in cui l’azienda ha collaborato strettamente con Sony pubblicando i propri titoli esclusivamente su PlayStation 2 arriva infatti un cambiamento radicale. L’arrivo della settima generazione di console spinge Genki a puntare tutto su Xbox 360, pubblicando quello che, ad oggi, è l’ultimo capitolo della sua serie di punta. Shutoku Battle X, pubblicato in occidente da Ubisoft con la decisamente poco accattivante denominazione di Import Tuner Challenge, fu un discreto insuccesso commerciale e, soprattutto, venne sviluppato frettolosamente e non senza difficoltà. Il trailer di presentazione fu una mezza folgorazione per tutti gli appassionati di tuning dell’epoca, perché prometteva una cura abbastanza impressionante per i dettagli, oltre che la presenza di vari personaggi con cui interagire.
Quando viene pubblicato, però, quello che il pubblico si trova fra le mani è sì un titolo rifinito in tanti dei suoi aspetti ludici (tra cui spicca uno dei migliori modelli di guida della serie), ma anche molto più superficiale del previsto. Da un lato c’è un’attenzione maniacale per i dettagli delle auto, al punto che ora ogni singola modifica legata alla performance può essere apprezzata anche visivamente all’interno del vano motore, dall’altro c’è però una diminuzione evidente delle location disponibili, da cui vengono rimosse Osaka e Nagoya. Un’altro degli aspetti più discussi è l’inserimento dei parcheggi – da sempre una caratteristica principale della serie di Genki dedicata al drifting – in cui incontrare altri personaggi da sfidare e con cui chiacchierare per ottenere indizi sulle condizioni necessarie a far apparire in strada alcuni tra wanderer e membri di altri team da poter sfidare. È un’idea interessante che tenta di riproporre le dinamiche tipiche dei raduni, ma realizzata con una povertà tecnica abbastanza percepibile. I modelli 3D del trailer lasciano spazio a delle sagome inespressive tutte uguali fra loro. Bisogna tenere a mente che Genki è sempre stata un’azienda molto piccola in confronto alle sue dirette concorrenti, arrivando ad impiegare al massimo un centinaio di dipendenti nel suo momento di massima espansione. In quegli anni, però, l’azienda ha pubblicato moltissimi videogiochi in poco tempo, quindi è possibile che Import Tuner Challenge abbia sofferto più di qualche taglio di budget, e il fatto che dal 2009 a oggi non abbia più pubblicato niente testimonia che, forse, ad un certo punto qualcuno abbia chiuso una volta per tutte il portafogli, portando l’azienda ad un silenzio durato ormai più di quindici anni.
Avanti veloce fino alla fine del 2024, quando il logo di Genki è riemerso a sorpresa dall’oscurità in cui si è nascosto per tantissimo tempo. A dicembre l’azienda ha pubblicato in rete un trailer che mi ha preso completamente di sorpresa in cui compare dopo diciott’anni il logo di Tokyo Xtreme Racer: si tratta di un reboot della serie sviluppato al momento solamente per PC e in arrivo in accesso anticipato il 23 Gennaio 2025. Sarò sincero: non mi sarei MAI aspettato di veder risorgere la serie dopo così tanto tempo, né tantomeno avrei mai creduto che potesse farlo in grande stile. Le sequenze di gameplay comparse in rete sono infatti estremamente convincenti (sempre tenendo a mente le dimensioni di Genki e il fatto che è sparita dai radar dal 2009) e sembrano voler dimostrare che il team sa perfettamente cosa sta facendo e quale sia la direzione da seguire. Non vedo l’ora di metterci le mani.
Mi sono interrogato a lungo su cosa possa aver in qualche modo riacceso la fiamma di TXR dopo così tanto tempo e ho fatto inizialmente fatica a darmi una risposta. È sicuramente vero che la cultura dell'automotive giapponese sembra star vivendo una nuova giovinezza, ma la mia potrebbe essere semplicemente una percezione falsata della realtà da parte del mio addestratissimo feed di Instagram. È anche vero che è innegabile che l’influenza di elaboratori contemporanei come Liberty Walk e RWB abbia riacceso l’interesse di tanti appassionati di tutto il mondo. Forse noi gaijin stiamo sporcando la sacralità di luoghi leggendari come la Daikoku Parking Area di Yokohama con il nostro sguardo da turisti affamati di cultura esotica, però è difficile non rendersi conto di quanto interesse ci sia nei confronti di quel mondo tutto pazzo dello street racing giapponese. L’ultimo tassello del puzzle affonda le sue radici in Italia, nella forma di una mod popolarissima di Assetto Corsa che ha spopolato in rete nell’ultimo periodo. Mi riferisco a No Hesi, una modalità di gioco creata dai fan in cui ci si lancia su delle trafficatissime autostrade giapponesi a velocità altissime mentre si procede a zig zag tra le auto controllate dalla cpu. Per quanto sia specchio di un fenomeno reale popolarizzato dai social negli ultimi anni, No Hesi non può che ricordare da vicino le dinamiche della Wangan e, soprattutto, di Tokyo Xtreme Racer.
In cuor mio mi piace pensare che Genki sia tornata per l’ennesima volta ad anticipare il futuro, pronta a raccontare una piccola rivoluzione culturale pronta ad esplodere nei prossimi anni. Dopotutto il mercato dell’automobile sta cercando di riportare in auge alcuni modelli che hanno fatto la storia dell’automotive giapponese (Toyota pare stia per rimettere mano alla Celica, Nissan alla sua Silvia e Honda alla Prelude), quindi forse non è un caso che questo coincida con il ritorno di Tokyo Xtreme Racer.
Oppure sono solamente un sognatore ossessionato da un certo tipo di automobili e voglio credere a tutto questo a tutti i costi. In entrambi i casi, comunque, sono felice che Tokyo Xtreme Racer possa avere una seconda opportunità. Se lo merita.
Pubblicato il: 15/01/2025
Il tuo supporto serve per fare in modo che il sito resti senza pubblicità e garantisca un compenso etico ai collaboratori
FinalRound.it © 2022
RoundTwo S.r.l. Partita Iva: 03905980128