VESTITI VIDEOLUDICI

Un parallelismo con gli abiti Herero

«Il tessuto, come un quadro, è per l’occhio una superficie, ma per l’artefice è innanzi tutto sogno o progetto di superficie»
(L. Ghersi, L’essere e il tessere, p. 89)

Di quando in quando emergono nuovi contributi legati al binomio tra moda e videogiochi (tra cui questo articolo di Felice Di Giuseppe qui su «FinalRound»), due mondi solo in apparenza lontani. Generalmente questi contributi si focalizzano soprattutto sull’operato dei grandi brand di moda, che si muovono in una duplice direzione. Da un lato inseriscono i loro vestiti all’interno dei mondi videoludici (come la collezione di Balenciaga in Fortnite), dall’altro realizzano linee di reali abbigliamenti ispirati ai videogiochi. Il più o meno sensato entusiasmo verso il “Metaverso” che si è visto negli ultimi anni non ha fatto altro che accelerare il processo, visto che videogiochi come Roblox e Fortnite sono tra i cosiddetti “Metaversi” con il maggior numero di utenti attivi al mondo. Per cui si sono moltiplicati gli interrogativi su come il fashion si svilupperà negli anni a venire, in questi mondi virtuali

Qui vorrei proporre uno spunto differente, guardando al passato invece che al possibile futuro e agli abiti videoludici come equipaggiamenti e non come il prodotto di un brand. In particolar modo, parlerò del parallelismo che c’è tra gli abiti tradizionali degli Herero (una popolazione dell’Africa meridionale) e le proprietà che possiedono gli indumenti di molti videogiochi, soprattutto GDR.

Ottenere la forza del nemico

«Il long dress è anacronistico […], inadatto allo stile di vita pastorale e urbano degli Herero e viene indossato solo dalle donne Herero adulte. Il continuo uso quotidiano di questo abbigliamento è quindi un enigma»
(H. Hendrickson, The ‘long’ dress and the construction of herero identities in Southern Africa, p. 26. Traduzione mia).

Gli Herero sono una popolazione stanziata principalmente in Namibia e sono soprattutto noti per il loro abbigliamento tradizionale. Gli uomini indossano delle uniformi militari (anche quando non sono soldati) nelle grandi occasioni, mentre le donne hanno un long dress che ricorda molto la moda vittoriana europea. Gli Herero vennero inizialmente esposti alla moda europea attraverso i loro “vicini”: gli Orlam, che avevano già subito l’influsso dei colonizzatori europei. I contatti tra questi due gruppi si intensificarono a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Grosso modo nello stesso periodo, alcune donne Herero frequentarono dei corsi di cucito tenuti da Emma Hahn, moglie di Carl Hugo Hahn (il fondatore della missione renana nella Namibia centrale). 

Perché gli Herero accolsero questa moda occidentale? Ma, soprattutto, perché la mantengono tutt’ora? Il primo quesito potrebbe trovare risposta parlando di un’imposizione da parte dei colonizzatori, ma una volta usciti dal dominio tedesco (vivono in un’area che era stata conquistata dalla Germania) avrebbero potuto facilmente abbandonare quegli abiti e rivendicare una loro tradizione precedente. La risposta a simili quesiti è quella che ci porta a parlare degli abiti nei videogiochi.  

Gli Herero non erano semplicemente interessati a imitare altri popoli. Dal loro punto di vista, indossare gli abiti degli Orlam e degli europei era un modo per ottenere il loro potere e indebolirli. Un aumento del potere fisico e spirituale, soprattutto per gli uomini. E un simbolismo benaugurale di maternità per le donne. Uno degli elementi che differenza gli abiti femminili Herero dalla moda europea è infatti la presenza di un copricapo che ricorda le corna del bestiame: un chiaro simbolo di fertilità, soprattutto se unito all’ampiezza del vestito (che richiama il ventre gravido).

Indossare gli abiti dei nemici per impossessarsi dei loro poteri. Un concetto a cui i videogiocatori sono ben abituati. Da diverso tempo, l’equipaggiamento indossato dai personaggi videoludici è una forma indiretta di manipolazione degli attributi e delle skills, al punto che sono talvolta biunivocamente legati a determinate classi e set di poteri. È per esempio il caso di Yakuza: Like a Dragon (2020), in cui ogni professione (una attualizzazione contemporanea delle tradizionali classi dei GDR) comporta un cambio di abito del personaggio. Ma è soprattutto interessante ricordarsi cosa avviene quando ci si impossessa degli oggetti appartenenti a certi nemici. Dai “Souls” di FromSoftware a Monster Hunter, passando per un’innumerevole serie di altri titoli, equipaggiare gli oggetti legati a uno specifico avversario significa spesso ottenere alcune delle sue proprietà. A volte non si tratta di un singolo pezzo di vestiario (o di un set composto da diversi singoli pezzi), ma di un’aggiunta integrativa, come gli upgrade per la tuta di Samus Aran nella maggior parte dei Metroid. La sconfitta di un boss fornisce un nuovo potenziamento più o meno legato ai poteri del nemico sconfitto, che viene quindi “integrato” nella tuta della celebre cacciatrice di taglie spaziale. In questo caso il “vestito” rimane uno solo nel corso dell’avventura, per quanto vada a modificare progressivamente anche il suo aspetto esteriore. In altri videogiochi ci si trova invece davanti a una maggior personalizzazione, in cui si possono cambiare gli abiti indossati in qualsiasi momento (o quasi), andando a modificare i bonus. Sempre parlando di varianti, in certi casi si ottiene l’esatto equipaggiamento degli avversari, come avviene in numerosi “Souls”. In altri contesti ci si ritrova con un oggetto che è modellato sulle sembianze di un particolare avversario, come per esempio l’elmo Viso di Andariel (Andariel’s Visage) di Diablo II (2000), che replica i bonus e i malus della demoniessa Andariel: un boost difensivo e offensivo legato al veleno, unito a una minor resistenza al fuoco. E sono solo due delle tante variazioni sul tema possibili. 

Ricordiamo che, in contrasto con quanto ci segnala il celebre modo di dire, spesso l’abito fa il monaco, perlomeno nei videogiochi (per quanto riguarda la nostra realtà potete dare un occhio a questo video del Duca di Baionette sullo scrivere in pigiama). Vestirsi in un certo modo sblocca alcuni poteri o ne blocca degli altri. Per cui, sì, vestirsi da monaco è talvolta sufficiente per essere un monaco. Così come indossare gli abiti dei propri nemici basta per acquisirne alcune proprietà. 

Abiti scomodi e fashion souls

«Possiamo vedere il fashion souls come una sorta di “cosplay digitale”: raggiunge molti degli stessi obiettivi, prende dei capi di abbigliamento che non sono destinati a essere utilizzati per costruire una personalità individuale e li reimpiega per tale scopo»
(T. Brock e M. Johnson, Video gaming as craft consumption. Traduzione mia).

Un’altra caratteristica degli abiti Herero è la loro scomodità. Questo è un discorso che vale in larga misura per il long dress femminile. Le uniformi militari maschili sono più pratiche e – cosa da non trascurare – vengono generalmente indossate solo in alcune occasioni. Più o meno come quando noi indossiamo i vestiti più eleganti per matrimoni, funerali, lauree e dintorni. Per le donne Herero la situazione è un po’ diversa, perché indossano molto più spesso il loro long dress. Può capitare che sia l’abito con cui svolgono, quotidianamente, la loro routine giornaliera. O meglio, per essere più precisi, anche le donne hanno degli abiti cerimoniali, per le grandi occasioni, ma anche il loro vestito “lavorativo” non è proprio il massimo per raccogliere legna, occuparsi del bestiame o cucinare. Soprattutto se tutto questo viene fatto in una torrida area semidesertica. Senza dimenticare che questi abiti sono fatti di cotone pesante. Oltre alla questione termica, bisogna considerare la difficoltà nel mantenere pulito l’abito. Si parla di aree dove c’è una generale scarsità d’acqua e l’approvvigionamento idrico avviene spesso alla “vecchia maniera”: andando a un pozzo con dei secchi o degli otri. Per cui sono necessari viaggi e sforzi aggiuntivi per procurarsi l’acqua necessaria alla pulizia di questi abiti. Aggiungendo il tempo necessario all’effettivo lavaggio e alla manutenzione dell’abito, una donna Herero impiega una dose non indifferente del suo tempo dietro a queste attività. Probabilmente diverse donne farebbero anche a meno di tutto questo lavoro per degli abiti così poco pratici, ma il long dress ha una forte valenza culturale e non è agevole abbandonare le aspettative della propria famiglia e della propria società. Come sottolineava l’antropologa Hildi Hendrickson in un suo articolo del 1994, il long dress delle donne Herero può essere letto in due modi diversi. Da un lato, come visto, appare come un limite alla libertà femminile. D’altra parte, aiuta le donne Herero a essere riconosciute come dei soggetti sociali (almeno in parte) indipendenti, a cui viene riconosciuto il contributo nella creazione di relazioni durature all’interno della società.

Anche su questo versante è possibile fare un parallelismo con i videogiochi. Penso in particolar modo a quel fenomeno che ha preso il nome di “fashion Souls”, quando riferito ai prodotti di FromSoftware, ma che si ritrova anche altrove. Secondo i principi del fashion Souls, l’aspetto visivo del proprio personaggio è più importante dei bonus forniti da determinati pezzi dell’equipaggiamento. Una build che mira a massimizzare determinate caratteristiche – ovvero l’approccio opposto a questo – va in effetti a generare nella maggior parte dei casi un’accozzaglia di stili differenti. Sicuramente efficaci in battaglia, ma non molto belli da vedere. Per appagare il proprio gusto estetico è molto meglio puntare o su dei set predefiniti (anche in un’ottica di role playing: si immagina di giocare nei panni di un personaggio che abbia determinate caratteristiche, rispecchiate dal suo vestiario) oppure su degli abbinamenti cromatici. Quest’ultima soluzione è decisamente più creativa e personalizzabile. È stato anche creato un apposito sito pensato per aiutare i giocatori a scegliere gli abbinamenti dei loro avatar digitali.

Il fatto è che – come per il long dress delle donne Herero – non sempre la piacevolezza estetica si lega alla praticità. L’accostamento tra gli abiti selezionati potrebbe essere troppo pesante per il nostro personaggio, limitandone i movimenti. Oppure potrebbe giungere insieme a qualche malus che non vogliamo. O a dei bonus per una build diversa dalla nostra. Serve anche del tempo per ottenere alcuni pezzi di equipaggiamento, soprattutto se sono ottenibili solo quando vengono “droppati” da una certa tipologia di nemico, il che comporta una lunga operazione di farming. Anche qui, c’è un possibile parallelismo con il lungo lavoro di produzione (e poi di manutenzione) del long dress Herero

A tutto ciò si può aggiungere il ruolo sociale e relazionale di fenomeni come il fashion souls. Esso è infatti un modo di guardare oltre l’ottimizzazione della build per comunicare qualcosa agli altri giocatori. Può essere utilizzato per pratiche di trolling o di “mimetismo”, oppure per intimidire gli avversari, e molto altro ancora. Qualche volta anche gli NPC sono programmati per reagire diversamente davanti a un certo abito come – banalmente – quando Link si veste da donna per entrare nel territorio delle Gerudo in The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Così come lo scomodo abito delle Herero è un mezzo di riconoscimento sociale, allo stesso modo l’abito videoludico può dare avvio a tutta una serie di pratiche relazionali dirette e indirette.

L’abito è il mio scudo

«Storicamente, molte culture hanno ritenuto i tessuti ricamati particolarmente efficaci nel proteggere gli esseri umani tanto in questo mondo quanto nell’aldilà. Intrisi della forza della natura – per il tramite delle piante da cui sono stati ottenuti i filati ed estratte le tinture – i tessuti costituivano un vero e proprio scudo naturale con cui respingere gli attacchi. Ulteriori e più solide difese potevano poi essere realizzate attraverso un determinato lavoro di cucito»
(C. Hunter, I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago, p. 127).

Magari vi sarà capitato, giocando ad alcuni videogiochi, di interrogarvi sul perché certi indumenti leggeri siano in grado di offrire una serie di bonus difensivi, soprattutto da status alterati e magie. Possono essere carenti sul versante della difesa fisica, ma le varie tuniche, cappe, mantelli e vestiti di ogni sorta risultano comunque oggetti protettivi. Di per sé, ragionando su quella che è la struttura di molti videogiochi, è una mera forma di differenziazione: per evitare la semplice equazione per cui più l’armatura è grossa (e, spesso, pesante) e meglio è, si tende a proporre varie specializzazioni, ideali per diverse build o classi. Ecco allora che il mantello dello stregone potrebbe espormi agli attacchi fisici, ma sarebbe più efficace di una corazza nel difendermi dai proiettili magici.

È però possibile anche trovare – e senza troppe difficoltà – delle forti radici culturali dietro a questa pratica. Il che non vuol dire che gli sviluppatori abbiano sempre pensato alla tradizione di diversi popoli, quando realizzavano i loro videogiochi (anzi, è più probabile che in molti casi sia il semplice effetto di ispirazioni preesistenti, per cui si trae spunto da altri prodotti già commercializzati). Ma ciò non rende meno vero il parallelismo.  

Nel suo libro I fili della vita, dedicato alla storia del cucito, Clare Hunter dedica un intero capitolo alla “protezione” data dai tessuti. E non intende il fatto che ci proteggono dal freddo e dal vento, ma che in molte tradizioni sono stati visti come una difesa contro le forze del male e gli spiriti ostili. E per svolgere questa funzione, gli abiti dovevano essere realizzati con alcune attenzioni particolari. Per esempio, un unico pezzo di tessuto è percepito come una buona difesa, perché non lascia sguarniti degli “spiragli” dentro cui possono incunearsi gli spiriti del male. Se servono delle cuciture è bene nasconderle, oppure utilizzare alcuni piccoli trucchi durante la realizzazione, che confondano le forze del male. Oltre a questo, in molti casi la produzione fornita dall’abito è legata all’abbondanza (di decorazioni, di lustrini, di perline, di nappe, ecc.), perché la forza magica di questi oggetti è cumulativa.

Torniamo allora agli Herero, con i loro abiti che – come si è detto – appaiono inutilmente complessi e pesanti per il contesto in cui vengono utilizzati. Ma se non altro, riconsiderandoli in questa luce protettiva, sono un’ottima forma di difesa contro presagi nefasti e forze occulte. L’abito attira e respinge. Il cappello simile a corna chiama a sé la fertilità. La foggia occidentale mira a prendere la forza del nemico. Contemporaneamente, certi motivi e certe scelte decorative allontanano il male. Proprio come in un gran numero di videogiochi, in cui la difesa dai malus si unisce frequentemente a qualche bonus positivo, attivo. Il citato Viso di Andariel della serie Diablo, tanto per riprendere l’esempio, difende dal veleno ma al tempo stesso aumenta l’efficacia delle abilità legate al veleno che il nostro personaggio utilizza.

Di passaggio, si può anche ricordare come molti di questi abiti e oggetti (certo, non tutti) condividano un qualche legame tra bonus e malus, come si è visto qui. È l’antico principio del pharmakon, che è al tempo stesso fonte di malattia e di cura. È l’erba medicamentosa che – a seconda delle dosi – può servire per curare il malato o per avvelenarlo. Per cui ci si aspetta che un abito con qualche bonus alla magia (o al fuoco, al ghiaccio, alla fede, a qualsiasi statistica possibile) possa facilmente presentare anche una difesa elevata nei confronti di quell’attributo.  

L’analogia tra gli abiti Herero e quelli videoludici evidenzia come l’abbigliamento, al di là della sua funzione estetica o pratica, rappresenti un potente simbolo culturale e relazionale. Nella cultura Herero, il long dress e le uniformi non sono solo vestiti, ma strumenti di affermazione identitaria, legami con la fertilità, mezzi di ottenimento della forza e persino protezioni spirituali. Allo stesso modo, negli universi videoludici, gli abiti e gli equipaggiamenti trascendono la semplice utilità per diventare espressioni di potere, narrazione, e personalizzazione. Sarà curioso vedere se (e come) la funzione degli abiti videoludici andrà a evolversi in futuro, a parte collezioni di moda nel Metaverso e dintorni. Col tempo, vedremo se acquisiranno ulteriori valenze culturali.

Per Approfondire

Tom Brock e Mark R. Johnson, Video gaming as craft consumption, «Journal of Consumer Culture», vol. 22, n. 3. 

Eleonora Chiais e Riccardo Fassone, La moda e il videogioco: una contaminazione culturale, in A. D’Aloia e M. Pedroni (a cura di), I media e la moda. Dal cinema ai social network, Carocci, Roma 2022. 

Hildi Hendrickson, The ‘long’ dress and the construction of herero identities in Southern Africa, in «African Studies», vol. 53, n. 2, 1994, pp. 25-54. 

Clare Hunter, I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna di un ago, trad. it. C. Prosperi, Bollati Boringhieri, Torino 2019. 

Antonella Mascio (a cura di), Fashion games. Moda, gioco e virtualità, FrancoAngeli, Milano 2012.

Pubblicato il: 20/03/2025

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