(Il fascino discreto delle)
ESTINZIONI VIDEOLUDICHE
Il futuro è il regno di tutto ciò che è potenziale. Persino un passato potenziale può trovare sede nel futuro. Come nel caso di Nanosaur (1998), un videogioco in cui in un lontano futuro – l’anno è il 4122 dopo Cristo – i dinosauri sono i padroni della terra. Riportati in vita da un gruppo di scienziati umani, proprio poco prima che una catastrofe portasse all’estinzione dell’umanità, questi dinosauri si sono trovati in possesso di una notevole intelligenza, ma anche di un grosso problema da risolvere: sono costretti a rapporti tra consanguinei, essendosi originati da un ristretto gruppo. Decidono pertanto di compiere un viaggio indietro nel tempo per prendere cinque uova dai loro antenati, milioni di anni prima.
C’è anche un seguito, Nanosaur 2: Hatchling (2004), in cui si scopre che quattro delle preziose uova sono state rapite da un gruppo di ribelli, intenzionati a creare un esercito per conquistare il mondo. Ma non è tanto questo a interessarci. Ciò che si vedrà in questo caso sono alcuni esiti – con un’attenzione soprattutto per alcuni dei più atipici e significativi – dell’estinzione, per come viene presentata nei videogiochi. Estinzione umana, in primo luogo, ma anche estinzione provocata dagli esseri umani e apocalissi senza estinzione.
La carineria postumana
Tokyo Jungle (2012) è un videogioco di cui ci si dovrebbe ricordare più spesso, e non solo come utile esempio di prodotto videoludico legato all’estinzione. Nel gioco bisogna prendere il controllo di un animale (scelto tra un gran numero di creature differenti) e farlo sopravvivere in una Tokyo senza più esseri umani. Per dovere di cronaca, gli umani in Tokyo Jungle non sono propriamente estinti: sono scomparsi in seguito a un esperimento fallito che avrebbe dovuto riportarli indietro nel tempo. Questo si scopre verso la fine della story mode, ma è come se fossero estinti: non c’è più traccia di loro, non esistono più, le loro città sono abbandonate e vengono man mano invase da piante e da animali.
L’ultima missione della modalità storia riguarda un cane robotico, ERC-003, chiamato a decidere se riportare indietro gli esseri umani o rifiutarsi di farlo, lasciando che siano gli animali ad abitare Tokyo.
Riporto un passaggio del contributo The Cute Shall Inherit the Earth. Post-Apocalyptic Posthumanity in Tokyo Jungle di Kathryn Hemmann (presente nelvolume miscellaneo Introducing Japanese Popular Culture) su questo gioco: «The return of humanity is thus configured as the “bad ending,” while the banishment of humankind is the “good ending.” From the beginning to the end of Tokyo Jungle, the player is thus encouraged to sympathize with animals instead of humans, especially since the empowerment of animals is characterized as being directly tied to the absence of humans. After hours of playing through the stories of the various species that have come to inhabit Shibuya, the player has presumably been influenced to experience the extinction of the human race as a crowning achievement for animals as the end credits roll».
Arrivati alla fine del gioco, insomma, si segue il punto di vista degli animali: il ritorno degli umani è il bad ending, il good ending mantiene invece il regno animale. Ed è, per essere precisi, il regno degli animali “pucciosi”. Ovviamente non lo sono tutti quanti quelli selezionabili ma – come giustamente segnala Hemmann – il gioco è presentato tramite animali come il volpino di Pomerania, facilmente etichettabili come “cute”, e anche creature come leoni e coccodrilli appaiono piccole e tutto sommato “carine” tra le strade di Shibuya.
Dare una definizione universale di ciò che sia cute è difficile, forse impossibile. Mi limito a riportare un rapido passaggio dell’introduzione al libro The Aesthetics and Affects of Cuteness di Joshua Paul Dale et al.: «cuteness may be best understood as an appeal — intentional or unconscious, made by an animal- or human-like entity — that seeks to trigger a particular affective response». Mi rendo conto che possa apparire generico, ma è sufficiente per capirsi. Qualche anno prima di Tokyo Jungle, un altro videogioco aveva mostrato un mondo dominato dagli animali, dopo l’estinzione degli esseri umani: Inherit the Earth: Quest for the Orb (1994). Ci sono parecchie differenze tra i due prodotti, tra cui il fatto che gli animali di Inherit the Earth sono stati antropomorfizzati e hanno acquisito saperi e competenze da umani. Anche nel loro caso, tuttavia, si riscontra la stessa idea riguardante il fatto che a ereditare il pianeta saranno degli animali che, nell’immaginario generale, sono tipicamente “carini”. Come le volpi.
E le biomacchine di NieR: Automata (2017)? Non sono forse a loro volta ben lontane dall’uncanny valley e decisamente cute? E, anch’esse, hanno dominato il mondo dopo la scomparsa degli esseri umani. Gli androidi loro avversari, ben più simili agli umani, sono principalmente relegati su una stazione orbitante e hanno solo alcune basi temporanee sulla superficie del pianeta.
Sembrerebbe esserci, almeno in alcuni casi, anche un rapporto diciamo “quantitativo” tra la cuteness e l’estinzione umana. I mondi di NieR: Automata, di Inherit the Earth e di Tokyo Jungle possono essere più o meno danneggiati e presentare ancora tracce della presenza umana, che infesta di senso gli edifici e i luoghi, ma sono – con gradazioni differenti – anche mondi in cui la natura va a riconquistare ciò che è suo, in un modo o nell’altro.
Laddove, invece, il pianeta risulta ben più compromesso, ecco che anche la cuteness si riduce. Primordia (2012) è un altro mondo post-umano dominato dai robot, ma è un ambiente devastato, in cui abitano entità robotiche meno “carine” rispetto alle biomacchine di NieR: Automata, per quanto venga comunque preservata una certa cuteness. Similmente con gli animali: dove il conflitto atomico è predominante e vicino, sono gli scarafaggi a sopravvivere, come in Journey of a Roach (2013) e Radical Roach (2014). Scarafaggi più o meno antropomorfizzati e tutto sommato cute, ma pur sempre scarafaggi, per cui con uno slittamento – in un esempio di «specismo di secondo grado» (si veda il contributo di Valerio Pocar in Emotività animali) – rispetto ai tipici animali “carini”.
Torniamo alla realtà. Dopo ogni estinzione di massa della storia, la biodiversità è esplosa come e più di prima, spesso prendendo strade molto differenti dalle precedenti. La più grande estinzione di massa è stata quella del tardo Permiano, circa 250 milioni di anni fa, con la scomparsa di oltre l’80% dei generi. La ripresa fu molto lunga, ma portò a un incremento della biodiversità mai visto in precedenza. Certo, simili catastrofi hanno mietuto un gran numero di specie, ma vederle come “vittime” significa attribuire caratteristiche umane a un processo naturale, che non opera in questi termini.
Se però volessimo umanizzare il tutto, forse i trilobiti erano meno cute dei dinosauri, che a loro volta erano meno cute degli esseri umani. E quando questi ultimi si saranno levati di torno – o autodistruggendosi o perché condannati dal loro stesso linguaggio (come vedremo a breve) – arriverà qualcuno o qualcosa che sarà ancora più cute. O che si percepirà come tale. O magari, invece, i trilobiti vi diranno che la bellezza sta negli occhi di chi guarda.
Condannati dal linguaggio
È stata citata poco fa questa condanna del linguaggio umano. Riporto, di seguito, un estratto della conclusione di un libro di Antonino Pennisi e Alessandra Falzone, significativamente intitolato: Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive:
«La pseudospeciazione linguistica va quindi considerata una patologia ecologica unica nel panorama animale. Essa può portare all’annientamento dell’intera specie umana per due cause specifiche intrinsecamente connesse all’ontologia linguistica:
1) Perché la sua organizzazione sistematica richiede l’elaborazione di una gigantesca massa di espliciti contenuti rappresentazionali in cui i conspecifici devono riconoscersi come elementi dotati, contemporaneamente, di un’individualità e di una socialità condivisa: opinioni religiose, politiche, ideali, norme giuridiche, convinzioni filosofiche, etiche, estetiche, artistiche ecc.
2) Perché l’insopprimibile conflittualità che scaturisce da queste opinioni e credenze imposte dalla mediazione simbolica del linguaggio viene resa potenzialmente letale dalla natura intrinsecamente tecnomorfa del linguaggio».
Il linguaggio – semplifico – ci obbliga a comprendere e decodificare il mondo in un determinato modo, incredibilmente articolato e complesso, capace di portare allo sviluppo costante di nuove tecnologie, ma è anche qualcosa di iperspecialistico e, pertanto, evolutivamente molto pericoloso e limitante. Al tempo stesso, mentre ci si divide in variegate e sempre più complesse “pseudospeciazioni” culturali, a partire dalle lingue parlate, l’ubiquità degli esseri umani sul pianeta impedisce loro di generare delle effettive nuove specie.
L’Homo sapiens è un concentrato di anomalie evolutive da un lato affascinante ma dall’altro ben poco rassicurante. Le precedenti specie di ominidi, per esempio, si sono estinte molto in fretta. Se l’Homo erectus e l’Homo habilis sono arrivati almeno al milione di anni (in linea, cioè, con la media dei mammiferi), dopo di loro il tempo si è ridotto sempre di più (ho preso i dati sempre dal libro di Pennisi e Falzone). Siamo in fondo a un ramo evoluzionistico, senza possibilità di ulteriore speciazione, e con dei “padri” che hanno avuto una vita molto breve. Potrebbe non servire nemmeno scomodare il cambiamento climatico o la guerra atomica, insomma, per assistere all’estinzione dell’umanità. Sarebbero ‘solo’ dei modi con cui velocizzare il processo e calare il sipario un po’ prima del tempo, come colpo di scena per qualche alieno annoiato che ci sta seguendo dal salotto di casa sua.
Nei videogiochi (e non solo) abbiamo visto tantissime estinzioni spettacolarizzate, tra orde di robot autoreplicanti, Razziatori alieni, guerre nucleari e altre amenità assortite. È un modo in fondo forse anche consolatorio per garantirsi un buon finale. Magari degno di biasimo, quando autoprodotto dalle scelte scellerate, ma il biasimo è spesso migliore dell’indifferenza.
E se invece – per esempio – l’entrata dell’umanità nel Consiglio Galattico di Mass Effect fosse non un traguardo, ma l’ingresso in una sorta di ospizio per le specie giunte al termine del loro ramo evolutivo, a causa di quel maledetto vizio del linguaggio? Restiamo qui tutte insieme, noi specie linguisticamente avanzate, e facciamoci compagnia in attesa della fine. Qualcuno passerà a portarci il brodo e forse, se è domenica, una fetta di torta.
Sul più bello arriva l’ecocidio
Il fatto che gli esseri umani sembrino programmati per l’estinzione non significa che non possano impegnarsi attivamente per velocizzare il processo, come accennato. E non solo nella nostra madrepatria terrestre. Facciamo un esempio.
Un astronauta atterra su un lontano pianeta che dovrebbe essere ricco di vita. Al suo arrivo, però, tutto ciò che vede è una distesa desertica, molto simile alla superficie di Marte. In quell’immensa vastità di sabbia e rocce trova però pali della luce, case e altre tracce di colonizzazione umana. È l’inizio di Lifeless Planet (2014), un videogioco che mostra gli effetti di un ecocidio, ovvero «la distruzione di un intero ecosistema» (Victor Wallis, Ecocidio o socialismo?, «Menelique»). Per riassumere in breve i punti che ci interessano del gioco: il pianeta fu colonizzato da un gruppo di sovietici, giunti lì attraverso un portale; questi coloni utilizzarono una sorta di muschio come fonte di energia, andando a sconvolgere e poi distruggere l’intero ecosistema.
Un caso estremo, sicuramente, molto più radicale di quanto si vede in altri videogiochi, dove gli esseri umani lasciano un ambiente sfasciato ma in qualche modo pronto alla ripartenza, più o meno lenta e complessa, proprio come dopo le grandi estinzioni di massa della storia.
L’ambiente che si vede in Endling – Extinction is Forever (2022) è certamente compromesso e l’idea di giocare nei panni dell’ultima mamma volpe del pianeta fa stringere il cuore. Prima o poi, però, gli esseri umani si leveranno di torno e arriveranno nuove specie. Che già continuano a differenziarsi, nel mondo reale, non c’è solo l’estinzione.
C’è sempre una precisa scelta, legata al desiderio o meno di suscitare certe reazioni (anche giustamente, verrebbe da dire, in un’ottica di awareness), nel definire la finitudine di piante e animali in un mondo videoludico. L’ultima volpe di Endling è obbligatoriamente ultima, insieme ai suoi cuccioli, questa viene posta come condizione narrativa di partenza. Ci sono videogiochi, soprattutto open world, dove piante e animali figurano come “risorse” e non si esauriscono mai, perché hanno un costante respawn. E ci sono videogiochi dove figurano come “risorse” in numero finito, ma con valenze opposte.
In un articolo accademico, Erik Van Ooijen distingue i piccioni di Grand Theft Auto IV (2008) e i bufali di Red Dead Redemption (2010). Entrambi sono presenti in numero finito (duecento), ma i primi hanno grosso modo la funzione di “collezionabili”, inseriti all’interno di una missione. Non c’è invece un’esplicita missione riguardante l’eliminazione di tutti i bufali, sebbene ci sia un achievement, per cui diviene comunque un traguardo obbligato per i completisti. Ma, soprattutto, il traguardo dei duecento piccioni dà un senso di sollievo e di completamento. Forse anche perché sappiamo di non averli fatti proprio estinguere (ci saranno sicuramente altri piccioni in giro, anche se non li vediamo) e forse per quel già citato specismo di secondo grado (per molte persone un bufalo è probabilmente più “simpatico” di un piccione).
Ma in ogni caso il mondo va avanti anche senza bufali e senza volpi. E anche senza piccioni. Così come una partita di Age of Empires II: The Age of Kings (1999) va avanti anche dopo che l’ultimo animale presente è stato abbattuto e l’ultimo albero tagliato. Per quanto sia una situazione assai poco frequente, e in cui nessuno vorrebbe trovarsi, si può alimentare ancora il sistema generando oro (principalmente da reliquie e rotte commerciali) e scambiandolo con la legna, con cui costruire fattorie per il cibo, ecc. I portoghesi, introdotti nell’espansione The African Kingdom, possono anche costruire un edificio, la Feitoria, che continua a generare passivamente risorse. E i Gurjaras introdotti con Dynasties of India possono generare cibo lasciando gli animali nei mulini, infinitamente e senza bisogno di ucciderli. A modo suo il mondo va avanti.
Uno degli ecocidi più evidenti è, invece, quello realizzato nel passato di Horizon Zero Dawn (2017), con i robot autoreplicanti di Ted Faro che assimilano tutta la materia organica del pianeta, fino al suo completo collasso. Un collasso a cui segue una rinascita non perché riparte la biodiversità dopo il cataclisma, come nel tardo Permiano, perché non c’è più nulla da cui poter ripartire, ma perché l’iniziativa umana opera per un sostanziale reboot del pianeta.
In Horizon viene compiuto, narrativamente, ciò che fa un giocatore quando in un videogioco lo sterminio e l’estinzione sono andati troppo avanti: chiude la partita, magari ne cancella il salvataggio, e fa partire un new game.
L’apocalisse non è l’estinzione, e viceversa
Parlando di estinzione, uno dei primi concetti che probabilmente viene in mente a molte persone è “postapocalittico”. Eppure ci si può estinguere anche senza apocalisse, come nel caso dei bufali di Red Dead Redemption. E si può avere anche un’apocalisse senza estinzione.
Il mondo di The Legend of Zelda: The Wind Waker (2002) è per esempio un mondo videoludico postapocalittico, sebbene sono abbastanza sicuro che non sia il primo esempio di questa categoria nella testa di molti, forse anche perché non si vede un ambiente così devastato o sofferente (e forse anche per lo stile toon). Però è un mondo che ha vissuto una grandissima catastrofe apocalittica, con connotazioni anche biblico/mitiche (il diluvio universale, presente in moltissime tradizioni differenti). Si saranno probabilmente estinte diverse specie, ma il mondo è comunque andato avanti e ha trovato un nuovo equilibrio.
Anche Elden Ring (2022) è un mondo postapocalittico, ben definito in tal senso dalla presenza di rovine. Ed è – come la maggior parte dei “Souls” – un mondo stratificato, la cui osservazione è simile alla stratigrafia del suolo, in cui sono visibili le tracce di differenti periodi. Le civiltà vanno e vengono, ne restano solo rovine e ricordi, così come alcune specie si riducono a qualche esemplare isolato nascosto nel fondo di una caverna, ma non c’è un ecocidio. Nemmeno la piaga della marcescenza scarlatta riesce ad annientare totalmente un ambiente: lo corrompe, lo trasforma in maniera terrificante, ma al suo interno la vita rimane.
Le terre di Caelid somigliano in effetti molto più al tipico scenario post-apocalittico che si ha in mente: mondi come quelli delle serie Fallout e Metro, piene di pericolose aberrazioni mutanti che, però, vanno comunque a fondare un nuovo ecosistema, fatto di cani con teste giganti, di mostruosità fungiformi, di insettoni giganti inaspettatamente devoti e di altri piacevoli abomini. Un ecosistema in cui nessuno vorrebbe vivere, ma che a suo modo brulica comunque di vita.
Ci sono minacce videoludiche ben più radicali e pericolose della marcescenza scarlatta, insomma, in termini di estinzione, per quanto possa generare un ambiente assai postapocalittico. Come l’impatto del sedere di una amazzone sovrappeso col suolo in Gotta Protectors: Amazon’s Running Diet (2017), breve e oscuro spin-off di Gotta Protectors, nel cui game over si vede la terra spaccata a metà per il colpo subìto. Sarebbe una significativa aggiunta per il libro sui sederi videoludici (Things I Learned from Mario's Butt di Laura Kate Dale). E come esempio alquanto atipico di un’apocalisse annientante.
La pericolosità videoludica ha una scala tutta sua, spesso imperscrutabile.
Pubblicato il: 10/10/2022
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