Un punto di riferimento per la preservazione del videogioco
Sfogliando la libreria di giochi sviluppati da Digital Eclipse è facile rimanere quantomeno confusi. Tra gli ultimi lavori della software house si trova ad esempio un tris di minuscoli titoli arcade “ispirati dalle vibrazioni da sala-giochi tipiche degli anni ‘80”. Sono disponibili solamente su Steam, costano una manciata di euro, e non possono che essere definiti fiacchi o inconsistenti, a esser buoni. Di fatto, sono usciti praticamente senza lasciar traccia.
E poi c’è Wizardry, il remake in accesso anticipato dell’omonimo classico del 1981: Proving Ground of the Mad Overlord. Wizardry è un dungeon crawler uscito in origine su Apple II, e rappresenta uno dei primi tentativi di digitalizzare i Giochi di Ruolo pen&paper che tanto spopolavano a quei tempi. La versione di Digital Eclipse sfoggia ambienti e nemici modellati in 3D, per un colpo d’occhio che mi ha ricordato il sempre ottimo Legend of Grimrock (titolo che dodici anni fa ha provato a riportare in auge un genere sostanzialmente scomparso). Wizardry è il primo e unico gioco in Early Access di Digital Eclipse, e personalmente non riesco a capire pienamente la scelta di optare per questa strategia di pubblicazione, insolita non soltanto per il team ma anche per la categoria di appartenenza del prodotto (la versione reimmaginata di un classico, sostanzialmente).
Se c’è una cosa che accomuna gli ultimi titoli pubblicati dallo studio, in ogni caso, è una evidente passione per i primordi del videogioco, per quella stagione di fermento tecnico e creativo che ha contribuito a forgiare tutta l’industria. Forse non è un caso, allora, che Digital Eclipse abbia ideato una delle più originali ed efficaci forme di celebrazione e conservazione videoludica che io ricordi.
The Making of Karateka è uno strano miscuglio di vari elementi: dentro ci sono filmati d’epoca, interviste, documenti, giochi restaurati e giochi classici, un podcast, frasi estratte da un vecchio diario mai pubblicato, gallerie di artwork originali. Tutti dedicati, come si intuisce dal nome, al primo videogioco di Jordan Mechner – quel Karateka che nel 1984 lasciò un segno profondo sul mercato e aprì nuove prospettive per molte menti creative che lavorano sul software.
A rileggere la breve descrizione di qualche riga sopra, in ogni caso, The Making of Karateka sembra un’accozzaglia di oggetti accatastati uno sull’altro, una serie di memorabilia videoludici esposti all’interno di una wunderkammer digitale. È proprio questa sua natura eterogenea e molteplice a dare filo da torcere a chi sente il bisogno di incasellare il titolo in una categoria: non è propriamente un documentario, non è solamente una raccolta, non è banalmente una versione rimasterizzata. È tutto questo e anche di più: un’esperienza interattiva che assume i tratti di una mostra virtualizzata, fatta di stanze tematiche, di estetiche e percorsi, accompagnata da una dose abbondante di reperti e paratesti.
Diversamente da quanto accade per un’esposizione fisica, che si svela progressivamente mentre si seguono le suggestioni dei curatori, qui si ha subito una visione d’insieme: si esplorano rapidamente i menù, si accede alla “stanza” che raccoglie tutti i software giocabili, e si capisce di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo nel panorama della preservazione videoludica. Per innamorarsi di questa formula bastano pochi minuti: con vorace curiosità si comincia a seguire la scansione temporale di questo documentario interattivo, assorbendo pezzo dopo pezzo una serie di informazioni che contribuiscono a delineare le caratteristiche del progetto e l’ambiente videoludico di quarant’anni fa. Lo voglio dire senza mezzi termini: il trasporto con cui si segue la storia del giovane Mechner e del suo Karateka (anzi, prima ancora, del mai pubblicato Deathbounce) è quasi stupefacente, se si pensa a quanto siano lontani i tempi di Apple II. Lo dico da giocatore che con Karateka e con quella generazione di videogame non ha un legame particolarmente forte: sono usciti prima che io nascessi, ci sono entrato in contatto solo tardivamente e per pura curiosità storica. Persino il primo Prince of Persia, per me, non è stato un gioco di quelli che posso definire fondativi (o formativi): io ho cominciato con Another World, Fate of Atlantis, saltando a piè pari o quasi tutto quello che è stato pubblicato prima degli anni ‘90.
Sono anche convinto che la passione per il retrogaming abbia dei limiti: ci sono software così primordiali che oggi sono praticamente irricevibili, e credo che Karateka si muova pericolosamente su quel confine. Per riscoprire i giochi usciti a cavallo fra gli anni ‘70 e ‘80, sostanzialmente, bisogna dedicarsi ad un tipo di archeologia videoludica che deve rinunciare molto spesso alle finalità ricreative in nome di quelle culturali. Eppure The Making of Karateka io l’ho sostanzialmente divorato. Non solo: mosso dall’entusiasmo per lavoro di Digital Eclipse mi ha risvegliato, mi sono fiondato anche su Atari 50: The Anniversary Celebration, un titolo pubblicato a novembre 2022 e che rappresenta il punto di svolta della produzione del team. Sebbene The Making of Karateka abbia ricevuto molta più attenzione da parte del pubblico e della stampa, è proprio Atari 50 che lancia il nuovo formato di cui parlavo.
Anche negli anni precedenti a questa pubblicazione Digital Eclipse aveva lavorato a raccolte più che discrete: The Cowabunga Collection, Blizzard Arcade Collection, Disney Classic Games Collection. Come si intuisce dal nome, si trattava di antologie molto tradizionali, che tradivano comunque una sincera passione per la materia: includevano bozzetti, scansioni dei manuali originali, in certi casi anche una serie di filtri che permettevano di approcciarsi ai vari giochi inclusi con uno spirito piacevolmente filologico. Mancava però lo spunto, il guizzo creativo che invece detta il passo di Atari 50 e The Making of Karateka.
Entrambi i “giochi”, per spiegare meglio i loro punti di forza, sono efficacissimi nel creare suggestioni che stimolino la curiosità e il senso di scoperta, ovviamente per chi è appassionato della materia. I primi filmati di Atari 50 mostrano un giovanissimo Nolan Bushnell che è non solo concentratissimo sulla dimensione economica e commerciale dei suoi prodotti, ma è anche attento a trovare una definizione per i primi videogame, rifiutando in maniera categorica di utilizzare parole legate all’ambito del gioco: "innovative leisure" fu la sua trovata per allontanarsi – almeno a livello di immagine – dal lessico legato ai giochi elettromeccanici e provare a convincere il grande pubblico ad avvicinarsi ai cabinati di Pong. Quarant’anni più tardi la terminologia che utilizziamo, in netto contrasto con l’intuizione di Bushnell, è indubbiamente un freno per l’adozione di massa e il riconoscimento culturale del nostro medium.
Atari 50, in ogni caso, parte dalla fondazione della compagnia (anzi: di Syzygy) e procede a raccontare curiosità, fallimenti e stranezze del mercato dell’epoca: un Super Breakout portatile mai pubblicato, una console olografica anni prima del Virtual Boy (anche quella mai distribuita), il primo videogioco Atari ideato da una donna, il cabinato che inaspettatamente ispirò il classico Simon (giocattolo elettronico finito nelle case di molti bambini ben prima di qualsiasi altra console).
Si arriva, lungo un percorso che si sofferma anche sui momenti più bui dell’industria, fino ai tempi dell’Atari Lynx e del Jaguar... due macchine che per molti utenti rimangono estremamente misteriose, visto il numero irrisorio di unità distribuite e i prezzi ancora altissimi per chi vuole acquistarle. Atari 50 è una raccolta di grande valore anche perché permette di curiosare attivamente nelle line-up di tante console, dal momento che include 109 videogiochi che raccontano varie epoche e generazioni. Ma visto che i prodotti di Digital Eclipse non vogliono proprio lasciarsi definire con semplicità, anche in questo ambito c’è qualche sorpresa: accanto a un gran numero di giochi in versione originale si trovano delle edizioni rimasterizzate (Yars’ Revenge Enhanced) in cui saltare dalla grafica moderna a quella classica, digitalizzazioni di giochi elettronici portatili (Touch Me), e persino titoli sviluppati da zero per omaggiare l’eredità di Atari. VCTR-SCTR (si legge Vector-Sector) è un folle tributo al neon che comincia come Asteroid, prosegue come Luna Lander e poi si trasforma in Tempest, celebrando anche esteticamente la bellezza della grafica vettoriale (lo sapete che c’è una generazione che ancora dibatte su quale fosse – tra Raster e Vector Graphic – la tecnica di rendering più bella per i cabinati arcade?).
A dirla tutta da questo punto di vista The Making of Karateka è un prodotto estremamente più povero rispetto ad Atari 50. Comprensibilmente. All’interno si trovano alcuni prototipi di Deathbounce (clone di Asteroid con cui il giovane Mechner si era convinto di poter sfondare sul mercato), e poi una manciata di versioni differenti del gioco e di conversioni per le macchine più diffuse alla metà degli anni ‘80. Passato il senso di stupore per la meticolosa ricostruzione del processo produttivo che tutte queste versioni delineano, ci si rende conto che tutte si giocano alla stessa maniera, per un’esperienza che oggi non definirei particolarmente significativa. Così come poco incisiva è l’edizione remastered proposta da Digital Eclipse, sostanzialmente inalterata nella struttura e nelle meccaniche e quasi sovrapponibile alle altre sei versioni incluse. Paradossalmente è più interessante il lavoro di restauro fatto su Deathbounce; anche perché arriva – se si segue il percorso tratteggiato dal team – alla fine della storia che racconta il fallimento integrale del progetto: come fosse una sorta di piccolo riscatto per un prodotto mai nato, che dopo oltre quarant’anni vede la luce in una versione molto vicina alla visione originale del suo creatore.
Al netto di questa disparità fra Atari 50 e The Making of Karateka, ho largamente preferito il secondo al primo.
In The Making of Karateka emerge potentemente la componente umana e creativa dello sviluppo. Fra i tanti contributi video inseriti all’interno di questo percorso quasi museale, i più belli sono quelli in cui Jordan Mechner ricorda i tempi del college e la produzione di Karateka assieme al padre, Francis Mechner. Lo stesso Francis aveva contribuito allo sviluppo non solo componendo la musica del gioco, ma anche prestandosi come attore durante le sezioni di “motion capture” che avrebbero poi permesso di animare i personaggi grazie alla tecnica del rotoscopio.
In qualche modo la storia di Karateka è in realtà la storia di una famiglia, o meglio quella di un padre che sprona e incentiva la fervente curiosità del figlio, anche se rivolta a un medium che forse non comprendeva fino in fondo. In un momento storico in cui molte generazioni faticano a considerare i videogiochi come uno strumento espressivo, è quasi commovente scoprire la storia di un genitore che aveva deciso di supportare il proprio figlio con mente aperta e grande ricettività.
Ci sono stati diversi momenti, in The Making of Karateka, che mi hanno fatto scendere un brivido lungo la schiena, soprattutto legati alle registrazioni in superotto eseguite – come dicevo – per animare i personaggi. Impresso su quelle pellicole c’è un giovane Jordan che dirige i lavori col piglio deciso di un producer in erba, oltre alle versioni reali di animazioni che avevo visto decine di volte e ormai interiorizzato.
Il focus delle interviste e i materiali selezionati sono perfetti per far emergere l’unicità di Karateka, che oggi sarebbe altrimenti difficile da cogliere. Il Making of spiega perfettamente come mai l’idea di un incedere narrativo fosse così pionieristica. L’inserimento di un commento dedicato alla componente musicale, realizzato da Kirk Hamilton (se non avete mai ascoltato il suo podcast Strong Songs correte a recuperarlo), si concentra invece su inattese correlazioni tra il gioco e il concetto di leitmotiv wagneriano.
Non si potrebbe insomma chiedere nulla di più a The Making of Karateka, che include persino i documenti di design relativi a un seguito mai sviluppato, e un violentissimo filmato fan-made realizzato nel 1985 con il motore di gioco, brevemente commentato dall’autore.
Quando ho chiuso il software, dopo quattro ore di intensa esplorazione, mi sono sentito molto arricchito, e ho avuto la percezione di trovarmi di fronte a un nuovo modo di esplorare la storia videoludica. Una sorta di documentario puntiforme, un ipertesto nel senso più pieno del termine; una raccolta che racconta il videogame sfruttandone i meccanismi principali: l’interattività, il senso di completamento, gli achievement. È un utilizzo brillante di quella che viene indicata come gamification, che genera un prodotto tutto nuovo: lo si potrebbe chiamare, se mi permettete una proposta un po’ spericolata... ludomentary.
Ho letto molte opinioni relative al fatto che la formula ideata da Digital Ecplise sia persino preferibile a quella del documentario classico. Personalmente eviterei le considerazioni più estreme e mi limiterei a dire che si tratta di un percorso alternativo, con le sue specificità, che spero comunque di veder calcato sempre più spesso in futuro. Trattandosi di prodotti commerciali questi software non risolvono ovviamente tutti i problemi legati alla preservazione videoludica: in Atari 50, per esempio, non ci sono alcuni titoli fondamentali per questioni di licenze (Star Wars, Raiders of the Lost Ark), di diritti (Marble Madness è proprietà di Warner Bros) o di semplice opportunità (ET è stato considerato poco interessante, anche se per Atari è stato un progetto a suo modo… impattante). Restano però un passo nella giusta direzione, per quanto riguarda conservazione e divulgazione.
Sono un po’ preoccupato dal fatto che Atari - proprio a seguito del buon successo dei titoli firmati Digital Eclipse - abbia acquistato la software house un paio di mesi fa. L’acquisizione garantirà un più facile accesso a certi codici, documenti e personalità, ma impedirà probabilmente allo studio di concentrarsi su altre aziende, altre console, altre stagioni dell’industria.
Al momento, comunque, conosciamo già il prossimo titolo che farà parte della Gold Masters Series, dicitura con cui Digital Eclipse ha etichettato The Making of Karateka anche per sottolineare la distanza con Atari 50: si tratterà di un’altra monografia, dedicata a Jeff Minter e alla sua Llamasoft. Per chi non lo conoscesse, si tratta di una delle personalità più eclettiche, visionarie e… psichedeliche del mondo videoludico.
In attesa dei piani a lungo termine per lo sviluppo di questa serie, la speranza è che The Making of Karateka possa rappresentare – con la sua timeline interattiva e la capacità di organizzare e catalogare documenti diversissimi, con la sua delicatezza nel raccontare la storia delle persone che stanno dietro al software – se non un nuovo standard per chi voglia assemblare una raccolta videoludica, almeno un modello a cui aspirare.
UNA QUEST DURATA QUARANT'ANNI
Nel 1982 uscì il primo gioco della serie Swordquest, una delle operazioni commerciali più assurde dell’intera storia dei videogiochi.
Due anni prima Atari aveva pubblicato Adventure, che di fatto possiamo considerare uno degli archetipi del moderno gioco d’avventura. L’avatar era rappresentato da un semplice sprite quadrato, e gran parte dell’investimento tecnico e creativo era focalizzato sulla realizzazione dei nemici, tre draghi e un pipistrello che scandagliavano le aree di gioco.
Adventure era stato ideato come una “rilettura” di Colossal Cave Adventure, avventura testuale uscita nel 1977, e riscosse un grande successo non solo perché riuscì a interpretare – nonostante la grafica primordiale – la fantasia dell’eroe impegnato in una quest soverchiante, ma anche per la presenza di un easter egg – uno dei primi della storia videoludica – che fu scoperto e documentato dai giocatori qualche tempo dopo l’uscita. Il mito attorno a questo easter egg, niente più che il nome del creatore nascosto in una stanza celata, ha ispirato anche uno degli elementi centrali del racconto di Ernst Cline, Ready Player One.
Fatto sta che il sequel di Adventure, annunciato all’inizio del 1982, fu trasformato in qualcosa di diverso, da un’azienda che in quell’epoca sembrava voler cavalcare ogni occasione commerciale. Nel dicembre di quell’anno uscì quindi Earthworld, capitolo iniziale di una quadrilogia che avrebbe dovuto completarsi con Fireworld, Waterworld e Airworld. I quattro giochi non si limitavano a comporre la serie Swordquest, ma facevano parte di una grande iniziativa che abbracciava, ante litteram, cross-medialità e competizione quasi “esportiva”. Parte della strategia promozionale di Swordquest puntava infatti sulla presenza di un fumetto, realizzato da DC Comics, che serviva come introduzione delle vicende. Alla fine di ogni avventura si trovava poi un puzzle che permetteva, se risolto correttamente, di accedere a un torneo speciale: una sorta di speedrun disputata su una versione speciale del gioco programmata per l’occasione. Per ogni gioco si sarebbe dovuto disputare uno specifico torneo, e i vincitori dei quattro tornei, oltre a ricevere dei cimeli fantasy in oro massiccio, avrebbero disputato poi una finale per contendersi il possesso di una spada ornata – The Sword of Ultimate Sorcery – dal valore di cinquantamila dollari.
L’iniziativa di Sworquest partì col piede giusto: otto concorrenti per il torneo di Earthworld, settantatré (poi ridotti a cinquanta) per quello di Fireworld, uscito a pochi mesi di distanza dal primo titolo, più precisamente nel febbraio del 1983. In quello stesso anno arrivò anche qualcos’altro: la crisi dell’industria e gli scandali che coinvolsero l’allora CEO Ray Kassar, accusato di insider trading. Del progetto Swordquest fu pianificata la cancellazione, ma i legali della compagnia suggerirono di portarlo avanti per evitare ritorsioni legali, visto che il grande concorso era già stato sponsorizzato.
Una versione non proprio stabile di Waterworld fu distribuita solo ai membri dell’Atari Club, e si arrivò comunque a disputare il torneo. Non è chiaro se il vincitore abbia mai ricevuto la corona dorata che rappresentava il premio per quella tappa. Successivamente Atari decise di interrompere definitivamente la competizione e lo sviluppo di Airworld, compensando i vincitori dei precedenti tornei con una somma abbastanza cospicua.
Quella di Swordquest è una delle storie più curiose dell’industria videoludica di quei tempi, a mio modo di vedere persino più interessante della questione legata al fantasioso smaltimento delle cartucce di ET. Resta infatti misteriosa la sorte di alcuni dei cimeli prodotti per il torneo: la “pietra filosofale” di Airworld, la corona di Waterworld e la Spada definitiva che solo “il piccolo grande mago” di Swordquest avrebbe potuto sollevare al cielo in segno di vittoria. Sarebbe interessante indagare più a fondo sulla questione, cercare di capire se questi oggetti esistono ancora oppure se sono stati fusi o distrutti.
Questa lunga parentesi all’interno di un articolo che parla della produzione più recente di Digital Eclipse, in ogni caso, è doverosa per uno specifico motivo: all’interno di Atari 50, nella sezione denominata Reimagined, si trova anche un’edizione completa di Airworld, o almeno un software che mostra come il gioco “avrebbe potuto essere”. Sarà per una questione di ordine mentale, o di particolare affetto per una storia che anche grazie ad Atari 50 viene raccontata al pubblico, ma trovo molto suggestiva l’idea che la serie Swordquest trovi finalmente, a quarantadue anni dall’esordio, il suo completamento.
Pubblicato il: 09/01/2024
Provato su: PlayStation 5
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