FINAL FANTASY VII
REBIRTH
Paul Whiteman, celebre direttore d’orchestra del secolo scorso e noto come “il Re del Jazz”, dopo aver commissionato Rapsodia in Blu a Gershwin disse: “Il jazz solletica i tuoi muscoli, le sinfonie servono a stiracchiare l’anima”. Io non ho mai incontrato Kitase e Hamaguchi, rispettivamente Producer e Game Director di Final Fantasy 7 Rebirth, e quindi non so che impatto possano aver avuto quei 18 minuti di composizione sulla loro visione, ma è certo che l’alternanza folle e a volte improvvisa tra quelle due anime sia la Materia di cui è composto l’ultimo capolavoro di Square Enix. Come provocazione potrei dirvi che se vi piace la Rapsodia, amerete anche questo gioco. Potrei dirvi semplicemente che definirei Rebirth come un capolavoro non per tutti i gusti, un’opera con un cuore gigantesco e con dei valori produttivi ancor più grandi, che però poteva e doveva osare di più e che viene azzoppato costantemente da una serie di lungaggini totalmente inutili e al limite della stupidità che non aggiungono nulla né alla memorabilia dell’esperienza né alla profondità di personaggi e situazioni. Potrei davvero chiuderla qui, molto in breve. Tuttavia, immagino vogliate leggere alcuni sproloqui che vadano nel dettaglio del perché sia così, dei pregi e dei difetti di questo Final Fantasy a modo suo clamoroso e per questo motivo vi accompagnerò per qualche minuto nell’open-world di Gaia, ovviamente evitando spoiler superflui.
Prima di prendere in mano il Dual Sense, però, fatemi e fatevi un favore: mettete i preconcetti in una scatola e lasciateli sulla soglia del menù principale accanto a quella bella Buster Sword o vivrete un’avventura al contrario durante la quale la checklist dei nostalgici impedirà la creazione di una sospensione d’incredulità duratura e non avrete orecchie per ascoltare la musica di questa nuova narrazione.
Final Fantasy 7 Rebirth è un’evoluzione in tutto e per tutto di quanto proposto da Remake, con luci molto splendenti e ombre a volte uguali e a volte diverse dalla sua eredità, e nei punti salienti è “quasi esattamente ciò che speravo fosse”. Nonostante questo, però, sono convinto che alcuni giocatori non arriveranno all’epilogo di questa lunga Parte Due. Capisco la dissonanza di queste affermazioni e anche se sarà impossibile chiarire tutti i dubbi in questa sede, voglio partire da quelle che immagino saranno le curiosità più impellenti, prima di scendere ancor più nella struttura del gioco in sé.
Ho visto scorrere i titoli di coda dopo quasi 75 ore di gioco, dato preso direttamente dal salvataggio, ma in maniera quasi poetica PS5 mi segnala 77 ore di FF7 Rebirth all’attivo. In questo lasso di tempo non ho platinato il gioco, ma sono a livello 50 e di sicuro in meno di 10 ore potrò chiudere tutte le attività secondarie rimaste sparse qua e là. Giocando alla difficoltà massima, ideata per consentire ai nemici di scalare in continuazione in base al livello del party, ho visto poche volte la schermata del Game Over e anche in quel caso il checkpoint più vicino è spesso posizionato un istante prima della lotta in questione. Non si perde tempo. Parliamo dunque di un colosso di contenuti, vasto il triplo in monte ore rispetto al suo predecessore.
Al pubblico italiano, per evitare inutili mal di testa dovuti alla mancata corrispondenza tra ciò che viene detto nel doppiaggio inglese e ciò che si andrebbe a leggere nei sottotitoli, consiglio di fruire dell’opera con doppiaggio originale in giapponese (di fattura eccezionale a dir poco).
Come avvenne per Remake, molti si chiederanno se è presente un NewGame+. Diciamo di sì: l’avventura termina alla Capitale Dimenticata, esattamente come annunciato mesi fa e come previsto dall’inizio del progetto, ma in attesa della terza e ultima parte di questa nuova opera avremo la possibilità di rigiocare Rebirth tramite la Selezione Capitoli con l’aggiunta di una difficoltà opzionale superiore e la possibilità di ripristinare o mantenere intatti i progressi attivi nel salvataggio.
Si evince che accompagnare Cloud e compagnia verso il proprio destino rappresenti un impegno piuttosto serio e altrettanto seri sono molti dei temi trattati lungo il viaggio, alternati al solito umorismo tipico dei Final Fantasy. Square Enix prova con la sua scrittura a toccare il cuore dell’utenza offrendo spunti di riflessione maturi su argomenti quali la guerra, il rimorso, il nichilismo, il miope e insostenibile sfruttamento del pianeta. Spesso poi ci pensa spesso l’orchestra sinfonica a dare il colpo di grazia su tutto il resto: l’amore in tutte le sue forme, la nostalgia, l’esaltazione, la morte. Solitamente pianoforte e violini portano alla pelle d’oca o alle lacrime da nerd a seconda della situazione, poco dopo per fortuna ci pensano un sassofono ben piazzato e i piatti di una batteria col giusto ritmo a spostare lo sguardo da tutt’altra parte, a sottolineare il presente in contrapposizione a ciò che era un tempo. A volte è una piccola band sotto il balcone dopo un flashback a risvegliarci, a volte è un gruppo mal incravattato dentro un bar che ci ricorda cosa è davvero importante alla fine della fiera. Il jazz è travolgente, fa da sfondo o si rende direttamente protagonista di alcuni grandi momenti di umorismo ben congegnato, di tante situazioni stravaganti (minigame compresi) e persino di alcune bossfight inaspettatamente cruciali. Dunque si ride e si piange, si balla dolcemente e si sbattono i piedi a ritmo forsennato, ci si emoziona. Purtroppo, a volte (poche per fortuna) ci si annoia pure.
Parliamo di pacing per un attimo.
Non trovo problematico, di per sé, alternare un momento di fortissima emozione ad alcuni simpatici minigame, piazzati a pochi secondi di distanza. Si tratta pur sempre di Final Fantasy 7 e io mi ricordo benissimo lo snowboarding nel Great Glacier pochi istanti dopo uno dei più grossi colpi al cuore nella storia dei videogiochi.
“Che coraggio”, pensai ai tempi. “Che errore imperdonabile”, penso oggi.
Il vero problema sta nell’inutile e insostenibile lentezza di alcuni passaggi del gioco e quanto vorrei che ciò avvenisse soltanto in qualche sporadica e del tutto opzionale missione secondaria. Attenzione: non sto assolutamente parlando di momenti volutamente lenti, introspettivi, emozionali. Quelli servono ad approfondire personaggi e situazioni, sia nella storia principale che in alcune sorprendenti quest laterali, che sono il cuore stesso di questo spartito. Sono il motivo per cui sono felicissimo che l’opera sia divisa in tre parti, in modo da concedere il giusto spazio a tutto quello che questi pazzi giapponesi vogliono raccontarci e lasciarci nel petto. Invece a volte capita che si spenga del tutto la Musica per qualche minuto, anche se in partita si sente qualche brano dal tono strampalato in sottofondo. Mi riferisco a carretti da spingere che si spostano di un centimetro al minuto anche se a manovrarli è un energumeno di 150kg con delle braccia enormi (un braccio solo e una mitragliatrice, in realtà); a sezioni stealth di una banalità imbarazzante e di una lentezza criminale, totalmente inspiegabili e per niente riuscite; a manopole da aprire e valvole da girare che anziché richiedere la pressione, al massimo per un secondo, del tasto Triangolo costringono il giocatore a soffrire per minuti interi senza il minimo motivo. Mi riferisco al fatto che nonostante la media dei minigiochi disponibili sia piuttosto alta in termini qualitativi, il posizionamento di questa offerta (a volte obbligatoria) avrebbe dovuto tenere in maggior considerazione il ritmo di gioco. Mi riferisco, ahimè, anche ai temutissimi minuti di camminata lenta per accompagnare un PNG da qualche parte o attendere che uno dei poveri “mantelli neri” giunga placidamente a destinazione, con tanti grugniti e molta calma. Troppa calma. Inutile e insostenibile calma.
Personalmente non ho accusato mai, invece, un senso di pesantezza legato alla struttura open-world nello specifico, che non ha mai smesso di divertirmi grazie agli enormi meriti del sistema di combattimento, di cui parleremo alla fine, e dell’armonia con cui tutti i sottosistemi di gioco dialogano costantemente: dal crafting mai fine a sé stesso fino all’esplorazione, dal traversing diversificato per zona alle variazioni nelle attività offerte, tutto canta “gameplay loop ben riuscito”. Che il team di Final Fantasy XVI prenda appunti su questo, cortesemente. Final Fantasy 7 Rebirth inoltre gode di un tassello che mancava totalmente nel Remake del 2020: un level design finalmente percepibile in tutte le zone di gioco, a volte portato a ottimi livelli, a volte a malapena accettabile, ma sempre superiore al predecessore.
Tuttavia sono certo che alcuni recepiranno anche le “torri alla Ubisoft” e la checklist di attività, che Chadley propone al party al fine di completare ciascuna delle vaste aree di gioco, come elementi che a volte rallentano il ritmo della sinfonia finale. Lasciate che vi spieghi brevemente l’idea generale: una volta guadagnato accesso a una nuova area di gioco, ad esempio quella di Junon, la mappa mostra la posizione esatta di queste torri di comunicazione. Attivandole, il giocatore ha immediatamente accesso a tutte le attività disponibili in quel perimetro (più o meno espanso). Non una vaga indicazione, ma un segnalino preciso al centimetro di tutto ciò che c’è da fare, sempre suddiviso in un mix tra, ad esempio, raccolta risorse e battute di caccia con regole specifiche. Alcuni elementi d’esplorazione, tra cui i gufetti che guidano il cammino verso le sorgenti o le pietre evocative che tracciano una via verso le fonti dedicate agli Esper, lasciano intendere che inizialmente in fase di sviluppo ci fosse proprio un’idea più selvaggia di open-world, pensate a Ghost of Tsushima e ai suoi suggerimenti, per intenderci. Con ogni probabilità solo in seguito (forse per paura di avvicinarsi troppo alle 130 ore per il completamento) il team ha optato per una soluzione con indicazioni che non lasciassero spazio ai dubbi. Ottimo per chiarezza, decisamente meno positivo in termini di genuina curiosità verso la struttura a mondo aperto. Questo è uno dei pochi punti in cui avrei voluto più coraggio.
La Rapsodia risuona fortissima nel world building, che mi sento di elogiare a tutto tondo. Difficile immaginare che si possa far di meglio, incalcolabile il numero di dialoghini e il vociferare in ogni “vicolo” di ogni zona, impensabile il numero di NPC con qualcosa da dire, vibrante la coesione tra gli elementi ambientali e le strutture ludiche. Basti pensare a quanto è ben amalgamato nella quotidianità del popolo il Regina Rossa, il nuovo gioco di carte che, come fece il buon vecchio Triple-Triad, ci delizia in maniera intelligente (e con interessanti evoluzioni) dall’inizio alla fine dell’avventura, con una sua sottotrama molto più intrigante di quanto si possa ipotizzare sulle prime, e che pertanto viene decisamente promosso.
Sulla qualità della scrittura mi sono già espresso, ma approfitto di questo contesto per sottolineare che sì, non mancano alcune brevi finestre che ricordano vagamente “Gli occhi del cuore” di Boris, ma fatta qualche eccezione i personaggi, sia del cast principale che quelli secondari, non sono mai stati così apprezzabili e aggiungo senza problemi di aver personalmente preferito queste loro “versioni” a quelle originali. Purtroppo non credo che questa qualità sia stata raggiunta gratuitamente: il prezzo pagato sta nel fatto che molte sottigliezze sono impossibili da cogliere se non si conosce molto bene non solo l’originale Final Fantasy VII del 1997, ma anche tutto l’ecosistema che gli vortica attorno (Crisis Core, Ever Crisis, Advent Children, Dirge of Cerberus ecc.), contrariamente a quanto dichiarato in diverse interviste. Rispetto alle opere del passato, abbiamo modo di scoprire molto più sui nostri vecchi beniamini e di forgiare nuovi legami grazie a una storia appassionante, certamente espansa, ma in gran parte fedele agli avvenimenti del 1997, che riprende la narrazione dalle praterie esterne a Midgar e che si chiude col botto (vedremo quanto discusso e divisivo) in attesa del terzo Atto.
Escluse le ormai celebri “Nomurate”, che per ovvi motivi non affronteremo oggi, ma che non ho neanche disprezzato a dir il vero (sarò in forte minoranza, ma semplicemente “ci avevo visto giusto ai tempi” con le mie teorie e ne ho apprezzato una certa coerenza narrativa), la differenza fondamentale con il Remake è una: lì veniamo introdotti a questo indimenticabile cast di personaggi così diversi tra loro e scopriamo man mano che ognuno rappresenta a modo suo un aspetto della vita, qui invece abbiamo modo di vederli evolvere, imparare gli uni dagli altri, aprirsi, fidarsi o tradirsi, mescolarsi in Materia, senza che nessuno perda il suo tratto distintivo. La melodia con cui ciò si riflette poi anche nel gameplay è pressoché indescrivibile, richiede una certa delicatezza che non si può insegnare. Lo possono fare solo i Maestri. Ritengo importante sottolineare anche che le divergenze non sono totalmente campate in aria stavolta e, anziché spuntare come funghi all’improvviso (Capitolo 18 di Remake sto guardando te), sono impreziosite da momenti di costruzione e suggerimenti sparsi qua e là nel corso della narrazione.
Ad ogni modo, se la storia produrrà una cacofonia nelle orecchie di alcuni e sarà sicuramente oggetto di dibattito, sono altresì certo che ciò non potrà avvenire per la messa in scena. Siamo di fronte a qualcosa di forse mai visto prima e con certamente pochi eguali nell’industria. Anche in questo caso non parliamo di perfezione, ma la qualità generale è di un livello assurdamente elevato e i valori produttivi sono fuori scala, specie nella parte finale. La direzione artistica di Final Fantasy 7 Rebirth surclassa tutti gli altri rumori di fondo, crea il silenzio in sala, apre le porte per la sospensione d’incredulità ed esalta anche gli elementi più deboli alle sue spalle. Tra queste debolezze, a volte, spunta sorprendentemente la grafica. Non fraintendetemi, è sempre al minimo “bello bello” ed è quasi sempre bellissimo. La qualità delle espressioni facciali dei protagonisti è eccezionale ad esempio, ma spesso sono le texture a risultare deludenti e non avendo più il forte limite di dover girare anche su PS4 ci si chiede se non si potesse fare anche quel passettino in più verso la standing ovation.
Applausi per i tempi di caricamento praticamente inesistenti e per tutto ciò che, come avrete già capito da queste righe, concerne il comparto audio. Inutile dilungarsi ulteriormente, aggiungo solo un’ultima nota sulla musica: non è solo accompagnamento, acquista un valore interpretativo e i più attenti riusciranno a decifrare la chiave di lettura di determinate situazioni ascoltando bene. Esalta ovviamente i momenti migliori dell’esperienza e, per esempio, rende indimenticabili alcune bossfight che magari nell’originale del ‘97 non erano, onestamente, niente di che.
Ho volutamente tenuto per ultimo l’assolo più importante, quello del sistema di combattimento. La sua esecuzione è incredibile, è la vera star di questo videogame e riesce a mettere in ombra tutto il resto, risollevando il vento in poppa dell’intero gioco dopo qualsiasi inciampo negli altri elementi, siano essi di gameplay o meno. Si conferma dal Remake come un punto d’incontro ancora insuperato tra azione e tattica a turni, eppure riesce persino a evolversi grazie alla presenza degli attacchi in sinergia con i compagni di squadra, che non sono solo gimmick o fanservice, anzi! È stato anche risolto in buona parte l’odio verso le creature volanti in combattimento grazie a diversi stratagemmi, ed è un bene perché la varietà di nemici offerti risulta ora indiscutibilmente azzeccata. La libertà nelle mani del giocatore è pressoché totale in termini di personalizzazione dell’esperienza di combattimento (sia su chi schierare in battaglia, sia su come usarlo) e gli scontri importanti non sono mai di una difficoltà esagerata, ma richiedono quantomeno che vengano rispettate determinate regole per non incappare in punizioni severe, o di aver padroneggiato quantomeno una parte dell’ampio combat system.
Anche una volta finito il gioco è impossibile averne abbastanza e si tornerà senza dubbio a lottare per finire le sfide lasciate in sospeso prima del finale o semplicemente per ricominciare tutto da capo. Aiutano in questo una telecamera di qualità decisamente superiore rispetto a quanto visto in Remake (complici anche i molti spazi aperti, sicuramente) e la presenza di una sferografia semplicissima e immediata per la gestione delle abilità di squadra. C’è anche un “livello squadra” associato che a sua volta si riallaccia all’esplorazione dell’open-world, che fa il paio con un valore di affinità tra i personaggi per sbloccare, ad esempio, nuove mosse e sinergie… Musica, per l’appunto.
Final Fantasy VII Rebirth è, senza mezzi termini, la miglior produzione di Square Enix degli ultimi 10 anni. Un progetto incredibilmente ambizioso che paradossalmente avrebbe dovuto puntare leggermente più in alto con maggior coraggio, una sinfonia imperfetta che sarà anche divisiva al lancio, ma che risuonerà per molti anni a venire.
Stiracchiate la vostra anima e non lasciatevelo scappare per nessun motivo.
Pubblicato il: 22/02/2024
Provato su: PlayStation 5
Il tuo supporto serve per fare in modo che il sito resti senza pubblicità e garantisca un compenso etico ai collaboratori
FinalRound.it © 2022
RoundTwo S.r.l. Partita Iva: 03905980128