HAROLD
HALIBUT
C’è amore su Solaris
Come mi è successo per molti libri fantasy e di fantascienza, ho letto Solaris di Stanislaw Lem due volte: la prima quando ero bambina, la seconda da adulta. L’ho ripreso in mano quando stavo finendo gli studi universitari. Mi era rimasta impressa nella mente l’immagine di quel pianeta fatto d’acqua e di mistero, un oceano senziente e insondabile, indagato da Andrej Tarkovskij in uno dei suoi film più intensi. Ma mentre il film mi aveva fatto talvolta sorridere per la ricostruzione talvolta un po’ goffa della stazione che orbita sul pianeta, le immagini mentali che da bimba mi ero formata di Solaris erano impeccabili: la solitudine pura e agghiacciante di Kris Kelvin; l’indescrivibilità di quell’oceano che galleggia nello spazio profondo; la triste Harey che lentamente inizia a comprendere che qualcosa non va.
“È successa la Stazione. È successa la Stazione Solaris”
Ed è proprio a Solaris che ho pensato quando, ormai diversi anni fa, sono venuta a conoscenza del progetto di Slow Bros. Una nave spaziale partita in piena Guerra Fredda alla ricerca di un pianeta abitabile dove assicurare la continuazione della specie umana; un guasto imprevisto; la caduta in un oceano misterioso; la necessità di cambiare radicalmente piani rispetto a quanto preventivato, adattando la vita sulla nave FEDORA alla sopravvivenza sottomarina. Ecco – mi dicevo – questi poveretti sono cascati nell’oceano di Solaris. E chissà cosa diavolo ci troveranno dentro.
Per Harold Halibut, protagonista dell’omonimo videogioco, dentro il mare si pulisce, si aggiusta, si pulisce, si riaggiusta, poi si va in cerca di un adattatore, lo si prende e lo si porta a chi ne ha bisogno. Harold è tutt’altro che un canonico eroe videoludico: non è bello, non ha poteri speciali, non ha una missione spettacolare da portare avanti. E la sua unica arma è il cacciavite, con cui dà una mano alla scienziata Jeanne Mareaux e agli altri cervelloni che permettono alla FEDORA e ai suoi abitanti di andare avanti. Lo fa in maniera umile, rispondendo a degli ordini ben precisi: ferma il nastro trasportatore quando sotto al microscopio si trova una roccia rossa, Harold, poi pigia quel pulsante per affettarla, e non dimenticare di spruzzarci sopra un po’ di zucchero per capire se alla roccia piace. Eh sì, i sassi del fondo oceanico sono un po’ particolari.
Ma ci dev’essere qualcosa di più. Dopo due ore di avanti e indietro nel gioco, di su e giù per i tubi che portano da un punto all’altro della FEDORA, mi sentivo frustrata esattamente come Harold. Quand’ecco che il tuttofare viene spedito a pulire la sala dei filtri… Per l’ennesima volta. E resto a bocca aperta quando Harold sfoggia una voce degna del migliore tenore per cantare il suo desiderio di evadere, di smettere di agitarsi in giro per la nave, di interrompere quel ciclo di dormire, svegliarsi, venire cazziato per aver preso l’adattatore sbagliato. Slow Bros. utilizza musiche ed effetti sonori con oculatezza per tutto l’arco della durata dell’avventura di Harold, che mi ha richiesto tredici ore per il suo completamento: è un’attenzione preziosa alla fantascienza dei sentimenti umani, diffratti sapientemente da canzoni originali e su licenza, talvolta anche tratte dalla tradizione popolare. Aspettatevi delle belle sorprese.
Harold Halibut ha una potente dimensione fisica. Nei dieci anni richiesti al team di Slow Bros. (alla sua opera prima) per il suo completamento, gli sviluppatori hanno realizzato pupazzi e modelli di più o meno qualsiasi cosa sia presente nel gioco, per poi digitalizzare e animare il tutto. Chissà quale è stato il momento preciso in cui hanno realizzato che una creazione in pura stop-motion non sarebbe stata possibile per il gioco. Resta la sensazione squisitamente tattile dei personaggi e degli oggetti presenti su schermo, capace di far emergere in maniera costante una preziosa presenza umana nell’oggetto videoludico digitale che il giocatore si trova a fruire.
Questa attenzione alla dimensione delle relazioni umane è visibile anche nell’utilizzo della telecamera. Nelle numerose scene di dialogo – parliamo, dopotutto, di un’avventura narrativa – la visuale è solitamente posta sopra le spalle dei personaggi, alternando l’inquadratura dei volti dei vari partecipanti alla conversazione. C’è uno zoom molto deciso rispetto alle fasi in cui Harold si sposta sulla FEDORA, a testimonianza dell’importanza cruciale di queste fasi in cui l’input del giocatore è decisamente limitato: le scelte di dialogo non sono numerose, e in ogni caso non impattano sul finale dell’avventura. Perché dopo ore e ore di ordini presi più o meno da chiunque sulla nave, Harold prenderà la sua decisione, che vi piaccia oppure no. E, nel mio caso, posso dirvi di averla amata profondamente.
È possibile ignorare del tutto le missioni secondarie che si apriranno chiacchierando in giro con i nostri compagni di viaggio. Sarebbe, però, un vero peccato. Recarci da Buddy, il postino della FEDORA, ci consentirà di gettare uno sguardo sulle vite di chi partecipa (o, in passato, ha partecipato) a questa impresa intergalattica. Perché la FEDORA naviga nello spazio ormai da duecentocinquant’anni quando si aprono gli eventi del gioco: un tempo lunghissimo, che ha portato a un accumulo di emozioni, ricordi, scoperte. È una montagna dolce e dolorosa allo stesso tempo, e non a caso la vicenda umana del postino Buddy si rivela una delle più toccanti di tutto Harold Halibut. Slow Bros. ha scelto una persona che svolge una professione considerata da molti umile – quella del postino – per affidare forse il messaggio più importante dell’intero gioco: che ogni persona sulla FEDORA è un mondo a sé, e che i veri misteri dello spazio si celano dentro i cuori degli uomini e delle donne dell’equipaggio, non negli abissi dello spazio. Il superpotere più grande sta nell’attenzione al prossimo, nella cura per l’altro: un’arte di cui Harold si rivelerà maestro, e che gli sviluppatori di Slow Bros. invitano a perfezionare facendo fermare di frequente il giocatore, portandolo all’ascolto dei personaggi della FEDORA, senza dargli premi tangibili (come oggetti o punti) che avrebbero svilito il messaggio potente di Harold Halibut.
Anche il linguaggio è un potente motore di riflessione, in questo oceano alieno. L’incontro con le forme di vita che lo abitano porterà Harold e gli altri umani della FEDORA a mettere in discussione le loro prospettive esistenziali, comprendendo – ad esempio – che “avere” un pesce non è uguale a “ottenere” un pesce; che “tradurre” è anche “tradire”, e che certi concetti vanno soltanto assimilati, non piegati; che gli umani hanno tante, troppe classificazioni, e a volte bisognerebbe soltanto stare al mondo senza pretendere di incasellare, descrivere, giudicare.
Parlando di lingua, segnalo con dispiacere l’assenza di una traduzione in italiano: ho giocato Harold Halibut in inglese, e sono consapevole del fatto che si tratterà di uno scoglio difficile da superare per molti, anche perché il gioco di Slow Bros. ha una grande mole di dialogo e richiede una certa finezza linguistica per essere compreso e apprezzato appieno.
“La mia dichiarazione d’amore non è una domanda. Semplicemente sta lì”, scrive all’amata uno degli abitanti della FEDORA. Allo stesso modo, Harold Halibut non è una domanda. È una gentile affermazione di un modo di vivere il videogioco senza l’ossessione dei punteggi, dell’ottimizzazione, del viaggio rapido. Fa prosperare le nostre riflessioni nei momenti in cui dobbiamo percorrere la nave spaziale a piedi, cacciavite alla mano, per portare in giro un pezzo di roccia o cercare l’antibiotico giusto per qualcuno a cui vogliamo bene. Il lavoro di aiutante non è per tutti: in molti vorrebbero essere il CEO della propria e dell’altrui esistenza, avere una casa ancora più grande, comprare quel bellissimo e ingombrante fuoristrada che segnalerà il nostro successo nella gara della vita. Harold Halibut è per chi vuole coltivare ascolto e gentilezza; in regalo vi darà un finale indimenticabile e un senso di calore nel cuore che durerà a lungo. Alla fine della fiera, ho capito che quell’oceano non era Solaris.
Era la mia campagna abruzzese, quella di mio nonno che coltivava pomodori con la stessa attenzione e nobiltà d’animo che dedicava alle persone attorno a lui.
Pubblicato il: 15/04/2024
Provato su: PC Windows
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