JUDERO

Ovvero, del motivo per cui amo il mondo del videogioco indie

“Quando tutti i draghi saranno morti, cosa farai, Judero? Il conflitto è prezioso per te, lo percepisco” 

Saining Shee

Il guerriero-druido Judero e la strega Bessie Dunlop sorseggiano una tazza di tè mentre se ne stanno seduti su due grossi funghi. È difficile prendere Judero sul serio: basta poco per accorgersi che è, in realtà, una action figure. Bessie ha la pelle verdastra, un nasone importante e scarso interesse per l’opinione del prossimo. Nel villaggio di Breith si mormora che ci sia lei dietro ai crescenti conflitti sociali che tormentano la popolazione: i mostri che vagano nelle lande, i bambini spariscono, le famiglie sono segnate dalla diffidenza, e gli inglesi stanno premendo con sempre più insistenza nel sud della Scozia, invadendo parte della regione. Ma no, Bessie si limita a raccogliere erbe e parlare con le fate; non c’è lei dietro a tutto questo.

Ci troviamo in una versione di fantasia degli Scottish Borders, piena di bestie del folklore locale, di Fomori provenienti dal mar d’Irlanda, e poi di preti bugiardi, conigli rosa che vagolano a bordo di nuvolette e misteriosi incantesimi. Più di tutto, Judero è pieno delle mani di chi l’ha creato, visibili anche nella schermata d’avvio del gioco mentre sistemano la action figure del protagonista. Si tratta del duo formato da Talha Kaya e Jack King-Spooner, che due anni fa avviarono un Kickstarter che portò 15.000 euro per finanziare questo strampalato progetto: un videogioco d’azione e avventura in cui vestiamo i panni di un guerriero capace di possedere il corpo degli esseri viventi intorno a lui, à la Super Mario Odyssey, per intenderci al volo.

La storia comincia con Judero e Mab – coniglio rosa amico del protagonista – che giungono nel villaggio di Breith, negli Scottish Borders, dopo un lungo viaggio. Ultimamente, il forte accento scozzese va per la maggiore nel mondo videoludico: a fine 2023 avevo apprezzato l’ultima fatica di Inkle, l’eccellente A Highland Song (recuperatelo, se non l’avete ancora fatto!), in cui si percorrono le aspre montagne scozzesi di corsa e in completa solitudine per arrivare al mare in tempo per la festa di Beltane. In Judero, invece, non mancano combattimenti e momenti di dialogo, inseriti nella cornice surreale di un mondo materico che sembra quasi di poter toccare, mentre sullo schermo del PC prendono vita alberi, mostri fatti di creta e poi digitalizzati, personaggi che sembrano usciti da un video dei Tool.

Appena arrivato a Breith, Judero riceve dal prete del paese la richiesta di andare a recuperare nei boschi un neonato rapito da un mostro. Prendendo possesso dei corpi degli insetti, riesco a farmi largo tra le ragnatele che sbarrano la strada a Judero. Inizio a sentirmi a disagio quando vedo il mostro che ha evidentemente rapito il bimbo: mi sembra semplicemente una donna che cammina a quattro zampe. Nel corso della battaglia, sputa liquido viscoso e proiettili; va bene, deve effettivamente trattarsi di una bestia feroce. Solo che avevo ragione fin dall’inizio, perché una volta sconfitta ci dice il suo nome – ed è una stilettata al cuore: “Evelyn, the idiot”, termine dispregiativo per indicare le persone affette da patologie mentali – e ci chiede di rivelarlo un domani a suo figlio. Ho i brividi. Metto il bambino in spalla e lo riporto dal prete, ma Judero e io vogliamo delle spiegazioni. L’uomo diventa rosso in viso. “Non pensavo che lei sapesse parlare”, dice. “Di chi è figlio?”, chiede Judero. “Del peccato”, afferma. La risposta reale è agghiacciante e chiara come il giorno.

La riflessione sull’altro da noi e la sua categorizzazione come “mostro” prosegue poco dopo, con il secondo boss. Si tratta di una coppia di gemelli siamesi, Gregor e Calvin McKinly, ostracizzati dal villaggio e costretti a vivere in maniera ferale nei boschi. Judero prosegue così, continuando a nutrire la narrativa del “noi contro loro”, nella forma degli inglesi provenienti dalla cittadina di frontiera di Carlisle (che, in maniera grottesca e comica insieme, urlando soltanto “Carlisle!”) e dei Fomori, bestie del folklore irlandese che emergono dal mare e attaccano le città scozzesi sulla costa. Mi sono trovata a pensare a certi videogiocatori, quelli che frequentano morbosamente determinati angoli di Reddit e 4chan, affetti da una vera e propria ossessione per la “dittatura woke” che starebbe colpendo i loro videogiochi preferiti, sostituendo protagonisti maschi bianchi di stampo tradizionale con donne e persone appartenenti a minoranze di vario genere. L’altro è ciò che va colpito, condannato, espunto, cancellato; il capovolgimento della narrazione li porta a ritenere di essere loro quelli eliminati dalla Storia, quelli per cui non c’è più spazio. Una narrativa sapientemente manipolata dalle destre estreme di tutto il mondo.

Kaya e King-Spooner ci attirano per tutto l’arco del gioco nella tana profondissima di questo conflitto, convincendoci che il combattimento sia, in fin dei conti, l’unico modo per sconfiggere le forze del male. Noi contro loro, Judero contro i mostri – spesso, come visto sopra, nient’altro che persone con corpi e menti non conformi. Le intenzioni di Judero sono buone: la sua volontà va sempre nella direzione di dare una mano a chi ha bisogno. Solo che i risultati sono spesso terribili, in vivo risalto rispetto alla squinternata bellezza di questa frontiera scozzese virtuale, in cui la mano umana è sempre visibile, continuamente all’opera.

E non si vede e basta: la si sente. I dev hanno avviato una stupefacente opera di recupero della musica tradizionale scozzese, affidandosi al corpus di ballate tradizionali formato dallo studioso Francis James Child nella seconda metà del XIX secolo. Sono le Child Ballads – non “ballate per bambini”, come pensa qualcuno, dato che prendono il nome proprio dal filologo che ha raccolte. Non ho paura di sbilanciarmi nell’affermare che la colonna sonora di Judero è la mia preferita da parecchio tempo a questa parte: non dimenticherò mai la voce di Beth Sbresni nell’ultimissima, straordinaria fase di gioco, una manciata di minuti capace di conferire senso all’intero percorso (nonché una evidente citazione al finale di Shadow of the Colossus).

Chitarra, tastiere e voci animano un mondo sognante e concreto insieme, pieno di storie, privo di contenuti filler e di inutili fetch quest. Ho chiacchierato con famiglie impegnate a piangere i loro cari defunti; con streghe sagge; con scimmie rosa capaci di comporre splendide poesie. Ho solcato i mari e scalato montagne; ho ascoltato una mucca che preconizzava l’avvento dell’Era delle Macchine nel 2036; mi sono goduta un viaggio imperfetto, profondamente umano. Potrei concentrarmi sul sistema di combattimento, impreciso e spesso ingiusto, con un feeling pressoché inesistente degli impatti sui corpi dei nemici. Farei un grave disservizio a Judero, che mi ha regalato alcuni dei momenti più anomali della mia vita da videogiocatrice – come quello in cui, di colpo, ho capito come battere un temibile drago ricordandomi della battaglia tra Merlino e Maga Magò ne La Spada nella Roccia.

È il modo in cui Judero lascia che certe idee nascano dentro di te a essere speciale, perché Kaya e King-Spooner sanno che al mondo esistono incantesimi più intricati delle trame brutali del conflitto. Mi sono ritrovata finalmente stupita, senza parole, come quando da bambina scoprivo le meraviglie del Game Boy e della prima PlayStation. Erano mondi spesso pieni di difetti e magagne di design oggi evidenti all’occhio allenato; allora, erano nient’altro che ambienti stupefacenti, scrigni di meraviglia. Ecco, Judero mi ha riportata indietro nel tempo, regalandomi altri occhi per vedere ciò che conta davvero: il coraggio di sperimentare, e la bellezza delle mani di chi crea.

Pubblicato il: 15/10/2024

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3 commenti

Assurdo, devo assolutamente provarlo. Grazie Giulia per queste perle!

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