SHIN CHAN
SHIRO AND THE COAL TOWN
La prima e unica volta in cui sono stata in Giappone era luglio, le cicale frinivano fortissimo e faceva un caldo disumano. Un giorno dovevo andare al centro convegni PACIFICO di Yokohama (pochi giorni prima che vi tenessero i mondiali di Pokémon, peraltro) e attraversare la città fu uno slalom tra i poliziotti. Sembravano aver sostituito i pedoni: erano letteralmente ovunque. Questo perché al PACIFICO avrei trovato l’Imperatore Naruhito e l’Imperatrice Masako del Giappone: erano seduti di fronte a un paravento ricoperto di foglia d’oro, elegantissimi. Li guardavo come si guarda un unicorno apparso all’improvviso al centro della stanza.
Il Giappone è l’unico Paese ad avermi regalato momenti di questo tipo, anche quando – come avviene per la maggior parte del tempo – “lo vivo da casa”, per così dire. E lo faccio più o meno da sempre, perché la mia passione per la cultura giapponese è nata prestissimo, grazie a un libriccino di miti e leggende che porto sempre con me a ogni trasloco. Il coraggio di Momotaro, i dubbi di Urashimataro, e poi il dispettoso tanuki che si trasforma in teiera bollente per tormentare i monaci: il Giappone è per me innanzitutto un insieme di storie straordinarie, una finestra che si è aperta nella mia infanzia e che poi, un giorno, mi ha portata in circostanze particolarissime a osservare gli ultimi imperatori rimasti al mondo – non che un impero sia una cosa bella di per sé, ecco, ma li ho guardati come si osserva un pezzo di passato che ti casca di colpo davanti, come un meteorite arrivato dallo spazio profondo.
Per Shinnosuke Nohara, anche una cicala può destare il medesimo senso di sorpresa e di meraviglia. O magari un cartello stradale: Shin Chan ha solo cinque anni, ed è ben lontano dal raggiungere quella padronanza dei kanji che gli permetterà di leggere con agio libri e quotidiani nell’età adulta. Il rapporto che i bambini giapponesi hanno con la lingua è ben diverso rispetto a quello che abbiamo noi da piccoli con la lingua italiana: i kanji sono migliaia, e spesso hanno letture e significati diversi a seconda del contesto. Da persona che studia giapponese in maniera amatoriale ogni giorno, posso dire che si tratta di un regno complesso, capace di farti sentire piccola e intimidita, ma anche di garantirti continui momenti di “ah-ha!” e un forte, fortissimo senso di magia.
E di cartelli misteriosi, con Shin Chan, ne vediamo parecchi. Dopo gli eventi di Shin Chan: Me and the Professor on Summer Vacation (2022), la famiglia Nohara si dirige verso la Prefettura di Akita, provincia d’origine di Hiroshi, padre di Shinnosuke. È una visione del tutto tradizionale della famiglia giapponese, con papà che cura la sua carriera e mamma che svolge lavoro domestico e due figli piccoli. Shin Chan è tradizionale anche dal punto di vista del gameplay. Si tratta di un’avventura 3D in cui seguiamo le peripezie del bambino, alle prese con pesca, caccia agli insetti, missioni per conquistare la fiducia dei bambini del luogo ed esplorazione di quanto la campagna ha da offrire. La serie è erede spirituale di quel Boku no Natsuyasumi che nel 2000 aveva brillantemente codificato l’immaginario legato all’infanzia dei bambini giapponesi: Boku no Natsuyasumi, letteralmente, vuol dire “Le mie vacanze estive”. E infatti, nel gioco si seguono le vacanze estive di un bambino di città, giunto in campagna dagli zii e impegnato in attività come il risveglio muscolare mattutino (provatelo, è un must giapponese: su YouTube è pieno di video con musichette pazzesche), la cattura di pesci e insetti e la corsa a perdifiato appresso agli aquiloni.
Un’avventura nostalgica, insomma, che nel caso di noi occidentali si traduce in una nostalgia per qualcosa che non abbiamo mai provato. Le attività compiute da Shin Chan nel gioco sono più o meno universali, ma il loro mix risulta squisitamente giapponese. C’è qualcosa di particolare nell’alternanza dei registri linguistici utilizzati dai bambini: c’è quello che parla in maniera aulica, come se stesse leggendo un’opera letteraria; c’è poi la bimba che si mangia teneramente le parole e impiega un registro basso e dialettale; infine, il nonno Ginnosuke non risparmia doppi sensi sporcaccioni e giochi di parole fatti per confondere il piccolo Shinnosuke con il suo giapponese in erba, ben lontano dal garantirgli una piena padronanza e comprensione dei meandri linguistici dell’idioma.
Ogni gioco della serie Shin Chan presenta delle peculiarità e delle bizzarrie: in Me and the Professor on Summer Vacation c’era un brontosauro che tutto tranquillo se ne andava per le vie del paese. In Shiro and the Coal Town, invece, il cagnolino bianco di Shinnosuke (chiamato appunto Shiro, ossia “bianco”) un bel giorno torna a casa tutto sporco di carbone, e conduce il padroncino a Coal Town, misteriosa cittadina piena di minatori e di personaggi sopra le righe. L’esplorazione si svolge quindi tra la campagna e Coal Town, due luoghi separati e collegati da una ferrovia, in cui Shin Chan compie attività in parte diverse: per dirne una, gli insetti sono molti meno a Coal Town, mentre la cittadina è piena di oggetti da riciclare per strampalate invenzioni.
Non aspettatevi grandi innovazioni sotto il profilo delle meccaniche di gioco. Per la gran parte del tempo, in Shin Chan si raccolgono pesci, insetti e oggetti da consegnare per completare quest principali e secondarie, senza particolari guizzi a livello di gameplay. Tutto è estremamente semplice da portare a termine, che si tratti di coltivare verdure nell’orticello davanti casa o di acchiappare una bella farfalla svolazzante. Una partita a Shin Chan è perfetta per chi desidera rilassarsi e godersi l’immensa bellezza dei panorami disegnati a mano, pieni di personaggi spesso sopra le righe, sempre ben caratterizzati, e sì, magari anche fare un po’ di pratica con il giapponese: personalmente, ho utilizzato Shin Chan anche per questo scopo, data l’elevatissima qualità del doppiaggio. Il tutto è gestito magnificamente in un ciclo giorno/notte che esalta la meraviglia degli scenari e alterna pesci e insetti presenti, in modo tale da incoraggiare costantemente la voglia di esplorare del giocatore.
Shin Chan è una visione decisamente conservatrice del Giappone e anche di ciò che può essere un videogioco d’avventura. Se desiderate novità e sorprese, non le troverete certamente qui. Sebbene io sia una videogiocatrice alla costante ricerca di innovazione, posso dire che ho apprezzato le ore che ho trascorso nella Prefettura di Akita, allo stesso modo in cui sono stata felice di star seduta davanti agli Imperatori del Giappone in quella caldissima estate di Yokohama: a livello politico, non potrei essere più distante dall’ideologia che ha portato alla conservazione delle loro figure come spirito della nazione giapponese, ma al contempo ho avvertito di essere al cospetto di un’energia potente che aleggiava nell’immenso salone del PACIFICO. Era un’energia capace di intimidire e incantare le persone, riportandole con nostalgia a un passato in cui il Giappone era una potenza temuta in tutta l’Asia, e non solo. Ci vuole forza per distaccarsi dalla potenza gravitazionale di pensieri del genere. Fortunatamente, esistono persone e game designer che riescono ad allontanarsi dai seducenti vortici del passato per guardare al futuro e raccontare nuove storie. Shin Chan racconta una vecchia storia con vecchi mezzi, ma ogni tanto è bello scorrazzare nella campagna giapponese virtuale trillando “puriiii puriiiiiii” nei panni di un bambino irriverente che non sa ancora leggere bene i cartelli stradali.
Pubblicato il: 23/10/2024
Provato su: Nintendo Switch
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