KINGDOM COME DELIVERANCE II
AUDENTES FORTUNA IUVAT
“Il Medioevo inventa tutte le cose con cui ancora stiamo facendo i conti, le banche e la cambiale, l'organizzazione del latifondo, la struttura dell'amministrazione e della politica comunale, le lotte di classe e il pauperismo, la diatriba tra Stato e Chiesa, l'università, il terrorismo mistico, il processo indiziario, l'ospedale e il vescovado, persino l'organizzazione turistica, e sostituite le Maldive a Gerusalemme o a San Jago de Compostela e avete tutto, compresa la guida Michelin. [...] Ma se si torna al Medioevo solo rabberciando, mai ricostruendolo nella sua interezza e autenticità (quale?), allora forse ogni sogno del Medioevo (dal 1492 ad oggi) non rappresenta il sogno del Medioevo ma il sogno di ‘un’ Medioevo. Se ogni sogno del Medioevo è il sogno di un Medioevo, di quale sogno e di quale Medioevo parliamo?”
Umberto Eco, Dieci modi di sognare il Medioevo, in Sugli specchi e altri saggi. Il segno, la rappresentazione, l’illusione, l’immagine, Bompiani, 1985
La mia vignetta preferita di Zerocalcare si trova a pagina venticinque di Dimentica il mio nome (BAO Publishing, 2014). Raffigura la sua bisnonna materna, da lui incontrata quando era bambino. “Novant’anni di amori, dolori, emozioni e ruoli”, scrive. E rappresenta il volto dell’anziana come un poliedro, commentando così: “Mi sa che con gli anni accumuliamo facce, angolazioni, caratteri. Con la vita diventiamo poligoni”. Come era possibile che quella che al bimbo sembrava nient’altro che una pacifica vecchietta – pur con una forte stretta di mano – fosse la protagonista di tante storie dell’orrore della nonna di Zerocalcare, di cui Mémé non era la madre, bensì la matrigna?
Zerocalcare si rende conto che ogni persona è un terreno conteso, un luogo in cui si incontrano e scontrano fatti, opinioni, ricordi, punti di vista, quegli “amori, dolori, emozioni e ruoli” di cui scrive il fumettista. Ogni persona è un poliedro. Ma il poliedro più grande e maestoso di tutti non è un essere umano: è un periodo storico. L’imperatore di tutti i poliedri del mondo è lui: lo chiamiamo “Medioevo”.
Ma c’è di più. Il Medioevo non è un semplice feticcio storico dai molteplici volti; è un potente strumento politico. In Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati (Einaudi, 2011), Tommaso di Carpegna Falconieri riflette su ciò che definisce “medioevo mediatico” o anche “idea comune di medioevo”.
“Forse non esiste un’altra epoca storica la quale fornisca al mondo contemporaneo altrettanto materiale per nutrire il proprio immaginario”, scrive. A uso e consumo di questa o quella parte politica. E succede da secoli a quel “vuoto tra due pieni” (così lo definì Massimo Montanari) schiacciato tra antichità e modernità: un tempo che non c’è, un tempo che esiste solo quando lo sguardo si volge all’indietro, non per guardare, ma per cercare un’opposizione ideale o, al contrario, un supporto, una stampella. È così che gli intellettuali illuministi crearono il loro Medioevo a immagine e somiglianza delle tenebre: un’epoca buia, fatta di barbarie e oscurantismo, di fanatismo religioso, di quelle “mancanza di decisione di coraggio” di cui scriveva Immanuel Kant nel suo saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? Del 1784. C’è poi il Medioevo romanticizzato dei romantici, con le sue dame languide dai lunghi capelli rossi che tendono le mani a cavalieri in armatura scintillante nei dipinti del preraffaelita John William Waterhouse, e con la nascita dei miti fondativi degli stati-nazione. Le opere “patriottiche” di Giuseppe Verdi sono spesso ambientate nel Medioevo: pensiamo a Giovanna d’Arco (dramma rappresentato per la prima volta il 15 febbraio 1845). Il da poco defunto Jean-Marie Le Pen, fondatore del partito politico francese di estrema destra Front National, amava tenere i suoi comizi del 1° maggio ai piedi di una statua equestre della Pulzella d’Orléans, per lui simbolo di una Francia militante, omogenea, cristiana, e, naturalmente, bianca.
Ognuno di questi Medioevi – perché esistono tanti Medioevi quanti sono gli osservatori – ha un punto in comune: i suoi teorici (o, per meglio dire, i suoi scrittori: perché di scrittura e di creazione qui stiamo parlando) hanno fatto leva sulla “accuratezza storica” della ricostruzione effettuata. Sulla “autenticità”, sul “rigore” della loro ricerca. Ma uno dei moniti più grandi sul lavoro dello storico viene da Marc Bloch, che nel libro secondo di Apologia della storia o Mestiere di storico (pubblicato postumo nel 1949) scriveva che la ricerca deve basarsi su un “questionario”, su un insieme di domande da rivolgere alla documentazione che si ha a disposizione. Nella consapevolezza che la stessa sarà necessariamente incompleta e parziale, specie se si volge lo sguardo a un periodo particolarmente lontano nel tempo. Ecco che a seconda delle esigenze si rivolgeranno al Medioevo domande diverse, e si otterranno risposte diverse: per Umberto Eco, si otterranno almeno dieci “sogni” del Medioevo. Si va dal Medioevo barbarico (“il Medioevo della Heroic Fantasy contemporanea”, scriveva Eco nel 1985: questo era verissimo, specie nel contesto italiano dell’epoca), passando per il Medioevo romantico (“che predilige la cupezza del castello diroccato sullo sfondo del fortunale irto di lampi, abitato da fantasmi di spose violate e assassinate la notte stessa delle nozze”. Brrrrr), fino ad arrivare alla visione del Medioevo che oggi ci occupa. Perché lo scritto di Eco, a quarant’anni esatti di distanza, ancora riesce a inquadrare alla perfezione le modalità rappresentative del Medioevo da parte dei media di massa. Videogiochi inclusi – anche se nel 1985 era appena uscito il primo Super Mario Bros., e gli anni del videogioco come medium d’intrattenimento per tre miliardi di persone al mondo erano ancora di là da venire.
Quello di Kingdom Come Deliverance II è ciò che Eco definiva “Medioevo delle identità nazionali”. Quello di Giuseppe Verdi e dei risorgimentali; quello della lotta dei popoli contro il dominio straniero. Tanto che uno dei personaggi principali di KCDII – un nuovo arrivo nel cast, di cui in questa recensione non rivelerò il nome – è un eroe nazionale della Repubblica Ceca, Paese in cui gli sviluppatori di Warhorse Studios hanno la loro sede. Una sua gigantesca statua equestre in bronzo campeggia sulle strade di Praga. È stato protagonista del film più costoso mai prodotto in Repubblica Ceca, una specie di versione ceca di Braveheart di Mel Gibson (che ci convinse della reale esistenza del ius primae noctis. Che no, non esiste) nonché un mappazzone un po’ confuso in cui centinaia di tizi se le danno di santa ragione e il protagonista lotta per “onore, giustizia, libertà, fede, speranza” – o almeno, questo si apprende nel finale. Parole un po’ troppo vaghe per essere motivazioni reali.
Parole che di rado vengono pronunciate in Kingdom Come Deliverance II. Dopo oltre cento ore di gioco, mentre scorrevano i titoli di coda, ho realizzato di aver partecipato come centravanti in una partita di calcio in cui la mia squadra ha vinto dopo aver sparato in faccia al portiere avversario, sventrato l’esterno sinistro e rapito la moglie del trequartista per chiedergli un riscatto milionario. Preso il riscatto, abbiamo comunque sparato in faccia a quella poveretta, perché così andava alla testa più calda della nostra squadra. Ho capito che la gioia provata nell’uscire vittoriosa dalle situazioni più disperate di un videogioco indubbiamente difficile da padroneggiare era in realtà un sospiro di sollievo. Perché il team avversario si sarebbe comportato con noi allo stesso identico modo, se gliene avessimo dato la possibilità.
Eppure, ho avuto margini per comportarmi un pochino meglio di così. Warhorse Studios fa un ottimo lavoro nel creare un videogioco che – ancora più del primo, a quanto ho capito dai tanti video gameplay che ho osservato su YouTube: non l’ho giocato in prima persona – fa di tutto per sbattere in faccia all’utente le conseguenze delle sue azioni. Non soltanto nelle ultimissime fasi dell’avventura, ma nel corso di tutto il lungo percorso di Henry di Skalitz, che nel primo capitolo scopriva di essere il figlio bastardo del nobile Radzig Kobyla, ci cui è realmente esistita una controparte storica. Così come reale fu la razzia di Sigismondo di Lussemburgo a Skalitz, nel 1403, in seguito alla quale – sembrerebbe – nel villaggio rimasero in vita soltanto una vecchietta e un maiale. Nel 2018, Kingdom Come Deliverance partiva dal terribile destino di Skalitz per costruire una narrativa basata sulla contrapposizione noi/loro, dentro/fuori, Boemi/stranieri. Il crudele Sigismondo, figlio dell’Imperatore Carlo IV e re d’Ungheria, aveva catturato l’anno prima il fratellastro Venceslao, re di Boemia. E allora i crudeli Cumani (definiti anche, non correttamente, “Tatari”, un errore non ripetuto nel secondo capitolo) giungono dall’Ungheria al soldo di Sigismondo per saccheggiare le campagne boeme, e vengono dipinti come esseri mostruosi che traggono piacere dall’uccisione e dallo stupro, barbari violenti giunti da lontano per depredare le terre di Henry e dei suoi. Il principale antagonista di Henry è un nobile ungherese, Istvan Toth, personificazione di ogni male e perversione possibile. Ecco il “Medioevo delle identità nazionali” di cui scriveva Eco: questi ungheresi cattivoni hanno imprigionato il nostro re, rubato il nostro argento e stuprato le nostre donne. Solo che in un contesto multinazionale e multiculturale come quello del Sacro Romano Impero è più che lecito guardare con scetticismo a un dualismo manicheo come quello creato tra boemi e ungheresi in Kingdom Come Deliverance. Come prevedibile, il personaggio del malvagio ungherese ritorna nel seguito, ma stavolta – come tanti altri elementi del gioco – è stato oggetto di una robusta operazione di riscrittura, volta a dare maggiore nuance ad alcuni aspetti problematici del primo capitolo.
Nel 2018, Kingdom Come Deliverance aveva scatenato un vivace dibattito sulla sua “accuratezza storica”, dibattito che aveva finito per coinvolgere anche l’accademia. Reid McCarter, sulle colonne di Unwinnable, ha visto la rappresentazione della lotta di potere tra Venceslao e Sigismondo come una facile polarizzazione tra buoni/cechi e cattivi/stranieri, inquadrando l’uscita nel più ampio contesto politico che aveva portato alla rielezione dell’ex presidente euroscettico e xenofobo Miloš Zeman. In un paper del 2019 del titolo Medieval video games as reenactment of the past: a look at Kingdom Come: Deliverance and its historical claim, Martin Bostal analizza nel dettaglio gli intenti di Warhorse Studios, considerando il piglio per l’accuratezza storica del team “una stranezza nel contesto delle produzioni videoludiche mainstream”, ma concludendo con l’etichettare l’opera come “una incursione molto romantica nel Medioevo, incentrata sul coraggio dei cavalieri e sull’orrore della guerra”. La mancanza di diversità etnica nel gioco e il ruolo del tutto marginale riconosciuto ai personaggi femminili sono stati altri motivi di contesa. La buona notizia è che il seguito fa un lavoro molto più convincente da questo punto di vista: più di tutto, la maggiore diversità nel cast fa un eccellente servizio alla storia e al gioco, in generale. Tanto da aver attirato delle critiche da parte di frange estremiste del mondo degli appassionati di videogiochi fin da prima dell’uscita di Kingdom Come Deliverance II.
Non sfugge l’ironia di un fatto. Daniel Vávra, co-fondatore di Warhorse Studios, Game Director di Kingdom Come Deliverance II e supporter della campagna d’odio Gamergate, si è ritrovato a difendere l’ultima produzione dello studio contro le accuse di essere “woke”. Questo perché Henry può vivere delle romance omosessuali opzionali (come, d’altronde, è opzionale ogni singola romance del gioco). La stampa (anche italiana) ha dato ampio spazio alla falsa notizia di un ban di KCDII in Arabia Saudita a causa di questo tipo di contenuti, notizia prontamente smentita dallo stesso Vávra. Internet è pieno di commenti e video aggressivi sulla presunta natura “woke” del gioco. Tanto che Deep Silver, publisher di KCDII, ha deciso di correre ai ripari: il 17 gennaio ha pubblicato un nuovo codice di condotta per il forum del gioco su Steam, assicurando tolleranza zero contro commenti razzisti, omofobi, transfobici e qualunque forma di tossicità. A qualche giorno di distanza, questo codice di condotta è stato sostituito da ben più morbide e generiche “linee guida”, che in sostanza richiedono di “trattare tutti in maniera corretta”. Una retromarcia quantomeno curiosa.
Fortunatamente, l’impianto narrativo è costruito in maniera più solida e convincente rispetto a queste rocambolesche scelte del publisher. In una delle missioni secondarie meglio riuscite dal gioco, incontriamo un gruppo di cumani al soldo di re Sigismondo, in transito nel tranquillo villaggio di Troskowitz. Immediati i contrasti con la popolazione locale, che scaccia il gruppetto lontano dal centro abitato. È possibile localizzare l’accampamento dei cumani – che hanno trovato ospitalità in una zona boscosa e remota della prima mappa di gioco – e da lì gli eventi possono prendere una piega radicalmente diversa, a seconda di come gestiremo l’interazione di Henry con i mercenari.
Senza fare spoiler, sono rimasta piacevolmente colpita dalle tante pieghe della scrittura del team di Warhorse Studios, autore di quella che al momento del lancio del gioco diventerà la sceneggiatura più lunga della storia dei videogiochi: due milioni e duecentomila parole, a fronte delle ottocentomila del primo capitolo e dei due milioni di Baldur’s Gate III, precedente detentore di questo primato. Che, nel caso di KCDII, non è meramente quantitativo: come accennato, sono le sfumature e gli snodi del racconto a fare la differenza, insieme alla scrittura dei personaggi, che in larga parte risultano vivi e convincenti, spesso animati – molto semplicemente – da una ferma volontà di sopravvivere, più che dalla fedeltà a re lontani, fumosi come il Dio cristiano, raramente avvistati dai sottoposti e, soprattutto, del tutto disinteressati al benessere dei loro sudditi.
Gli eventi di KCDII si aprono direttamente dopo il finale di Kingdom Come Deliverance. Il nobile Hans Capon e il suo paggio Henry di Skalitz devono consegnare una lettera al signore Otto von Bergow, potente ciambellano di corte di Re Sigismondo, per proporre un’alleanza e così liberare Re Venceslao dalla sua prigione viennese. Solo che ben presto tutto va a farsi friggere: con una convincente introduzione, Henry e Hans si ritrovano a perdere i loro averi e a doversi conquistare con l’astuzia la possibilità di dialogare con Otto von Bergow, visto che la lettera va perduta e i due, in braghe corte, risultano ben poco convincenti come sedicenti messaggeri dei nobili supporter di Venceslao.
L’introduzione è funzionale anche a far acclimatare il giocatore ai principali sistemi di gioco. KCDII è un maestoso open world europeo, confusionario sulle prime, ma dotato di gameplay loop soddisfacente una volta trascorsa quella decina di ore (e anche più) necessarie per iniziare a padroneggiare le infinite possibilità di interazione che Henry di Skalitz ha con la Boemia del 1403 e i suoi abitanti. Il sistema di combattimento era stato senz’altro uno degli aspetti più discussi e controversi del primo Kingdom Come Deliverance: lodato per la sua accuratezza storica da alcuni, ma odiato da tanti per la sua legnosità e per l’indubbia difficoltà nel padroneggiarlo (i fendenti potevano essere menati in ben cinque direzioni diverse: il button mashing significava morte immediata), nel seguito ha subito un importante lavoro di restyling, senza però essere snaturato. Resta l’assoluto spettacolo delle armature e delle armi (archi, spade corte, spade lunghe, mazze e tanto altro, con una rombante sorpresa che non vi svelerò), ricostruite in maniera attenta e maniacale, al punto che la vestizione di Henry è un lavoro che farebbe impallidire la passione per la stratificazione dei tessuti della mitica Vivienne Westwood. Bacinetti, corazze, manopole, usberghi e chi più ne ha, più ne metta: l’inventario di Henry diventerà ben presto un allegro casino di armature di tutti i tipi, e l’utilissima feature del cambio istantaneo d’abito – su PlayStation 5
basta premere il tasto triangolo mentre ci si trova nel menu di pausa, et voilà, ecco che Henry può cambiarsi al volo tra tre set prestabiliti dal giocatore – è utilissima per equipaggiare armi e armature quando servono. Le direzioni del colpo per le armi da mischia sono state ridotte da cinque a quattro: la guardia può essere tenuta in alto, in basso, a destra o a sinistra. Se l’arma non è capace di affondi – è il caso del combattimento a mani nude, giusto per fare un esempio – le guardie sono soltanto tre. Ne giova la leggibilità dei combattimenti, che comunque conservano quelle tempistiche piuttosto dilatate (e non troppo naturali) che si erano viste già in KCD, finalizzate a concedere al giocatore il tempo di regolare la propria guardia e chissà, magari tentare un colpo da maestro deflettendo il colpo dell’avversario e contemporaneamente colpendolo con la propria arma.
È un sistema che non funziona benissimo nelle battaglie più concitate, e che soffre di qualche compenetrazione di troppo per risultare verosimile – senza contare che i colpi non hanno sempre quel peso, quella gravità che loro competerebbe. Nonostante ciò, ho trovato un’amica fedele nella mia spada lunga, e sviluppare i talenti di Henry con la stessa mi ha regalato molte soddisfazioni nelle difficili battaglie che mi sono trovata ad affrontare in Boemia.
Il bello di KCDII, però, sta nella sua varietà. È molto raro che una missione o una situazione di gioco possano essere affrontate in un unico, specifico modo. Per quanto mi riguarda, ho compensato la mia debolezza nei combattimenti nelle prime fasi dell’avventura con uno spontaneo talento nello scassinare serrature – altro elemento che aveva dato filo da torcere a tanti giocatori nell’originale Kingdom Come Deliverance. Sul DualSense, bisogna tenere premuto il grilletto L2 e contemporaneamente ruotare la levetta destra per mantenere il grimaldello sul punto “delicato” della serratura, mentre la stessa sua girando su sé stessa. La mia propensione al furto mi ha portata spesso a rubare le chiavi di abitazioni o altri luoghi in cui fare irruzione nel corso di missioni principali e secondarie, invece di dover sfidare a singolar tenzone (non sempre: i nemici non sono stupidi e rispondono in fretta al grido di un alleato in pericolo) la guardia di turno per ottenere la chiave. È soltanto uno dei mille possibili esempi delle molteplici vie d’azione fornite da un videogioco di ruolo dall’ambizione singolare, costruito come coronamento ideale del viaggio intrapreso ormai quasi quindici anni fa dallo studio, quando iniziò il lungo sviluppo di Kingdom Come Deliverance.
Tuttavia, le mie scorribande notturne a rubacchiare le chiavi dei negozi dei mercanti mi hanno portata a esiti talvolta infausti, sempre e invariabilmente derivanti dalla sottovalutazione del lavoro che mi trovavo davanti agli occhi. In una occasione, ho messo su con repentino entusiasmo la corazza che avevo trovato nello scrigno di un corazzaio di Kuttenberg. Il mattino dopo, passeggiando per la città, il corazzaio mi ha notata riconoscendo la corazza (!) e mi ha immediatamente denunciata alle guardie cittadine (!!!!). Non essendo riuscita a cavarmela con le buone, mi sono ritrovata alla gogna a beccarmi mele marce in faccia per due giorni di fila. Questo è soltanto uno dei mille esempi di come Warhorse Studios è riuscito a creare una simulazione convincente e profonda, responsiva, in cui usare la testa (non mi sognerei mai di entrare in un negozio, rubare un eyeliner e poi mettermelo guardando in faccia la commessa, magari sfoderando pure con un ghigno beffardo) fa la differenza tra la vita e il game over.
Proprio come nei classici Elder Scrolls e in molti altri videogiochi di ruolo, le abilità di Henry nei vari settori di competenza (erudizione, lotta corpo a corpo, sopravvivenza, forza, e così via) migliorano con l’utilizzo delle stesse. Più si scassinano serrature, più si diventa bravi a scassinare serrature, sbloccando dei talenti che forniscono dei bonus al protagonista. Le abilità si intersecano in maniera interessante: ad esempio, portare un carico superiore alla capacità di Henry incrementerà non soltanto la forza, ma anche l’agilità e la capacità di sopravvivenza. Senza contare che i talenti pertinenti alle varie abilità hanno di frequente ripercussioni anche in settori diversi.
La molteplicità di abilità di Henry si riflette nel gran numero di possibilità di interazione con il mondo aperto di Kingdom Come Deliverance II. Si va dal cacciare di frodo (gli animali selvatici sono di proprietà del re, e di lui solo), fino alla creazione di elaborate pozioni al tavolo alchemico, passando per la raccolta di erbe e frutti nei boschi. Tutto è collegato: le parti di animali, i funghi e i fiori che troveremo possono tutti essere utilizzati nell’alchimia, uno dei tanti minigiochi inseriti da Warhorse Studios nel tessuto ludico dell’opera. In larga parte, si tratta di elementi che già erano presenti nel primo capitolo, ma che – come il sistema di combattimento – sono stati rimaneggiati e rivisti per questo seguito. Ho trovato poche cose piacevoli come il mettermi davanti agli alambicchi con il fuoco acceso e il mio fidato libro di ricette a portata di mano: il procedimento va letto direttamente dalle pagine, spostandosi con un passetto dal tavolo al librone, e ogni fase (dalla scelta del liquido di base, fino alla distillazione del preparato) è ricreata in maniera deliziosamente tattile, tanto che dovremo girare una clessidra a mano per tenere conto del tempo di bollitura necessario per i vari decotti.
Base, ingredienti, lettura della ricetta, cottura, distillazione: ma quante cose da fare, quante da ricordare! È vero, ma giocando a Kingdom Come Deliverance 2 ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a un elefante che è riuscito a spiccare il volo. Con leggerezza, e inspiegabilmente: il grosso elefantone del gioco di ruolo a mondo aperto si è fatto farfalla, e ha preso a svolazzare in giro per la stanza. Nonostante le mille voci del menu di pausa, nonostante gli alambicchi, nonostante le mie iniziali difficoltà con il sistema di combattimento, nonostante le mille volte in cui ho dovuto rileggere il tutorial del minigioco dei dadi. L’elefante di Vávra e soci mi ha fatto l’occhiolino ed è riuscito a tenermi con sé per più di cento ore. Ore in cui ho fatto fatica a pensare ad altro che non fosse l’avventura di Henry e dei suoi alleati, ma anche alle ragioni dei suoi nemici, e al fatto che entrambe le squadre – quella alleata e quella avversaria – altro non fossero che vittime di poteri siti in alto, talmente in alto da non essere visibili. E dai quali, fortunatamente, nessuno dei giocatori in campo si sente assolto.
Il mondo di gioco è stato un ottimo complice nel tirarmi dentro a questo mondo virtuale che desidera riprodurre un inafferrabile mondo reale. Dal punto di vista geografico, la Boemia del 1403 ricreata da Warhorse Studios raramente mi ha dato l’impressione di essere un semplice costrutto. Le routine degli abitanti di villaggi, mulini, città e accampamenti sono convincenti e ben strutturate, e la presenza di Henry va calata ogni volta in un contesto differente. Così, vestirsi da nobile in città è certamente una buona idea per ottenere sconti dai commercianti e, in generale, favore nelle conversazioni, mentre è un sicuro viatico per l’inferno se ci si addentra in un bosco, o magari nei pressi di un covo di briganti: c’è sempre qualche disperato pronto a farci a fettine, e anche nelle fasi avanzate Kingdom Come Deliverance 2 non si trasforma mai in una fantasia di potere. Che si tratti dell’assedio di un castello o di un combattimento all’arma bianca contro due briganti male in arnese, ogni scontro rischia sempre di essere l’ultimo per l’avventuriero incauto. E questo senso di precarietà è accentuato dal sistema di salvataggio: la partita viene salvata in momenti specifici della storia, oppure bevendo la grappa del salvatore, preparato che si può creare con il procedimento alchemico. Grazie a un update molto richiesto per il primo Kingdom Come Deliverance, è stata conservata la possibilità di salvare e contestualmente uscire dal gioco. Mi è stata molto utile nelle prime fasi di gioco, quando ogni passo in Boemia era un azzardo. Il passo della trama di questo seguito si fa presto urgente, con eventi che attraggono l’interesse del giocatore e rischiano di farlo affrettare verso il finale. Due sono i punti di non ritorno del gioco;
superarli porta al fallimento automatico di alcune missioni secondarie. Ed è proprio su queste ultime che vorrei spendere alcune parole, tornando sull’altissimo livello qualitativo della scrittura di Warhorse Studios in Kingdom Come Deliverance II – un aspetto che ho già accennato, ma che vorrei ribadire. Esplorare le due mappe di gioco vuol dire incappare in una miriade di storie. Ne accennerò una. Giunta a cavallo in un piccolissimo villaggio rurale, mi sono trovata ad assistere alla discussione tra un giovane sacerdote e alcuni contadini. Avvicinatami, ho scoperto che il sacerdote, da poco arrivato in paese, ha vietato ai contadini di portare offerte a una “bocca dell’inferno”, una caverna da cui – si dice – si può accedere alle più profonde viscere della Terra, sede di Lucifero e della sua schiera di demoni. Ma le offerte servivano a placare proprio i demoni, sostengono i contadini, tanto che sembra che i mostri si siano adirati, e sarebbero i responsabili dell’eccidio delle mucche che pascolavano intorno al villaggio. Henry decide di indagare su incarico delle due parti in lite. Non vi rivelerò quel che segue: dirò soltanto che ho trovato la missione così ben scritta, e così convincente nelle sue diramazioni – perfettamente inserite nello spazio di possibilità ludico fornito dal gioco, e, quindi, nelle modalità con cui Henry può interagire con il mondo e i suoi abitanti – che mi sono ritrovata a bocca aperta, assolutamente entusiasmata da una scrittura che, nel mio caso, ha lasciato spazio a un finale commovente, dopo una sezione di gioco piena di tensione e pericoli. Sì, in quella caverna c’era effettivamente qualcosa di strano. E ci ho lasciato dentro un pezzo di cuore. Pensatemi, se lo trovate.
Certo, la scelta di sviluppare con CryENGINE anche questo secondo capitolo della serie ha avuto un costo sulla resa tecnica del gioco. Non aspettatevi l’impeccabile effettistica di Northlight Engine, né tantomeno l’attenzione per l’illuminazione dinamica consentita da Unreal Engine V. Su PlayStation 5 è possibile selezionare due modalità di rendering: Prestazioni (quella che ho preferito, con 60 fotogrammi per secondo e alcuni compromessi a livello visivo) e Fedeltà (che invece privilegia la qualità grafica). Se non altro, nell’arco delle oltre cento ore trascorse con Henry ho fatto esperienza di rarissimi cali del frame rate, e di soli tre crash del gioco. In base alle informazioni fornite dal publisher insieme al codice di gioco, sappiamo che una consistente patch sarà in arrivo al day one, come ormai da tradizione nelle produzioni tripla A contemporanee. Il colpo d’occhio sulla console Sony è certamente di minor pregio rispetto a quello che si ottiene su un PC da gaming di fascia alta, ma mi sono trovata davanti a un mondo convincente e vivace, in cui forse avrei desiderato soltanto un’illuminazione maggiormente dinamica, capace di far palpitare l’erba sotto gli stivali di Henry. L’occasionale effetto miraggio in alcune scene d’intermezzo, il ritardo nel caricamento di parte delle texture nel mondo aperto, le compenetrazioni e rari fenomeni di stuttering non hanno pregiudicato il piacere che ho provato nell’esplorare la Boemia, né tantomeno i miei dialoghi con i personaggi non giocanti, che – va detto – non sono sempre graziati da una regia dinamica e travolgente, o da una resa impeccabile delle espressioni facciali, ben curate per il protagonista e una manciata di altri personaggi, un po’ più ingessate per i membri meno importanti del cast.
Resta un fatto. L’ultima volta che mi sono trovata così travolta da un open world e dalla sua storia era l’ottobre 2018. Stavo giocando Red Dead Redemption II, cui tanto deve la produzione di Warhorse Studios. Si avverte la stessa attenzione per la ricostruzione di un contesto convincente, con personaggi non giocanti impegnati nelle loro vite. Si possono ascoltare di nascosto i dialoghi tra gli abitanti di questo mondo, tra cui soldati e nobili signore scocciate dalla loro presenza nel loro castello. “Signora, non si preoccupi, non le daremo fastidio: ci metteremo di sotto davanti al camino, va bene?”, fa uno dei due. Questo scambio mi fornisce un importante indizio per capire dove si collocheranno le due guardie. E quando si addormenteranno davanti al tepore del camino, ecco, in quel momento colpirò. O magari posso soltanto salire le scale per fare due parole con la signora. O perché non sgraffignare le chiavi del portone esterno dalle tasche della guardia che mi dà le spalle? Le possibilità sono infinite. Alla fine della fiera, Kingdom Come Deliverance II tira forse un po’ i remi in barca nel finale, rinunciando ad affondare fino all’osso i denti nella carne marcia di questa accozzaglia di mercenari e nobiluomini manovrati da poteri al di là della loro comprensione. È una delle poche cose che posso rimproverare a una produzione che, a mio avviso, ha fatto molto per rispondere efficacemente alle puntuali critiche che erano state mosse al primo capitolo.
Il poliedrico elefante continua a volare. Ha molte facce; spero di averne raccontata, più o meno efficacemente, almeno qualcuna. Sono sicura che molto verrà detto, e scritto, su questo Kingdom Come Deliverance II. A testimonianza di quanto il passato sia politico, anche se rappresentato in uno spazio virtuale. E per un ammonimento finale, voglio ancora affidarmi a Umberto Eco: “Sognate il Medioevo, ma chiedetevi sempre quale. E perché”. Senza che il sogno diventi un sonno della ragione, e sempre con la volontà di indagare le modalità che noi esseri umani abbiamo di raccontare la Storia e le storie. Il videogioco resta una di quelle che preferisco.
L’elefante mi fa l’occhiolino, di nuovo. Non posso fare a meno di guardarlo con un po’ d’ammirazione.
Pubblicato il: 03/02/2025
Il tuo supporto serve per fare in modo che il sito resti senza pubblicità e garantisca un compenso etico ai collaboratori
FinalRound.it © 2022
RoundTwo S.r.l. Partita Iva: 03905980128