The Last of Us 2

La prosecuzione del viaggio e il peso della sopravvivenza

La seconda stagione di The Last of Us, su Sky e NOW a partire dal 14 aprile, riprende dalla fine della prima: Joel, interpretato da Pedro Pascal, parla con Ellie, interpretata da Bella Ramsey; e le dice che sono liberi, che possono fermarsi, che le Firefly, il gruppo ribelle di cui Ellie faceva parte, non hanno più bisogno di loro. Ellie chiede a Joel di prometterle che tutto quello che le ha raccontato è vero, di giurarlo, e Joel, guardandola negli occhi, rimanendo praticamente immobile, le dice che sì, è tutto vero. Ed Ellie è felice, rilassa le spalle e tira un sospiro di sollievo. Perché finalmente comincia la sua nuova vita. Stacco. La storia fa un salto in avanti nel tempo, e scopriamo che le cose tra Joel ed Ellie non vanno più così bene. Ora vivono in una cittadina insieme al fratello di Joel, Tommy, interpretato da Gabriel Luna. E la loro quotidianità ha assunto un’altra forma e, soprattutto, un’altra routine. Sono protetti e al sicuro, e possono fare quelle cose che fuori, nel mondo esterno, dove ci sono infetti e gruppi paramilitari, sono impossibili da fare. Eppure c’è un problema.  

Joel, a un certo punto, dice che Ellie non gli perdona di averla salvata, ed è vero. Però c’è anche altro, ed è su questo “altro” che The Last of Us si concentra. Neil Druckmann e Craig Mazin, i due showrunner-scrittori-creatori, sapevano esattamente cosa fare e come farlo per portare avanti il racconto nel modo migliore. Hanno preso il videogioco – sviluppato, tra l’altro, dallo stesso Druckmann – e l’hanno usato come una guida, come una piantina. Qui succede questo, e qui quest’altro. La televisione ha tempi e necessità diverse, e allora bisogna cambiare: prima accelerare, poi rallentare; prima andare avanti nel tempo, poi tornare indietro. E non solo per spiegare, ma pure per ispessire la trama, per darle un senso totalmente nuovo, e per trasformare una storia di vendetta in una storia d’amore e viceversa. 

Ecco, questo è un punto fondamentale. The Last of Us, sia il videogioco che la serie tv, non è mai stato una cosa soltanto. O almeno, non è mai stato una cosa facile da identificare e da definire, immediata e banale. The Last of Us è complesso, ed è la complessità, intesa come insieme di sfumature, di punti di vista e di umanità, a renderlo un’opera così incredibile. Rispetto ad altri videogiochi, The Last of Us ha sempre avuto un taglio più – diciamo così – cinematografico, specialmente quando si tratta delle sue cutscene. Inquadrature, regia e scrittura. Quello che hanno fatto Mazin e Druckmann per HBO è stato tanto chiaro quanto complicato. Perché sono intervenuti proprio dove potevano, e sono andati più a fondo, hanno cambiato, migliorato e tagliato. Si sono concentrati su un punto di vista. Poi sono tornati indietro, e hanno raccontato la stessa storia da un’altra prospettiva. Ma la seconda stagione di The Last of Us, oltre a essere uno straordinario lavoro di scrittura, è un esempio di quello che gli attori, quando messi nella condizione di poter dare il meglio di sé, sono capaci di fare.  

Si comincia con Pedro Pascal e Bella Ramsey, che in scena sono assolutamente perfetti: quando sono soli, quando sono insieme, quando reagiscono, anche a distanza, a quello che magari ha fatto l’altro o l’altra in una scena precedente. Pascal ha dalla sua il carisma, Ramsey invece sfrutta una carica emotiva costante. E davvero: i discorsi che parlano di somiglianza con il personaggio originale, con la Ellie dei videogiochi della Naughty Dog, hanno senso solo fino a un certo punto. Gli attori hanno altre frecce al loro arco. Non solo l’aspetto fisico. Un ruolo è un guscio, è vero, ma è anche un insieme di elementi, di dettagli e di piccoli gesti. E quindi di sfumature (ne parlavamo prima) e di contraddizioni. Ellie nasce su un modello con somiglianze e riferimenti precisi. Ma poi si evolve, si trasforma. E con Bella Ramsey fa l’ennesimo salto in avanti. Credere a quello che vediamo, alla storia che ci viene mostrata, non è difficile. Proprio perché le interpretazioni degli attori sono calate nel singolo momento, e offrono una varietà incredibile di spunti.

Ramsey è Ellie. Una Ellie diversa, per carità. Ma allo stesso tempo familiare. Questa cosa si nota soprattutto quando, nel corso della seconda stagione, le sue interazioni con Isabela Merced, che interpreta Dina, aumentano. Si crea un’intimità palpabile, sincera, che unisce due giovani donne e che riflette esattamente ciò che già nel videogioco si era visto ed era stato messo in scena. C’è questo legame puro, appassionato e teso che si distende e si ritrae come un elastico. E va avanti e indietro, in continuazione. E noi possiamo vivere, dalla nostra posizione privilegiata di spettatori, l’adolescenza di Ellie, la sua maturità, il momento esatto – traumatico, non ci gireremo intorno – in cui diventa adulta. I sorrisi che lei e Dina si scambiano sono sorrisi veri, complici; sorrisi che arrivano oltre lo schermo, e che rendono il racconto ancora più convincente. 

The Last of Us, la serie, ha mantenuto sempre un certo dinamismo nella sua evoluzione e nel suo andamento. Gli attori non improvvisano, ma prendono la sceneggiatura, la leggono, se ne appropriamo e insieme ai registi arrivano a soluzioni nuove. Paradossalmente, l’ambientazione – siamo in un mondo simile al nostro, post-apocalittico, dove la civiltà umana è allo sbando – è solo uno spunto. Ci è stato detto tutto ciò di cui avevamo bisogno già nella prima stagione. Ora ci sono altri dettagli, altri livelli, un’ulteriore complessità – che si aggiunge alla complessità di partenza. Ridurre in qualche modo lo spazio narrativo, dargli delle coordinate, permette agli scrittori – e quindi ai registi, agli attori, eccetera eccetera – di essere più liberi. Perché il centro dell’attenzione del racconto è più chiaro. The Last of Us è una storia di uomini e donne spezzate, che provano a ricominciare dopo una tragedia senza precedenti. Alcuni sono soli, altri invece hanno una famiglia. Tutti, però, hanno provato sulla propria pelle quello che vuol dire perdere qualcosa: un amico, una casa, un riferimento.

Ellie e Joel non sono un’eccezione. Rappresentano l’estremizzazione di questo concetto e di questa sofferenza. E la stessa cosa si può dire per Abby, interpretata da Kaitlyn Dever (qui la somiglianza fisica con il personaggio dei videogiochi è evidente). Lei è l’altra faccia della medaglia. Ed è l’altra storia che, con il primo capitolo di The Last of Us, specialmente con la sua conclusione, non era stato possibile raccontare. E anche questa è una storia di sofferenza, di soprusi e di privazioni. Abby odia Joel, Joel si aspettava di essere odiato da Abby e dai suoi compagni, ed Ellie odia Abby. Sembra un ciclo senza fine, perfettamente bilanciato, dove non ci sono sbavature. La bellezza di The Last of Us, però, sta nella sua capacità di prendere questo ciclo, di spezzettarlo e di rivoltarlo come un calzino, proprio per spiegare al videogiocatore e allo spettatore che quello che sta vedendo, che ciò che stanno facendo i vari personaggi, non è solamente terribile, ma è soprattutto umano. E umano, attenzione, non significa buono o giusto; significa pieno di errori, di incomprensioni, di rabbia, di sentimenti viscerali, di delusione e di speranza. Umano significa essere, volenti o nolenti, prevedibili. E allo stesso tempo diversi, unici, completamente privi di una direzione o di un’agenda. Insomma, insicuri.

Nella linearità della storia della seconda stagione di The Last of Us – Tizio uccide Caio, Sempronio vuole vendicarsi di Tizio – c’è spazio per la caratterizzazione dei personaggi e per dare una consistenza ulteriore a ciò che era già stato detto e mostrato nel videogioco. La serie, dopotutto, deve poter funzionare come un prodotto indipendente. E deve rivolgersi tanto agli appassionati della saga videoludica quanto allo spettatore medio, che magari non sa niente della storia originale, delle polemiche online o di quello che intendevano raccontare Neil Druckmann e Naughty Dog. In questo contesto così interessante, possono farsi avanti personaggi come la Gail di Catherine O'Hara, che offre un punto di vista completamente differente e che, con il suo cinismo, riesce ad arrivare alla sostanza delle cose. I momenti a due che condivide con Pedro Pascal e il suo Joel sono stupendi. La dimensione cinematografica e quella televisiva si fanno indietro, lasciando spazio all’intimità di una messa in scena quasi teatrale. E in questo modo, per l’ennesima volta, a contare sono i dettagli, i piccoli gesti, le microespressioni della faccia, il modo in cui le lacrime arrivano all’improvviso e senza nemmeno un sussulto rigano le guance. Visto però che la seconda stagione di The Last of Us racconta un viaggio, quindi un movimento preciso da un punto A a un punto B, un po’ com’era successo nelle puntate precedenti, conta avere anche una visione più ampia, in cui dare spazio all’azione e alla tensione.  

L’elemento horror di The Last of Us non scompare, ma – come tante altre cose – si evolve. Se i mostri nella prima stagione erano diversi da noi, in questo caso ci somigliano, parlano con le nostre stesse parole e, se possibile, fanno ancora più paura. Perché non c’è un limite alla loro cattiveria, alla loro sete di potere. Da una parte c’è un gruppo paramilitare che non si fa alcuno scrupolo e dall’altra c’è una setta religiosa che è pronta a uccidere e a deturpare i suoi stessi fedeli. Tutto viene fatto in nome della sopravvivenza. Ma se nel primo caso è evidente la voglia di ristabilire un qualche tipo di ordine legato al passato, nel secondo la paura si mischia alla speranza e genere qualcosa di totalmente differente.

Ellie, Joel, Abby e Dina si trovano in mezzo, quasi su un altro piano. E hanno la loro storia e i loro obiettivi, che però devono fare occasionalmente i conti con ciò che li circonda. Ed è questo continuo avanti e dietro, che è fatto di picchi narrativi pazzeschi, a tenere sempre alta l’attenzione dello spettatore. The Last of Us, anche con questa seconda stagione, si riconferma l’esempio migliore di un adattamento di un videogioco in un altro linguaggio. Perché funziona, perché riesce a citare intere scene e sequenze senza perdere di vista il proprio obiettivo. E perché, molto semplicemente, è bella. E in quest’idea di bellezza, che può essere chiaramente declinata in infiniti modi, da un’idea più o meno superficiale a una che va oltre la semplice estetica, rientrano la complessità che citavamo prima, le contraddizioni umane, le interpretazioni degli attori (Pedro Pascal e Bella Ramsey sono stupendi), la qualità della scrittura e la visione dei due showrunner. Questa è la fine per la storia che abbiamo conosciuto con i videogiochi, ma a suo modo è pure un inizio per l’industria dell’intrattenimento. Perché ci saranno sempre un prima e un dopo The Last of Us.

Pubblicato il: 07/04/2025

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