BIONIC BAY
L’inquadratura è quasi del tutto occupata da un uomo di spalle. “Siete proprio le persone che ci servono per l’officina”, dice una persona che parla in tedesco. Non sappiamo chi sia: non è visibile. L’uomo di spalle continua a muoversi. “Avrete un lavoro e una buona paga! Dopo la doccia avrete una zuppa calda. Poi venite da me”, prosegue la voce fuori campo. Iniziamo a vedere in sottofondo uomini nudi che si muovono. Sono sfocati: il focus della telecamera continua a trovarsi sulle spalle dell’uomo. “Più in fretta! Non dimenticatevi il numero del gancio. Sbrigatevi, altrimenti la zuppa si raffredda”. La voce in tedesco ordina di aprire la porta delle docce. Decine di figure sfocate entrano nel locale sotto lo sguardo vigile dell’uomo di spalle. Nel momento esatto in cui la porta viene chiusa, lui inizia freneticamente a rimuovere giacche e cappotti dai ganci dove sono stati appesi dai rispettivi proprietari. Dopo pochi secondi, si sente il rumore di pugni che sbattono furiosamente contro la porta chiusa dall’interno. L’uomo è stavolta inquadrato frontalmente: tiene la testa leggermente china, è immobile, con un’espressione perfettamente neutra. Non sembra turbato dalle urla, dal rumore, dalle persone che stanno morendo uccise da un insetticida sviluppato una ventina di anni prima da un ebreo tedesco impiegato della Bayer, vincitore del Premio Nobel per la chimica. Perché dietro quella porta chiusa c’è una delle camere a gas di Auschwitz, e lui è Saul Ausländer, un prigioniero ebreo-ungherese impiegato nei Sonderkommando, unità di individui obbligati ad aiutare le Schutzstaffel tedesche a disporre dei corpi e degli averi delle vittime degli orrori dei campi di concentramento. Il Figlio di Saul fu il debutto cinematografico del regista ungherese László Nemes nel 2015, vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes nel 2015 e del premio come Miglior Film Straniero agli 88esimi Academy Awards – quelli che conosciamo comunemente con il nome di “Oscar”.
Il Figlio di Saul è un esempio perfetto per comprendere come la scelta dell’inquadratura e del formato dell’immagine mostrata a schermo può cambiare completamente il risultato finale di un prodotto audiovisivo. Nemes scelse di usare un’inquadratura stretta, perennemente incollata sul volto di Saul, lasciando sullo sfondo gli orrori del campo di concentramento di Auschwitz. Una svolta inattesa nella vita di Saul porta il regista a tornare a campi e controcampi più ordinari: non vi dirò troppo, nella speranza che abbiate già visto il film, o che vogliate recuperarlo in futuro. Oltre alla questione dell’annullamento pressoché totale della profondità di campo, c’è quello del formato. Il regista ungherese ha girato in 35mm e in formato 1.375.1, formato standard nel cinema muto dell’inizio degli anni Trenta del Novecento. Il risultato è di rendere quasi invisibile il campo di sterminio intorno a Saul, stretto in un quasi-quadrato: lo vediamo prevalentemente attraverso gli occhi induriti di Saul, e lo intuiamo nelle figure che corrono sullo sfondo, sfocate, tormentate, quasi invisibili, ma rumorose, urlanti. Questo costruisce un rapporto strettissimo tra lo spettatore e Saul (come scrisse Nemes nelle sue note di regia: “la cinepresa è la sua compagna e lo affianca in questo inferno”), fino al finale. Raramente ne ho visti di così perfetti. Ho un cuore indurito anch’io, ma quando vidi Il Figlio di Saul al cinema piansi tutte le mie lacrime.
Giocando Limbo, ormai un po’ di anni fa, ho realizzato ancora una volta l’importanza dell’inquadratura. Sarebbe un errore pensare che questa sia uno strumento chiave soltanto nel cinema. Non è così. La figura del bambino di Limbo era piccina nell’economia complessiva dello schermo del mio PC, ma non così minuscola da rendere insignificanti le numerose morti del protagonista. Era impossibile comprendere quali fossero i lineamenti del viso del bambino senza nome, che colore di capelli avesse, come fosse vestito: il bimbo è una massa nera così come sono neri gli ambienti in cui si muove. Nere le scatole, neri i binari, nere le trappole, nere le zampe del ragno. Un ragno che ha trafitto il bambino numerose volte, dandomi un senso di disagio e, a volte, di vago voltastomaco. Preferivo evitare i game over, in Limbo: proseguivo con cautela, piano piano, prestando la massima attenzione alla sorte del mio piccolo protagonista.
Continuiamo in questo zoom out nelle nostre tre inquadrature e arriviamo alla terza. Il Figlio di Saul, Limbo, e poi Bionic Bay. Nel puzzle platform di Psychoflow Studio e Mureena Oy, lo scienziato è, senza mezzi termini, minuscolo. Il campo, qui, è lunghissimo. Nelle immense ambientazioni biomeccaniche del gioco – industrie semi-abbandonate, foreste, caverne – il protagonista è poco più di una puntina di spillo. Tanto che si fa quasi fatica a definirlo “protagonista”. E di certo non si stabilisce alcun legame empatico con lui. Nelle circa nove ore che mi sono state necessarie per completare tutti i livelli di Bionic Bay, non mi sono sentita minimamente a disagio nel vedere lo scienziato esplodere, volatilizzarsi, scomporsi come un bambolotto di pezza dopo una rovinosa caduta, precipitare in un abisso senza fondo, e molto, molto altro ancora.
Si muore tanto, in Bionic Bay, e si muore spessissimo. L’aspetto trial-and-error è talmente ingranato nel design del gioco che la scelta di allontanare moltissimo la telecamera dal protagonista deve essere sembrata necessaria al team di sviluppo. Questo perché Bionic Bay non è, e non vuole essere, un gioco horror-splatter: la morte dello scienziato è un mero accidente necessario per testare le proprie ipotesi e poi proseguire all’interno dei livelli. Mi sono trovata più volte a immaginare un Bionic Bay con un’inquadratura stretta sul personaggio: penso che avrei abbandonato il gioco dopo una decina di minuti, perché vedere il mio avatar spiaccicato o frantumato in mille pezzi ogni pochi secondi mi avrebbe fatto venire un bel mal di pancia. Altro che il ragno di Limbo.
Bionic Bay è un videogioco di pochissime parole. Inizia con un esperimento scientifico andato storto: sembra che tutti i compagni dello scienziato protagonista muoiano, tranne lui. Iniziamo così un percorso a ostacoli che ci porta a guadagnare vari poteri conferiti dai misteriosi macchinari che ci circondano. Sulle prime, un fascio di luce caricato da un liquido di natura ignota ci conferisce un’elasticità fuori dal comune. Lo scienziato salta con un entusiasmo sovrannaturale, riesce a sopportare cadute da altezze notevoli e rotola con una veemenza mai vista (nemmeno nelle mie run di Dark Souls con fast roll). Dopo un po’, il ritrovamento di un telecomando ci introduce alla meccanica principale di Bionic Bay: quella dello scambio. Toccando gli oggetti interagibili presenti sul suo cammino, il protagonista può scambiarsi di posto con gli stessi. Un esempio per capirci: se un raggio laser ci sta puntando, possiamo teletrasportarci al posto di una bomba che abbiamo toccato in precedenza con il telecomando, e mentre la bomba esploderà in mille pezzi a causa del raggio, noi saremo in salvo qualche metro più indietro. Comodo, no?
La velocità dell’azione rende le cose complicate. Al contrario di un platform come Limbo – con cui ha limitatissimi, se non quasi inesistenti punti di contatto – siamo portati ad attraversare i livelli di corsa, saltando e rotolando tra mille ostacoli, con bombe che esplodono in sequenza e razzi da cavalcare per giungere alla piattaforma successiva. È tutto spettacolare da vedere e, in linea di massima, è chiaro quali elementi fanno parte dello sfondo, e quali invece sono interagibili da parte del protagonista. Lo stile visivo è certamente uno dei punti forti di Bionic Bay, con una pixel art ad alta densità che conserva una certa ruvidezza, ma permette anche di gestire un sistema di illuminazione suggestivo, che regala giochi di cromatismi di una bellezza assolutamente fuori scala.
Questa frenesia di un incedere veloce (e impietoso verso l’incolumità del protagonista) si sposa alla perfezione con la modalità online dedicata allo speedrunning competitivo. Le gare a tempo si svolgono visualizzando i “fantasmi” degli avatar degli altri giocatori, con una classifica mondiale che spinge a fare sempre meglio. Sono certa che la vivace comunità di speedrunning apprezzerà le sottigliezze del gameplay di Bionic Bay, che non mi ha mai messa di fronte a situazioni che ho percepito come ingiuste o eccessivamente rigorose. E le prestazioni del gioco sono sempre state impeccabili su Steam Deck.
A volte ho pensato che questo viaggio nel cuore pulsante di una sequenza infinita di macchine e bombe pericolosissime fosse un po’ fine a sé stesso. Nei livelli si possono trovare spezzoni di informazioni su questo mondo misterioso, ma nulla che sia riuscito a catalizzare la mia attenzione. Ho partecipato molto più attivamente alle vicende di altri puzzle-platform ad alto tasso di mistero: Inside su tutti, per citare un altro videogioco di Playdead. Bionic Bay è stato per me un’appassionante avventura a perdifiato, certo, ma dubito che mi lascerà qualcosa nel lungo periodo. Forse quello scienziato era un po’ troppo piccolino nel mio schermo per strapparmi il cuore e tenerselo con sé. Non gliene faccio una colpa: è stato molto paziente nel sopportare le mie tante sbadataggini.
Pubblicato il: 18/04/2025
Provato su: PC Windows
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